Maurizio Sarri, gioia e rivoluzione
«Ho scelto come unico mestiere quello che avrei fatto gratis. Ho giocato, alleno da una vita: non sono qui per caso. Mi chiamano ancora l’ex impiegato. Come se fosse una colpa aver fatto altro…» — Maurizio Sarri su Il Foglio, 30 novembre 2014
Cosa spinge un ragazzo diventato uomo velocemente ad abbandonare il suo lavoro sicuro — al chiuso, remunerativo, in giacca e cravatta — con segretaria carina annessa? Con quelle parole dette di impulso, l’anima di Maurizio Sarri si mostrò al mondo intero nuda e limpida, rivelando la soluzione dell’enigma irrisolvibile per l’uomo medio. Qualcuno, scoprendo la soluzione di quel rebus comportamentale, sorrise in modo mal celato, come a volersi prendere gioco di quello che, a molti, non sembrava più un ragazzo con la testa a posto ma solo un’incosciente vittima di se stesso e dei suoi sogni da bambino mai accantonati. A pensarci bene, per quale motivo i sogni dovrebbero essere accantonati? Perché ammucchiarli in un cassetto che, anno dopo anno, fatica a chiudersi del tutto? Alla fine dell’ultimo mese di lavoro, prima delle ferie estive, all’inizio degli anni ’90, allentò il nodo della cravatta per l’ultima volta, mentre si avvicinava alla porta socchiusa del suo direttore d’ufficio, a Figline Valdarno.
Tornato a casa, Maurizio si diresse a passo svelto verso il cassetto in cui erano ammucchiati i suoi sogni. Con occhio freddo sbottonò la camicia bianca, sfilò il pantalone, perfettamente stirato la sera prima, poi le scarpe, nere e lucide, con la punta quadrata. Piegò tutto con minuzia ed attenzione, riponendo il suo presente nel cassetto dei sogni, ormai svuotato. In un attimo, istintivamente indossò il suo futuro. Una tuta, una polo, scarpe sportive, tutto in tinta nera.
Pensò probabilmente al padre, Amerigo, ex operaio addetto alle gru a Bagnoli, quartiere costiero di Napoli che si congiunge a Fuorigrotta nel lunghissimo abbraccio di Via Diocleziano. Amerigo — oltre a essere un operaio vecchio stampo, ligio al dovere — era un innamorato dello sport, della cultura dello sport. Era stato un ciclista, negli anni in bianco e nero, uno di quelli che aveva sfiorato il suo sogno, correndo per due anni da professionista. Uno capace di vincere 37 gare dilettantistiche e di mandare a quel paese i gregari di Fausto Coppi quando, durante una corsa, mentre stava provando ad andare in fuga, gli fu detto che “il campione (Coppi, ndr) oggi non vuole stancarsi”.
Col padre aveva passato ore interminabili a parlare di sport così come si parla di politica, di filosofia, di vita: «Ricordo i pomeriggi a vedere Merckx, ma anche le notti a guardare i match di Cassius Clay». Sorrise. Poi cominciò a vivere il futuro che per troppo tempo aveva rinchiuso in quel cassetto a prendere polvere. Il primo campo, a metà tra la terra battuta e erba mal cresciuta, fu quello dello Stia nella stagione 90–91, squadra di una frazione del comune sparso di Pratovecchio Stia, non lontano da Arezzo. Poi la Faellese, dall’anno dopo fino al 93, Cavriglia dall’estate successiva fino a quella del 96. Poi, due stagione sulla panchina dell’Antella, una su quella del Valdema, una su quella del Tegoleto all’alba degli anni 2000. Se vi state chiedendo di che squadre stia parlando, tranquilli, è lecito. Per ognuna di queste squadre, ad oggi, non esiste nemmeno una pagina dedicata su Wikipedia. Ai nastri di partenza della stagione 2000/2001, Maurizio era in Eccellenza, sulla panchina della Sansovino, con una fantastica idea, forse ancora grezza, di calcio e bellezza.
Il Sole dell’estate toscana filtrava appena nella nuvola di fumo in cui Maurizio liberava i suoi pensieri. Lo studio meticoloso degli avversari, la linea difensiva in fase di non possesso, la scaramanzia, il fraseggio armonico tra i reparti. Il suo calcio era ancora in fase embrionale ma, Maurizio lo sapeva, era il suo biglietto per il volo che portava alle stelle. In tre anni, guidò la squadra dagli inferi all’anticamera del professionismo, dall’Eccellenza alla C2,vincendo, tra l’altro una Coppa Italia Dilettanti nella stagione 2002/03. L’ossessione per la precisione e la particolare predisposizione per gli schemi su palla inattiva spinsero qualcuno a soprannominarlo Mister 33, dicendo che tanti erano gli schemi che preparava in allenamento: «Ma no, non sono così tanti. In realtà in settimana ne proviamo 4–5 e cerchiamo di applicarli durante la partita». Maurizio non è mai stato autoreferenziale. Modernista, precursore, alle volte futurista, sicuramente un cultore del calcio inteso come fine e non come mezzo. La vittoria sembrava interessargli meno del saper stare in campo, il risultato lo attirava meno di una serie di 26 passaggi consecutivi per stordire l’avversario. La Sansovino fu la porta del professionismo, dal quale Maurizio non sarebbe più andato via. Anzi.
Sangiovannese, Pescara e Arezzo sono stati esami universitari che Sarri superò a pieni voti. A qualche piano più in su, nell’altissimo grattacielo che è il calcio italiano, il suo nome cominciò ad echeggiare attraverso i lunghi corridoi bui. Quando il 18 gennaio del 2007 battè il Milan di Ancelotti, al Città di Arezzo in Coppa Italia, a pochi importò che il suo Arezzo fosse stato poi eliminato ugualmente. Si sa, solo il tempo smussa gli angoli del carattere di una persona. Alla fine della prima decade dei 2000 Maurizio è ormai un uomo adulto, con un diploma in calcio di periferia, una specializzazione in semiprofessionismo e un quasi miracolo nel 2010 all’Alessandria. Maurizio sentì che la laurea calcistica poteva conseguirla solo nella massima serie, tra gli squadroni, in mezzo ai milioni, gli stessi che, in un’altra vita, gli passavano tra le mani, dietro una scrivania in mogano lavorato e lucidato a perfezione. È al Castellani di Empoli, nel 2012, che comincià a scrivere il capito intitolato “consacrazione”. Perché salvare con quattro turno d’anticipo una squadra che si regge sul suo settore giovanile, forzatamente lontana dal calciomercato dei nomi altisonanti, in un campo minato come la serie A rappresenta la consacrazione di un’idea. La sua idea. Colonne sui giornali, elogi a iosa, applausi in ogni stadio furono come petali di centinaia di rose sul tappeto rosso steso ai suoi piedi.
Un tappeto che certo non venne srotolato tutto nell’estate del 2015, perché quando gli squillò il telefono di casa, a Figline Valdarno, dall’altra parte c’era Aurelio De Laurentiis. Voleva affidargli il suo Napoli, composto da buoni giocatori e da qualche campione con il mal di pancia. Napoli rappresenta il ricongiungimento con la sua adolescenza non vissuta, con la vita di Amerigo, con Bagnoli e Fuorigrotta. Napoli è la sua scala per il paradiso, come direbbero quattro ragazzi inglesi che, dal 1968 si facevano chiamare Led Zeppelin. Finalmente, ora, ha a disposizione i mezzi per arrivare al fine, ha gli uomini giusti e, dopo qualche tentennamento, ha anche l’appoggio della gente. Ciò che avviene, ancora oggi, è la sublimazione della sua idea, l’espansione del concetto di calcio che in molti cominciano a chiamare per nome. Con il suo nome: calcio sarriano. Maurizio stravolge il calcio italiano, scuotendo le sue fondamenta difensivistiche, praticando il culto del possesso del gioco, del campo, del destino. Un po’ alla volta, è lo stesso calcio italiano che comincia a seguire la sua dottrina, alle volte emulandola, molte altre volte generando varianti apprezzabilissime. Maurizio Sarri, oggi come allora, è un uomo comune che fa cose straordinarie, seguendo il suo istinto, supportandolo con la dottrina. Un po’ come chi ha fatto la rivoluzione, è rimasto con i piedi ben saldi sul suo futuro, riuscendo a vedere chiaramente quello che sarà, dalla torre costruita con ciò che è stato.
Nel 1990, quando cominciò la sua rivoluzione allo Stia, aveva 31 anni. Oggi ne ha 58, compiuti nel giorno di Napoli-Spezia di Coppa Italia. Un po’ la metafora della sua vita, piedi per terra e testa tra le stelle.
Articolo a cura di Saverio Nappo, pubblicato precedentemente per Il Meridiano News