Mercurio minore

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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7 min readOct 1, 2016

“Siamo noi a muoverci nel tempo o è il tempo a essere mosso da noi? Esiste davvero o è meramente il frutto di una nostra percezione limitata?”Andrew Sawyer

Mi sono chiesto molte volte dove finisse davvero la corsa di Mazzone. Se sotto al settore occupato dagli atalantini, luogo in cui il suo atletismo ha trovato uno stato di quiete per modo di dire, o se altrove, magari laddove il nostro occhio non è riuscito a seguirlo. Mi sono chiesto se ci fossimo persi qualcosa nel frattempo, tra la partenza a pugno chiuso e l’arrivo, a causa di un occhio limitato come le nostre percezioni. Nel gesto plastico del suo scatto feroce, nella massa compatta del suo panzuto baricentro alto, nella coordinazione perfetta della sua accelerazione, testa in giù, busto in avanti, pugno indietro, si è intravista una macchina dal moto ineluttabile, che solo nella carrozzeria corpulenta e anticoromana chiedeva di non essere presa sul serio. Sciocchi noi a non pensare che uno perennemente con la tuta indosso non fosse nato per correre.

Se è vero che il flusso del tempo scorre solo in una direzione, quella in avanti, e che non si ferma mai, allora io giuro qui di aver visto, quindici anni fa e con la coda dell’occhio, Carlo Mazzone correre nel flusso temporale, laddove il tempo è fermo e corre solo chi lo attraversa. Come un simbolo apocrifo, come un Mercurio minore, una trasfigurazione cacio e pepe di qualcosa che, se c’è da correre, non importa per raggiungere cosa o da quale sentimento si è mossi, può farsi beffe delle proprie spoglie mortali. E regalarsi un fermo immagine in netto vantaggio sulla pigra staticità dello sguardo.

di Simone Vacatello

“Pe’ sdrammatizzà, dico sempre de avecce ‘n fratello gemello, che ariva a mezzogiorno de a domenica e prenne er posto mio ‘n panchina e aa sera torna a casa sua. Perché lui c’ha n’artro carattere, n’artro spirito, n’artra carica. E’ solo che… ogni tanto me fa casini.”

Ma c’è una stata una sera in cui questo gemello, “che c’è ma nun esiste”, a casa sua non è tornato. Era una sera di quindici anni fa, quella del 30 settembre 2001. La storia della corsa di Carlo Mazzone, per gli amici Carletto, sotto la curva dell’Atalanta al grido di mortaccivostra la conoscono tutti. Quello che nessuno sa è che di Carletti, da quella sera, ce ne sono due. Solo che il secondo vive altri luoghi, altri tempi, e Dio solo sa quanto servirebbe il suo contributo, oggi, al nostro calcio. Perché quello che accadde fu che nonostante la sua mole, nonostante l’età, nonostante gli inservienti che tentarono inutilmente di fermarlo, quella corsa aveva raggiunto ormai una velocità tale che, combinata con il sovraccarico di adrenalina pura e sommata alle onde sonore anomale generate dall’estrema sovrapposizione di insulti in dialetto bergamasco e romano, aveva proiettato nelle strutture molecolari del suo corpo gli 1.21 gigawatt necessari per provocare una istantanea dissociazione temporale.
E così, mentre ai microfoni di Sky il gemello buono, se pur con dei vistosissimi strascichi dello sdoppiamento ma pur sempre buono, tentava di rispondere alle domande dei giornalisti intimiditi, il gemello cattivo aveva continuato la sua marcia furiosa che dal campo era proseguita attraverso le epoche, mettendo a repentaglio il naturale scorrere del continuum tempo spazio.

di Fabio Imperiale

Qui c’è tutto: l’ologramma di Lineker, i ritagli di giornale, il nome di Vignola davanti alla maglia della Juve quella gialla della finale di coppa delle coppe, il cane Pinckles, la cartilagine del ginocchio di Willie Cunningham, la mascotte Ciao, i libri, la lista della hall of fame, i palloni di cuoio marrone, le maglie di lana e i parastinchi di legno. A parte che le guide sono in inglese, tedesco, francese e spagnolo e che all’entrata l’unico italiano che c’è è Alessandro e che è della Juve, poi qua dentro c’è tutto e si sa che quando gli inglesi vogliono fare qualcosa, saturano tutto l’argomento e la prossima volta che torno glielo porto perché secondo me manca una cosa come quella che m’è venuta in mente guardando quanto fosse saturo il concetto di calcio qua dentro.
Dice: “il consiglio comunale dà la propria solidarietà al signor Carlo Mazzone, che poi sarei io, riconoscendo il grande valore delle sue doti umane e professionali che portano alto il nome della città di Roma, condannando ogni episodio”, dice ogni episodio mica uno o quelli che gli pare a quegli altri lì, “di intolleranza negli stadi e ribadendo l’importanza dei valori positivi che lo sport deve trasmettere ai giovani”.
Penso che mai un “mortaccivostra” sia stato più votato in un consiglio comunale: trentasei voti favorevoli e ordine del giorno numero 77 del 4 ottobre 2001 con oggetto “Solidarietà del Consiglio Comunale al sig. Carlo Mazzone” approvato all’unanimità. Che poi adesso chissà quanti se ne dicono. Ecco se c’è una cosa che manca qui è un ordine del giorno di un comune per uno che allena una squadra di un’altra città, poi per il resto qui c’è tutto.
Adesso vedo e se c’ho tempo glielo faccio fare, anzi già che ci sto glielo faccio dire che manca pure un’altra cosa, tanto se chiama l’allenatore del City non possono dire di no: una bella foto, grande, della via che passa sopra al ponte, che porta allo stadio di Ascoli, che quando stavamo a Ascoli avevano ribattezzato “Via del Bel Calcio”: qua ci starebbe bene, una bella foto, grande, pure in bianco e nero perché a quei tempi ancora le foto le facevano in bianco e nero.
Giocavamo col 4–3–3 prima di tanti e tanti altri e tenevamo palla per sessanta minuti. Poi vabbè adesso, quand’era?, poco tempo fa gliel’ho fatto pure dire: “il nostro obiettivo è tenere il possesso palla al 100%” e lì tutti i titoli dei giornali, l’avessi detto io a Ascoli quando allenavo manco mezzo rigo sul giornale ci sarebbe stato, adesso qualsiasi cosa che dice lui, che la dice perché glielo faccio dire io, insomma tutto diventa una cosa da virgolettato e poi magara finisce dentro a un museo come questo, con le luci puntate su ogni singola lettera. Pure l’altra sera quando abbiamo pareggiato tre a tre, pensa te le coincidenze, tre a tre, una cosa che è stato un mezzo derby, insomma pure l’altra sera a Glasgow gli ho fatto dire: “La qualificazione nel girone si deciderà sul filo di lana” pure questa cosa qua del filo di lana è diventato un titolo da giornale. È stato un po’ come Brescia — Atalanta con noi sotto e poi noi che facciamo tre a tre.
Quasi uguale, solo quindici anni dopo, un po’ più in su della serie A, e nella testa di uno che appena apre bocca fa lui l’ordine del giorno dei giornali e che, alla fine, metterà una frase con le luci sopra le lettere dentro a sto museo del calcio di Manchester.

di Andrea Cardoni

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Una guerra è un fatto d’altezza: qualcuno sta giù da un promontorio, vero che è arrivato tardi, ma è pure vero che arrivando dopo e giocando in trasferta non si fa la scena dell’accerchiato in casa, che a saperlo evitavo di sbrigarmi. Ma tant’è, quelli di sotto, contro quelli di sopra. E viceversa. Poi se le danno, niente di personale, né di risolutivo, soltanto che quando si è sul campo gli eserciti si caricano come fossero in finale della Persian League, allora sale un agonismo che viene giù l’altipiano. O lo stadio.

Sono quelli di sopra, quelli di meno, che iniziano ad avanzare, poi retrocedono e qualche esaltato di sotto lo trovi che inizia ad agitare lo scudo, che li sta assediando e pensa di aver già vinto. Quelli di sopra hanno un generale saggio, di tempra antica, e con una manovra d’alleggerimento, anzi due, smarca gli avversari e li annienta con il loro stesso gioco. Il generale non sta nella pelle, lo deve andare a dire a tutti, deve tornare nella città per dichiarare la vittoria, pur se parziale. E siamo solo al girone d’andata. Ma questa è una vittoria che vale il primato, da qualche parte nell’Ellade. E allora corre, corre e attraversa la locomotiva Zatopek, i piedi nudi di Bikila, le camere d’aria di Coppi, le borracce di Bartali, corre e non si ferma, ha gli occhi di una fiera ingovernabile, 42 chilometri per arrivare a casa, mancano 600 metri, ma c’è un uomo, un giovane militare, che corre davanti a lui, il generale lo raggiunge e gli domanda chi sia.

Sono Fidippide, risponde il giovane, devo tornare a casa a dichiarare vittoria; Ma anch’io!, risponde il condottiero. Fidippide si stringe i calzari, si solleva l’armatura e dice No, vecchio amico, non hai capito, la corsa non ha fine, sono tornato mille volte a casa e sempre è come appena partito, da nessun posto si parte, nessun posto si raggiunge. Questo dice, il soldato Fidippide. Il generale lo vede rimettersi in cammino, riprendere pian piano la strada. E allora si guarda i piedi, pensa che vale lo stesso, che non è origine o meta, il viaggio, e che bisogna correre. Senza destinazione.

di Simone Nebbia

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