Miglior attore non protagonista
Italia, luglio 2000. All’epoca ero un bambino appassionato di calcio, che faceva ancora gli album delle figurine Panini e viveva le estati degli anni pari come la manna dal cielo. Mondiali o Europei, poco importa: era bellissimo (e lo tutt’ora).
Quella tarda serata del 2 luglio è uno strazio, forse l’emozione più lancinante durante la mia avventura da tifoso della nazionale italiana. Sono quasi le 23 e piango davanti a una cartina di un gelato finito ormai da un po’.
Piango perché l’Italia ha appena perso la finale dell’Europeo, nonostante l’esser passata in vantaggio. Erano 32 anni che mancava un titolo continentale (nel frattempo, siamo arrivati a quasi cinquanta) e il gol di Marco Del Vecchio non è bastato.
A spezzare i sogni di gloria ci ha pensato Wiltord, ma soprattutto quel David Trezeguet che al minuto 103 ha chiuso la gara con il golden goal, strumento crudele per farti star male, designato apposta per la sofferenza degli sconfitti. Ogni volta che ripenso a quell’azione, la mente corre a chi quella palla l’ha messa in mezzo.
Qualche giorno fa, Robert Pirès — ormai free agent da un anno — ha dichiarato che smette col calcio. L’ha fatto a 42 anni, con la sua avventura indiana con il Goa FC che si è conclusa da poco meno di 12 mesi. Eppure l’ha fatto consapevolmente, come se la sua classe gli avrebbe potuto consentire di andare ancora avanti.
«Penso che sia il caso di fermarsi: dobbiamo dare spazio ai giovani». Uno sguardo al passato, uno al futuro. Del secondo ancora non si sa molto, ma se ci guardiamo indietro c’è forse una certa sproporzionalità tra quanto dimostrato da Pirès e tra gli elogi realmente ricevuti. Eppure la sua bacheca trabocca di trofei, anche (e soprattutto) per meriti suoi.
Sullo sfondo
E pensare che di francese Pirès ha solo il luogo di nascita, Reims. Nella città dello Champagne, Robert nasce da padre portoghese e madre spagnola, tra una maglia del Benfica e una del Real Madrid. Le difficoltà di identificarsi con qualche nazionalità si vedono anche a scuola, dove il ragazzo fatica a parlare francese, visto che l’idioma transalpino non si sente mai in casa sua.
Sarà anche per questo, ma a 15 anni Pirès lascia la scuola e si butta con decisione nel calcio: prima lo Stade de Reims per tre anni, poi l’avventura con il Metz. Oggi nobile decaduta, qualunque appassionato di PC Calcio saprà che Les Grenats sono stati una forza importante in Ligue 1 negli anni ’90.
Sotto la guida decennale di Joël Müller (ancora oggi d.t. del club), il Metz vince la Coupe de la Ligue nel 1996, perde il titolo della Ligue 1 nel 1998 per la differenza reti (dopo averla condotta fino a quattro gare dal termine!) e partecipa persino ai preliminari di Champions League.
In quegli anni al Saint-Symphorien esplodono Rigobert Song, Lionel Letizi, Bruno Rodriguez, ma soprattutto Robert Pirès: «Sono rimasto lì perché avevo la sicurezza di giocare: stavo bene a Metz». In cinque anni si guadagna la nazionale: una volta che Pirès lascia il club granata, la squadra cade in disgrazia, mentre lui si trasferisce all’OM.
In ogni caso, sembra che la sua consacrazione non venga sottolineata abbastanza. Nel frattempo, il suo raggio d’azione è arretrato di qualche metro: Pirès viene spostato dal ruolo di seconda punta a quello di trequartista, se non di ala in alcuni casi.
Anche a Marsiglia Pirès dà il suo contributo: aiuta la squadra ad arrivare in finale di Coppa Uefa (dove l’OM viene travolto dal Parma di Malesani), ma manca qualcosa. Come un altro titolo nazionale, stavolta perso per un punto.
L’anno successivo si arriva persino al boicottaggio di Pirès nei confronti del club, nonostante ne sia diventato il capitano. La mancanza di trofei e la quasi-retrocessione dell’OM spinge Pirès lontano dalla Francia, ma la sensazione è comune: Robert è un ottimo attore non protagonista, ma non sarà mai un leader.
Quando l’Arsenal lo acquista per sei milioni di sterline nell’estate 2000 per sostituire Marc Overmars (partito per Barcellona), a Highbury più di una persona storce il naso. Eppure Pirès rifiuta la corte di Juve e Real Madrid per andare all’Arsenal. Probabilmente gli scettici non sanno quello che sta per accadere.
L’invincibile (ma solo in Inghilterra)
La sintesi dei sei anni di Robert Pirès all’Arsenal l’ha data proprio Arsène Wenger qualche anno fa, con il francese già lontano da Londra. E il tutto è racchiuso da una foto, al termine della stagione 2001–02. Ma andiamo per gradi.
Dopo un inizio con qualche difficoltà («Mi guardavo intorno e mi dicevo: cosa ci faccio qui?»), Pirès si conquista i tifosi Gunners con prestazioni fuori dal mondo. Il 2000–01 è una stagione d’ambientamento, ma poi il francese si prende i titoli dei giornali e l’attenzione della Premier League, dimostrando che lui può fare il primo violino quando vuole.
Sarà un caso, ma nel 2001–02 Pirès è il miglior assist-man della lega e viene votato miglior giocatore dell’anno dalla Football Writers’ Association. È un trionfo assoluto, visto che l’Arsenal vince il campionato segnando in ogni gara e trionfa anche in FA Cup. Il tutto nonostante Pirès si sia fatto male al legamento crociato nell’aprile 2002.
Ci sono dei gol — come quelli ad Aston Villa e Middlesbrough — che sfidano le normali capacità calcistiche e pensanti di chiunque abbia mai calcato un terreno da gioco. Lo sanno anche i compagni, che decidono di inchinarsi davanti al francese quando Pirès alza il trofeo della Premier League.
Wenger sa che ha vinto la sua scommessa, come ha riconosciuto più tardi:
«Quella foto parla più di quanto possa fare io. Quando s’infortunò, penso che Robert fosse il miglior giocatore nella sua posizione. Potevi dargli la palla e lui avrebbe pensato al resto».
Il migliore.
Già, il migliore. Quello che decide le gare e non è più un corista sullo sfondo. Quello che con eleganza ti ricorda che è possibile esser comunque dei fenomeni. Quello che coniuga lo sforzo più efficace al gesto più bello. E al risultato migliore.
Una volta sbloccatosi, Pirès diventa letale. Tra il 2002 e il 2005 viaggia sempre in doppia cifra, con 14 gol per ogni Premier disputata. Nel 2003–04, la stagione degli Invincibili, non sono solo i risultati dell’Arsenal a spaventare. I Gunners stravincono il campionato, non perdendo mai. Infatti quando si è trattato di votare la miglior squadra al ventennale della Premier League, nessuno ha dubitato sul premiare integralmente l’Arsenal 2003–04.
Io però sono spaventato dalle cifre di Pirès in quella particolare stagione: 64 gare giocate in tutte le competizioni, 19 gol e 13 assist. Praticamente l’equivalente dell’attuale Messi, ma da ala e con un talento che (forse) non abbiamo mai visto per intero per un lungo periodo. E anche qui torna la sensazione che Pirès non sia mai stato sufficientemente esaltato: forse per la rosa dell’Arsenal di quegli anni, il francese non è stato mai considerato uno dei migliori al mondo (facendo un grosso errore).
Rimpianto
Tuttavia, se guardiamo le 13 gare giocate dalla Francia per alzare quei due trofei, Pirès è titolare solo in due. In sette rimane addirittura in panchina, mentre gioca per 90’ solo in un Francia-Olanda in cui non ci si gioca nulla.
Dopo la forma dimostrata all’Arsenal, sarebbe il momento di prendersi anche la Francia, ma questo non avverrà mai. Pirès disputa un’ottima Confederations Cup nel 2001 (vinta, guarda un po’) e viene nominato miglior giocatore del torneo.
Purtroppo, la rottura del legamento crociato impedisce a Pirès di andare al Mondiale. E la Francia esce da campione del Mondo con zero gol fatti e Zidane per terra. E curiosamente la fortuna girerà in nazionale.
Se la Francia vinceva quando Pirès era uno degli attori non protagonisti, tutto cambia quando l’ala dell’Arsenal è tranquillamente nei titolari. Pirès vince un’altra Confederations Cup prima di andare incontro all’enorme delusione di Euro 2004.
La Francia esce con i futuri campioni della Grecia ai quarti di finale. Una delusione per chi — come Pirès — ha sempre giocato un calcio ben diverso da quello predicato dagli ellenici in quella competizione. Poco male, si riparte. O no?
Pirès tradisce un certo nervosismo e inizia un diverbio mediatico con il ct Raymond Domenech: «Penso che il coach non si fidi di me». Domenech, permaloso come una mina anti-uomo, se la lega al dito e fa a meno di Pirès per tutto il ciclo di qualificazioni al Mondiale 2006.
Il giocatore prova a scusarsi, ma non verrà più chiamato: «Domenech non mi ha mai detto perché non mi ha chiamato. Se avessi giocato due-tre partite con la Francia lo capirei, ma ho 79 presenze in nazionale con due titoli… mi sembra irrispettoso».
Ci sono anche altre versioni, come Domenech che lascia fuori Pirès per segni astrali (l’ex ct francese era attento ai segni dello zodiaco e non vedeva di buon occhio gli Scorpioni) o di una fantasiosa liason tra la moglie di Domenech e lo stesso giocatore dell’Arsenal. Fatto sta che i rimpianti rimangono.
Declino con eleganza
In realtà, qualche spiegazione sul perché la stella di Robert Pirès si sia spenta un pochino prima del dovuto c’è. Una è il divorzio dalla moglie Nathalie, conosciuta ai tempi del Metz. La chiusura del matrimonio nel 2003 si è fatto sentire sul francese: «Mi sono dovuto adattare a una situazione difficile, non stavo bene. Ricordo che non dormivo dopo una sconfitta».
Non solo: l’Arsenal perde in finale il trofeo che più di tutti Wenger e la sua banda vorrebbero, ovvero la Champions League. Il 2–1 subito in rimonta dal Barcellona fa male, soprattutto a Pirès. Il francese viene sostituito dopo 18 minuti per far entrare il secondo portiere dopo l’espulsione di Lehmann.
«Sapevo di voler lasciare l’Arsenal (era in scadenza di contratto, ndr), ma andarsene così mi ha fatto male. So che avremmo dovuto cambiare un giocatore, ma non avrei mai pensato che toccasse a me. Wenger? Non è colpa sua. Piuttosto avrei ammazzato Lehmann… è stato il momento peggiore della mia carriera».
L’addio di Pirès fa male a molti tifosi, che non l’hanno mai dimenticato. Non è un caso che i fans l’abbiano eletto sesto giocatore migliore della storia dell’Arsenal (!), nonostante sia rimasto a Londra solo sei anni. Davanti a lui solo Henry, Bergkamp, Tony Adams, Ian Wright e Vieira.
Sfruttando le sue origini spagnole e il buon momento del club, Pirès firma nell’estate 2006 per il Villareal con la speranza di avere più spazio. Curiosamente Manuel Pellegrini — all’epoca l’allenatore del Sottomarino Giallo — lo vuole dopo la semifinale persa proprio contro l’Arsenal nel 2006.
Gli basta poco per incidere ancora. Normale per chi è stato nominato poco tempo prima nella FIFA 100, la selezione fatta da Pelè dei cento miglior giocatori esistenti.
I quattro anni di Pirès in Spagna sono comunque soddisfacenti: il Villareal arriva secondo in Liga nel 2007–08 e il francese si gode a pieno la tranquillità della provincia spagnolo. Oltretutto arriva l’incontro con il destino. Nei quarti di Champions League 2008–09, il Sottomarino Giallo sfida l’Arsenal in una riedizione della gara di tre anni prima. Pirès gioca a maglie invertite e si becca l’applauso scrosciante dell’Emirates Stadium a Londra.
Nel 2010, l’addio alla Spagna ha riportato Pirès a Londra. Da quel momento in poi, la sua carriera era già agli sgoccioli. A 37 anni ricomincia dall’Aston Villa con un contratto di sei mesi, ma i Villans — nonostante una buona stagione — non rinnoveranno mai quell’accordo. E così Pirès è virtualmente sulla via del ritiro.
Tuttavia, l’amore per il calcio lo spinge anche più lontano. Nonostante sia fermo da tre anni, Pirès va in India nel luglio 2014 per l’apertura della Indian Super League:
«L’India ha bisogno di un inizio: per me questo è importante. Avevo delle offerte dal Qatar e dagli Stati Uniti, ma voglio esser parte di questo nuovo inizio per l’India».
Al FC Goa, l’avventura sotto la guida di Zico dura sei mesi. Il tempo di prendersi a male parole con l’allenatore dell’Atlético de Kolkata e segnare l’ultimo gol da professionista. È stato l’ultimo dei campioni del Mondo 1998 a ritirarsi.
All’annuncio del suo ritiro, ho ripensato a quella sera di luglio 2000. Mi sono chiesto se sia possibile piangere due volte: quando qualcuno ti fa del male (sportivo) con le sue giocate e quando il suo addio ti lascia atterrito, seppur a una veneranda età.
Se la storia del calcio vedesse premiati i suoi intrepreti come agli Oscar, non c’è dubbio che nel ruolo di miglior attore non protagonista Robert Pirès potrebbe dire la sua.
Articolo a cura di Gabriele Anello