Major Conferences, Pt1

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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9 min readMar 13, 2015

Ci siamo! Se vi state chiedendo perché abbiamo un sorriso alla Freddy Krueger vi diamo una mano. E’ finalmente marzo.
Questo significa che inizia la primavera, finiscono le sessioni d’esame invernali, si ricominciano a mettere le magliette a mezze maniche e si progettano mirabolanti vacanze estive (che puntualmente falliscono intorno ad aprile). Ma soprattutto si entra nel mese della follia collettiva del basket collegiale.
Nel caso in cui tutte queste notti avete preferito dormire piuttosto che guardare dei neodiciottenni correre sudati su e giù per i parquet di mezza America siete fortunati, perché c’è chi l’ha fatto per voi. Ecco qui dei parzialissimi riassunti di cosa è successo nelle Major Conference NCAA.

Southestern Conference

La storia non è Storia finché non diventa tale

Eravamo stati facili profeti quando scrivemmo che Kentucky aveva la possibilità di terminare la stagione imbattuta e finora i ragazzi di Calipari ci hanno assistito. Dopo l’ultima vittoria in casa su Florida, UK si presenta al Championship forte di un record immacolato, in cui ha letteralmente asfaltato la SEC e si presume riserverà la stessa sorte anche al Conference Tournament. Secondo ESPN’s Basketball Power Index le possibilità di Kentucky di vincere il torneo della SEC ammontano all’87%. Ciò vorrebbe dire arrivare da testa di serie n.1 della nazione con un record di 34–0 e sarebbe la prima volta dagli Indiana Hoosiers nel 1976 che una squadra di una major conference arrivi al Torneo imbattuta.
E’ stato un percorso esaltante per la Big Blue Nation, affamata di record da abbattere, ma non è stato così pianeggiante come il record sembri suggerire. In realtà UK ha dovuto affrontare vari pericoli sulla sua strada, ma, come nella miglior tradizione dei romanzi di formazione, tutto questo un giorno le sarà utile. Quel giorno sarà, si spera in casa biancoblù, il 6 Aprile, il giorno della finalissima a Indianapolis.
Tra gli elogi e gli applausi non bisogna dimenticare che i Wildcats sono la quinta squadra più giovane in Divison I, frutto perfetto di quell’One and Done di cui Calipari è primo sacerdote, e che i momenti di difficoltà sono necessari tanto quanto le vittorie. Anzi sono stati i successi strappati con le unghie e con i denti ad entusiasmare coach Cal, convinto che i suoi Wildcats non sono solo un gruppo di incredibile talento, ma soprattutto un collettivo che ha imparato a giocare come squadra.

“In this society, instead of me, me, me, it’s us, us, us.”

Queste le parole riferite alla squadra dopo la vittoria in casa contro Florida che ha chiuso per la stagione le partite al Rupp Centre mentre i giocatori festeggiavano in mezzo al campo indossando una maglia che riportava “31–0 Not Done”.

Questo è il proclama che veste Lexington entrando finalmente nel Torneo. Non conta cosa hai fatto prima di scendere in campo. Conta cosa fai sul campo. Molte squadre sono arrivate dove è ora Kentucky e sono tornate a casa anzitempo. A Lexington l’unico risultato utile è il titolo, mancarlo avendo stabilito record su record sarà solo una beffa in più. Kentucky non ha sbagliato quando paradossalmente poteva ancora sbagliare, ora una singola partita storta segnerebbe irrimediabilmente il fallimento. Dovrà quindi sfidare, oltre una nazione di squadre che non vedono l’ora di guadagnarsi le prime pagine, la pressione che loro stessi hanno contribuito a crearsi. Cal spera che il vittorioso percorso della SEC abbia cementato le certezze di un gruppo in grado di fare la storia. Fuori da Lexington ci sono altre 63 squadre che hanno altre idee.

https://www.youtube.com/watch?v=gNgp3q_NJr4

Kentucky Basketball e musica che non ci azzecca nulla.

PAC12

Come una conference finì col diventare una favola

Sembrava essere una corsa a due per il titolo della Pacific Conference, tra la solidità di Zona e la rinascita degli Utes, ma con il passare delle partite la squadra di Sean Miller si è confermata al vertice proponendosi per l’ennesima volta come una delle squadre da seguire quando si entra dentro Marzo.
Arizona rispecchia alla perfezione il suo allenatore, il cui ordine maniacale e la cristallina disciplina erano già esposte nella sua carriera da playmaker a Pitts, e ora, riproposte sul parquet di Tucson, hanno risanato uno dei programmi storici della costa occidentale. Miller ha riportato Zona a vincere due titoli di conference consecutivi, cosa che non succedeva dai tempi gloriosi di Lute Olson, e sopratutto ha ristabilito il soprannome universitario di Point Guard U. Durante gli anni ’90 infatti Arizona diventò famosa per sfornare continuamente playmaker di indubbio talento, alcuni dei quali sono poi arrivati fino in NBA (Steve Kerr, Jason Terry, Mike Bibby, Gilbert “Agent 0” Arenas). Ora a comando della squadra del deserto c’è un senior che probabilmente non seguirà mai le orme dei suoi antenati fino alla lega più spettacolare del mondo, ma che al McKale Center è divenuto un piccolo grande eroe.

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La storia di T.J. McConnell è una di quelle che rendono il basket collegiale un mondo delle fiabe in cui tutto è possibile. Figlio di un allenatore, cresce a Pittsburg nella squadra del padre (come Sean Miller) e, dopo una dignitosa carriera all’High School, riceve una borsa di studio dall’università di Duquesne, sempre a Pitts. Ecco, Duquesne non è proprio quella che in gergo si definisce una powerhouse, in sessanta anni di storia è approdata al Torneo Ncaa solo cinque volte, l’ultima nel 1977. Insomma, bene ma non benissimo. T.J. è il Freshman dell’anno della Atlantic 10, l’anno dopo è A10 All-Defense Team e Third Team All-A10. La squadra però è poca cosa. Le luci del Torneo sono sempre un fioco bagliore in lontananza, neanche si crede che per una stagione intera si è stati sul campo con quegli stessi giocatori che ora vanno in onda sulle reti nazionali. Quando arriva Marzo si tolgono le scarpe da gioco e ci si butta sul divano davanti alla Tv, altro che Big Dance.
Però nel 2012 Sean Miller, che a Pittsburg ha i suoi natali, sente parlare di questa giovane PG che potrebbe comporre un buon tandem con Nick Johnson nella sua nuova Arizona. Gli offre un posto in squadra. T.J. accetta. Sta una stagione fuori dalle competizioni secondo le regole dell’NCAA riguardo ai trasferimenti tra università (la cosiddetta Redshirt Season). Si allena con la squadra ma non può giocare, e guarda dalla tribuna Zona che al Torneo arriva fino alle SweetSixteen. Esce contro Ohio State. Poco male, è la prima volta che vede dal vivo la follia di Marzo.
L’anno dopo è titolare in tutte le partite della stagione con la maglia dei Wildcats, Zona è una delle teste di serie entrando nel Torneo. Batte prima Weber State, poi Gonzaga, poi San Diego State. Alle Elite Eight si va contro i Badgers di Bo Ryan. La partita è bellissima, forse, con Michigan — Kentucky, la più bella del torneo. Nessuna delle due squadre riesce a guadagnare più di tre possessi di vantaggio. Supplementari. Zona sotto di uno, Nick Johnson si butta dentro, allarga il braccio, è fallo in attacco. Così decidono gli arbitri. Decidono anche che Jackson ha sfiorato la palla sulla rimessa. Johnson ci riprova ma non fa neanche in tempo a far partire il tiro. Vince Wisconsin. Sean Miller ha avuto per la terza volte il tiro per andare alle Final Four, non è mai entrato. Una maledizione.
Finita la stagione, se ne vanno Aaron Gordon e Nick Johnson, uno in lottery, l’altro a fine secondo giro. Ormai la squadra è nelle mani di T.J.. Lui la conduce ad un’altro titolo PAC12, sconfigge due volte sia Utah che UCLA, gli odiati rivali. Lo fa da vero capitano di una squadra di Sean Miller, ne è l’estensione in campo. E’ come se Miller e McConnell fossero lo stesso giocatore diviso in due, uno allena, l’altro esegue. I suoi numeri non sono mirabolanti come quelli di altri suoi compagni di squadra ma non c’è un singolo spettatore al McKale Center che si permetterebbe di dire che non è il bianco con la numero 4 il motivo per cui il parquet di Tucson ha la striscia aperta di vittorie consecutive più lunghe della nazione. Sono 37, quasi tutte con McConnell dal primo minuto. Ora toccherà ad altri difenderlo. Ora T.J. e i suoi Cats sono in volo verso il Torneo, per sconfiggere la sorte, per sfatare l’ennesima maledizione.

https://twitter.com/AZATHLETICS/status/574355462985928704/video/1

Se nel deserto si ride, sulle montagne non si piange.

Nello Stato che fu l’habitat naturale dello Stockton To Malone, una volta c’era una squadra collegiale dominante: gli Utah Utes. Non i mormoni, quelli sono a BYU, gli altri, quelli con ancora il nome indiano sullo stemma. Per quindici anni hanno catalizzato l’attenzione di tutta l’America sullo stato più sfigato dopo il Delaware. Tutto merito di questo personaggio pantagruelico, sulfureo, un gigante di centosettanta chili che rispondeva al nome di Rick Majerus. Dal 1989 al 2004 ha abusato della panchina degli Utes, trasformando un programma incolore in una realtà nazionale. Un titolo sfuggito contro Kentucky nel ’98, un’altra manciata di partecipazioni al Torneo. Soprattutto un incredibile voracità cestistica che ha cambiato la cultura sportiva di uno stato.
Poi il nulla.
Colmare il vuoto lasciato da Majerus è stato impossibile. Ci sono voluti dieci anni per trovare qualcuno in grado di raccoglierne l’eredità. Sembra però che qualcosa sul lago salato si stia cominciando a muovere da quando sulla panchina degli Utes si è seduto Larry Krystkowiack. L’ex-giocatore e allenatore NBA a Milwaukee, ha trovato una tabula rasa su cui ricominciare. Non solo un programma ma anche una personale carriera, mai sbocciata tra le precedenti panchine. Non è stato facile riuscire dove molti avevano fallito, ma “L’altro Coach K”, come ormai lo chiamano a Utah, in quattro anni ha riportato una squadra che era considerata tra delle peggiori della nazione ad una rilevanza nazionale che aveva dimenticato di possedere. La crescita degli Utes è stata esponenziale. Sono passati ad essere la 119a difesa due anni fa ad una delle cinque migliori della nazione, il che va insieme con un’efficienza in attacco tra le prime venti. Questo miglioramento difensivo è da imputare soprattutto alle specifiche importate dall’ NBA sulla difesa sul pick’n’roll. Utah cambia su praticamente qualsiasi blocco, spingendo il portatore di palla verso la linea di fondo, fedeli al motto ormai divenuta religione cestistica “mismatches are not gonna kill us, open shots will”. Un modo di giocare che costringe gli avversari a ragionare continuamente con la palla in mano e, disgraziatamente, a perderla spesso. Una volta guadagnato il campo aperto, in transizione gli Utes, rendendo onore al loro soprannome (completo sarebbe Running Utes), segnano punti facili.
Più facile a dirsi che a farsi. Oltre a integrare le innovazioni rubate ai Pro, Coach K ha dovuto soprattutto costruire un nucleo in grado di svolgere i compiti che gli assegnava. Qui si arriva alla parte difficile. Quali sono le fondamenta su cui è possibile creare un programma di successo?

Krystkowiack ha cresciuto un gruppo non estremamente talentuoso, ma che negli anni ha maturato una convinzione nei propri mezzi e nel sistema di gioco superiore a qualsiasi altra squadra in America. Per questo, ad esempio, i sistemi di ratings come KenPom la premiano molto più degli AP Poll (i sondaggi tra la stampa specializzata). Perché Utah è una classe di senior che ha fatto un lungo viaggio per ritornar a veder le stelle.
Però oltre al sistema, alla cultura e alla voglia, per fondare un ciclo vincente serve il giocatore da riflettori. Utah lo ha trovato ancora una volta nel più improbabile dei modi.
Quando Delon Wright arrivò al campus, nessuno sapeva che suo fratello maggiore, Dorell, all’epoca giocava con i Pro. Lui non doveva neanche essere li, c’era arrivato attraverso un’infinità trafila di High School, Prep School, Campus e via dicendo. Come studente-atleta, preferiva la seconda parte alla prima. Uscito per il rotto della cuffia da San Francisco City College (grazie al fratello che giocava a Golden State), accetta immediatamente la borsa di studio che gli offre Utah. Anche perché è l’unica. Però lui il talento ce lo ha sul serio, non come altri boscaioli dello Utah, ed ha anche messo la testa a posto. Perchè ha capito che se vuol giocare a basket lì deve anche superare gli esami. E li supera anche in campo. Nel suo anno da Freshman è l’unica nota lieta in una stagione disgraziata, chiude con 15 punti, 6,8 rimbalzi e 5,3 assist di media. E’ primo team All-PAC12. Potrebbe salutare tutti e tuffarsi nel Draft. Non lo fa. Rimane a Utah.
Quest’anno, da junior, è dominante. Non tanto per i numeri, sempre ottimi, ma perchè per la prima volta porta gli Utes al Torneo. Poi forse se ne andrà tra i Pro a raggiungere suo fratello, che ha sempre guardato dal basso verso l’alto, ma prima vuole concedersi l’ultimo ballo. Lo deve ai suoi compagni, lo deve all’università, lo deve a Coach K. Lo deve, forse, anche a Coach Majerus che ha contributo ha rendere realtà un sogno sul lago salato.

https://www.youtube.com/watch?v=0ywoNBri06Y

E visto che questa è davvero la Conference delle favole anche una squadra come Oregon, che secondo gli studiosi della palla a spicchi doveva perderle tutte o quasi, andrà a giocarsi il Torneo. Ma questa è un’altra storia.

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