L’ultimo dei Galacticos
Torrejón de Ardoz è un piccolo centro a 20 chilometri da Madrid. Forse è difficile definirla una vera e propria città, quanto piuttosto una sorta di dormitorio per gli studenti che accademicamente si impegnano nelle università della capitale spagnola. E poi Torrejón è conosciuta per un’istituzione in particolare.
Lì infatti risiedono i quartieri generali sia dello European Union Satellite Centre che dell’Instituto Nacional de Técnica Aeroespacial: insomma, Torrejón è il posto dove si osservano le stelle, le evoluzioni dell’universo. Viene quasi da ridere pensando che per anni, a Madrid, le costellazioni si sono allineate nella forma voluta dal presidente del Real, Florentino Pérez.
L’epoca dei Galácticos travalica qualunque tempo: anche i più giovani sanno bene il tipo di roster che il Real poteva schierare tra il 2000 e il 2006, il periodo in cui idealmente i Blancos hanno toccato l’indice più alto di stardom (per le vittorie, invece, le vette sembrano le stesse). Eppure tra le loro stelle non compariva mai (o non aveva i giusti riconoscimenti) un ragazzo che ha giocato 542 partite e che ha illuminato il Bernabeu, pur non avendo il posto da titolare garantito o una price tag enorme appiccicata sulla schiena.
José María Gutiérrez Hernández, detto “Guti”, è forse stata la stella più discontinua di un complesso scintillante. Ciò nonostante, la sua evoluzione da giocatore conferma quanto alcuni antropologi hanno detto più di cent’anni fa: per sopravvivere ai cambiamenti dell’ambiente circostante — da Torrejón a Valdebebas, dalle tre Champions al non vincere più in Europa — bisogna adattarsi velocemente al nuovo scenario.
E in questo Guti è stato un maestro.
Impatto madrileno
Tutto è cominciato a un’età piuttosto precoce: ad appena dieci anni, Guti entra nelle giovanili del Real, precisamente nella categoria Alevín. È il 1986: in prima squadra, si è stabilita da tempo la “Quinta del Buitre”, il quintetto di giocatori — Manuel Sanchís, Martín Vázquez, Míchel e Miguel Pardeza, guidati da Emilio Butragueño — che ha riportato il Real a certi livelli.
Ci vuole un decennio prima che quel biondo attaccante esordisca con la prima squadra. Dopo essersi alternato tra l’equipo B e addirittura il Real Madrid C, l’esordio con i Blancos in Liga arriva il 2 dicembre ’95 contro il Siviglia per volere di Jorge Valdano. Guti riesce addirittura a segnare in quella stagione, ma la rivoluzione sta per arrivare.
L’estate del ’96 è un terremoto per il Real: il presidente Sanz ingaggia Fabio Capello e soprattutto porta a Madrid una serie di nuovi giocatori, che dovrebbero togliere diverso minutaggio al giovane Guti. Peccato che saranno personaggi fondamentali per la rinnovata dimensione continentale dei Blancos: Roberto Carlos, Seedorf, Bodo Illgner, ma soprattutto Mijatović e Šuker, che con il canterano eccellente Raúl compongono il tridente d’attacco nel 4–3–1–2 di Capello.
Per il Real è la mossa giusta: arriva la vittoria in Liga e soprattutto la Champions l’anno successivo. A conquistarla non c’è Capello, bensì Jupp Heynckes. In squadra è arrivato anche Fernando Morientes — un altro che al Real ha fatto discrete cose — e lo spazio per Guti sembra ridursi sempre più. E allora cosa ci si chiede cosa potrebbe differenziare la sua carriera da quella di tanti esuli madrilisti (per fare qualche nome solo in attacco, da Soldado ai più recenti Jesé e Morata, poi tornato a Madrid).
In fondo, la traiettoria sembra la stessa: Guti ha fatto vedere buone cose nelle formazioni giovanili, così come nelle Under spagnole, con cui ha vinto l’Europeo U-18 nel ’95 e quello U-21 nel ’97. Né Hiddink, né Toshack gli hanno però dato spazio: in quattro stagioni al Real, lo score parla di sole cinque reti in 84 presenze, con una media-gol di 0.06 a gara. Inoltre, nonostante le partenze di Mijatović e Šuker, a Madrid è arrivato Nicolas Anelka, all’epoca un teenager d’oro.
Ci vuole un incontro che cambi la sua carriera. Quell’incontro avviene nel novembre ’99, quando Toshack viene esonerato e al suo posto torna un signore che ha giocato e già allenato il Real, seppur ad interim. Quel signore è Vicente del Bosque, che è pronto a dar vita all’epoca più sfolgorante vissuta al Bernabeu dopo gli anni ’60.
Il nuovo tecnico del Real ha guardato con attenzione alla cantera, sperando di portare in prima squadra diversi giocatori. Lui stesso ha raccontato in seguito come al campo delle giovanili gli segnalarono «un biondo dalle discrete capacità» e che Guti «è un bravo ragazzo, ha un gran cuore ed è un madrilista al 100%». Come ci ricorda il libro “El método del Bosque” di Joaquin Maroto:
«Molti ragazzi erano eccitati dell’arrivo di del Bosque sulla panchina della prima squadra. Tra questi, Guti era uno di loro. Aveva un debole per del Bosque non solo per il suo modo di essere, ma anche perché quando lo incoraggiava a colpire la traversa da fuori area, era un modo per allenare l’enorme qualità che Guti aveva. Tuttavia, Vicente ci ha lavorato con umiltà, la stessa che ha oggi».
E qualcosa effettivamente cambia: dal 2000–01, Guti comincia a giocare da titolare anche a causa dell’infortunio di Morientes. Dopo aver fatto vedere qualcosa in pre-stagione (come contro il Milan in occasione del suo centenario), anche il numero dei gol per stagione si alza. In quell’annata si arriva a 14 marcature stagionali. Se l’arrivo di Florentino Pérez alla presidenza del Real segna l’inizio dell’era dei Galácticos e dell’arrivo di alcune superstar — la prima fu Luis Figo — Guti ha comunque il suo spazio nelle rotazioni di del Bosque, che non si dimentica di lui.
Tuttavia, un cambiamento sembra necessario per sopravvivere a quest’era fatta di acquisti presentati in pompa magna e sovraffollamento in attacco.
Camaleonte
Quando ha iniziato a giocare per la cantera del Real, Guti viene schierato da attaccante centrale. Ciò nonostante, le prove sul campo e i tanti arrivi al Bernabeu negli anni 2000 hanno reso impossibile per qualunque mortale farsi spazio da zero nell’attacco del Real. Probabilmente la loro carriera conferma questa difficoltà, ma date un’occhiata alle carriere di Pedro Munitis o Javier Portillo e capirete di cosa si stia parlando.
In cinque anni — dal 2001 al 2006 — il Real si può fregiare di un attacco atomico: oltre ai confermati Raúl e Morientes, a corrente alternata ci sono Zidane, Figo, Ronaldo, Beckham, Owen, Robinho, Julio Baptista e Cassano. Se non vuole che la sua stella si spenga ai primi vagiti di luce altrui, Guti deve cambiare la propria natura e il suo raggio d’azione deve arretrare. Lo sa anche lui: «Stavo migliorando come centrocampista e poi è arrivato Zidane. Stavo facendo progressi davanti e hanno comprato Ronaldo. Ora che sono in nazionale è arrivato anche Beckham…».
Dall’arrivo di Ronaldo nell’estate 2002, Guti viene inserito nel roster del Real Madrid come centrocampista. Magari offensivo, ma la sua porzione di campo ha cominciato a indietreggiare. Una mutazione iniziata appena in tempo, perché nonostante abbia portato il Real a essere tra le prime quattro della Champions per un quadriennio, Vicente del Bosque lascia il Real nel 2003.
La discontinuità tecnica che dominerà il Real da quel momento fino all’arrivo di Mourinho farà il resto: a Madrid si festeggiano altri due titoli nazionali, ma in Champions non si riuscirà più ad arrivare oltre i quarti di finale, subendo ben sei eliminazioni di fila agli ottavi di finale della massima competizione europea (per mano di Juventus, Arsenal, Bayern Monaco, Roma, Liverpool e Olympique Lione). E soprattutto si succedono ben nove tecnici diversi in sette stagioni.
Lo spostamento di Guti qualche metro più indietro si fa notare subito nelle cifre: dai 18 gol del 2000–01 si passa ai 13 delle due annate successive, fino ai tre del 2003–04. Eppure Guti ha giocato almeno 30 partite stagionali — con una stagione conclusa a quota 54! — per dieci anni di fila, avendo più opportunità di andare a segno. Tuttavia, il suo compito in campo — complice anche la tecnica a sua disposizione e l’esperienza accumulata — è cambiato.
L’ulteriore evoluzione arriva nel 2006: il cambio di ruolo viene ulteriormente sdoganato quando Guti viene schierato da Fabio Capello — tornato ad allenare il Real — come playmaker di centrocampo. Senza Zinedine Zidane (ritiratosi quell’estate) e con Kakà rimasto al Milan, il futuro del 14 madrileno sembra ancora al Real. Lui ripaga la squadra e la fiducia del tecnico con una seconda fase della sua carriera diversa dalla prima.
Vedere il Guti di quegli anni è come osservare una stella che sta per esaurire il suo percorso, ma che ha una lucentezza diversa. Il centrocampista ha solo trent’anni, ma è come se la sua carriera sul campo fosse iniziata da capo. Anzi, è lui a decidere la corsa al titolo di quell’anno.
In casa contro il Siviglia (sì, il Siviglia del doppio trionfo in Coppa UEFA), il Real è sotto. Capello decide per un cambio forte: fuori Raúl, dentro Guti con la fascia di capitano al braccio. In 31 minuti di gioco (più recupero), la chioma bionda disegna traiettorie invisibili ai più, attendendo i tempi giusti per gli inserimenti dei compagni e regalando un pezzo di Liga al Real con il sorpasso in classifica al Barcellona.
Ultime esibizioni (ed Erasmus turco)
Nonostante questa crescente importanza nella mediana del Real, gli infortuni hanno limitato le ultime apparizioni di Guti al Bernabeu. Non nella qualità, perché i 18 assist registrati in tutte le competizioni nel 2007–08 rappresentano un picco della propria visione di gioco. Tuttavia, le incomprensioni con Manuel Pellegrini nell’ultimo anno di Real e alcuni acciacchi non hanno concesso a Guti l’addio in cui forse sperava.
In seguito, sono subentrati altri due problemi: il ritorno di Pérez alla presidenza del Real e soprattutto l’arrivo di José Mourinho, che opta per un grosso rinnovamento della squadra, iniziato già con gli arrivi di Xabi Alonso e Kakà. Se ci aggiungiamo gli acquisti di Khedira e Özil nell’estate 2010, non c’è spazio per Guti. Il tempo dei saluti è arrivato:
«Grazie a tutti: vado via sapendo che il Real sarà sempre casa mia».
È un’estate traumatica per gli affezionati del Real. Nello spazio di qualche settimana, il capitano e il vice-capitano — primo e decimo nella classifica all-time delle presenze, che insieme ammontano al modico numero di 1283 — lasciano i Blancos. Se Raúl continuerà però a prosperare tra Germania, Qatar e Stati Uniti fino al 2015, l’avventura di Guti lontano da Madrid sarà più breve.
Dopo qualche perplessità, il centrocampista sceglie Istanbul per continuare la sua carriera: Guti firma un biennale con il Beşiktaş, che ha optato per una campagna acquisti di gran livello. A posteriori sembra un “cimitero per elefanti”, ma gli arrivi di Quaresma, Simão e Hugo Almeida — insieme a quello dell’ex Real — galvanizzano una piazza delusa dal quarto posto del campionato precedente.
In realtà, l’esperienza sarà deludente per entrambe le parti, almeno dal punto di vista dei risultati. Il Beşiktaş chiude il campionato al quinto posto, mentre Guti non trova quella consacrazione estera in cui sperava. Certo, ci sono dei bei momenti: il club turco alza la coppa nazionale e vince in casa del Galatasaray per la prima volta in otto anni, ma non è l’annata in cui tutti speravano.
Con l’arrivo in panchina di Carlos Carvalhal, Guti ha cominciato a giocare sempre meno e a novembre 2011 è arrivata la rescissione del contratto. Ciò nonostante, è impressionante osservare come ancora oggi i 15 mesi trascorsi a Istanbul abbiano lasciato un’impronta sul giocatore e sui tifosi turchi.
Ad memoriam (ma non troppo)
Se mi affido ai miei ricordi di ragazzo, credo non sia una profanità affermare come Guti sia stato — forse insieme a Robert Pirès — il giocatore più sottovalutato del nuovo secolo.
Eppure la sua carriera evidenzia un dato più unico che raro: Guti non ha mai disputato né un Mondiale, né un Europeo, nonostante abbia fatto parte di una delle squadre più forti della storia. Il suo bilancio con la Spagna è di appena 13 presenze e tre gol, con un’esperienza chiusa nel 2005, all’alba della svolta targata Luis Aragonés. Tuttavia, Guti aveva un ultimo desiderio, già espresso ai tempi del suo addio nel 2010:
«Non so dove andrò a giocare, ma spero di poter dare un contributo al Real anche quando la mia carriera da calciatore sarà finita».
Una volontà ribadita quando si è ritirato: «Penso che diventerò un direttore sportivo o allenerò i ragazzini… il mio sogno, però, è tornare al Real, magari nelle giovanili del Madrid». Un sogno realizzato, visto che Guti oggi allena la Juvenil A dei Blancos, dopo aver gestito la Juvenil B e gli U-12. Una gestione che ha portato in dote un triplete giovanile nel 2016–17 (División de Honor, Copa del Rey Juvenil e Copa de Campeones), svezzando anche gente come Hakimi, che poi ha vinto quest’anno la Champions sotto Zidane. E infatti, all’addio di Zidane, il suo nome è apparso tra i possibili successori (con la benedizione di Don Fabio Capello), scavalcando anche quel Santiago Solari che è oggi il manager della Castilla.
Quel che però mi ha sempre lasciato perplesso è la sua legacy, il ricordo che noi abbiamo di quel 14 con la chioma folta e dal temperamento focoso, così contrapposto alla comprensione del gioco che il suo cervello calcistico aveva a disposizione. Ramón Calderón, presidente del Real Madrid nell’intermezzo tra le due ere Pérez, l’ha definito «un’eterna promessa». Personalmente, a me sembra proprio il contrario.
Da giovane, Guti non ha dato nessun segnale — almeno fino a 25 anni — che potesse indicare in lui la presenza di un campione. Forse era destinato a una carriera da eterna riserva, semmai, da back-up per una squadra di campioni. Chi l’ha salvato (e valorizzato), ancora una volta, è stato del Bosque, capace di comprendere come quell’enorme potenziale tecnico potesse esser utilizzato anche in altre zone del campo, allungandogli la carriera.
Seppur volatile, il suo potenziale è diventato realtà una volta messo nelle condizioni di essere al servizio della squadra nel momento giusto e nel ruolo giusto, ovvero da regista creativo e magari tentando di metter da parte le tante, ripetute intemperanze che ne hanno segnato la carriera (tra cui diversi cartellini rossi). E per quanto instabile possa esser stato il suo rendimento, la colpa è più da ascrivere al tentativo di renderlo un universale capace di far tutto piuttosto che cucirgli addosso un unico vestito. Dove, forse, avrebbe dato tutto.
Non è mai stato autorevole al Real come Raúl o poi Casillas, ma ancora oggi è uno dei madrilisti più autentici e in vista sui media. Non ha avuto la stessa aura scintillante delle tante stelle transitate a Madrid, tanto che in Spagna si è parlato di «mucho talento, poca cabeza». Eppure quella cometa non si è mai spenta, brillando di luce propria con il passare del tempo.
Cicerone diceva: «Nessuno vede quello che c’è davanti ai propri piedi, perché tutti volgiamo lo sguardo alle stelle». Se avessimo prestato un po’ più d’attenzione, oggi daremmo un maggior valore storico a quel rubio dal talento discontinuo.