Prenderla larga — Autobiografia di Milan-Liverpool

Gianmarco Lotti
Crampi Sportivi
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7 min readMay 25, 2017

La voglio prendere larga. Parto da un sabato pomeriggio del 2001, era il sabato prima di Pasqua e mia sorella aveva una di quelle recite all’asilo a cui tutti i parenti devono essere presenti. Il ricordo più nitido di quel giorno è un Bari-Perugia su Tele+. Il Bari, ultimissimo in classifica, stava vincendo 3–0 e la partita era più che chiusa. Avevo poco meno di dieci anni e non ero ancora abituato alle rimonte, ne avevo viste poche. Ritenevo impossibile che una squadra potesse recuperare da uno zero a tre. Cambiai idea mentre uscivo di casa diretto all’asilo, poco dopo il 4–3 in rimonta del Perugia con Materazzi. In quel momento si è instillato in me il seme della disillusione, prodromo di un raziocinio che si sarebbe impossessato di me solo quattro anni più tardi.

Continuo a prenderla larga. Pochi giorni dopo, il Milan, squadra per cui ho sempre fatto il tifo, avrebbe giocato il derby contro l’Inter. Due squadre un po’ scalcinate, in lotta con il Parma per il preliminare di Champions League e tutte due reduci da un cambio di allenatore in corsa. Ricordo l’atmosfera del derby, gli amici interisti che mi prendevano in giro perché sicuri di vincere, il venerdì sera atteso con trepidazione, ma sempre con quella disillusione forzata che mi accompagnava da qualche settimana. Comandini segnò due gol e io non esultai, memore di quel Bari-Perugia. Fece gol Giunti, e io zitto. L’ansia della possibile rimonta dell’Inter mi mordeva l’anima anche durante il quarto, il quinto e il sesto gol. Solo a due minuti dalla fine potei esultare, quando ormai ero sicuro che nessuno avrebbe più potuto rimontare. Allora tornai a pensare alle rimonte come a qualcosa di lontano, possibile soltanto nelle partitelle tra amici e in una partita su un miliardo.

Milan-Liverpool del 25 maggio del 2005 è stato il più grande dramma sportivo della mia vita. Da quel momento — avevo quasi quattordici anni — niente è stato più come prima. Non ne ho mai parlato con nessuno, anche se forse è un fatto implicito ed esplicito al tempo stesso nei milanisti che quel mercoledì avevano capacità di intendere e di volere. Di quella partita ho cercato di non ricordare nulla per dodici lunghissimi anni, eppure non ce l’ho mai fatta. Dodici anni sono quasi quattromilatrecentottanta giorni, in almeno duemila di questi — forse consecutivi — ho pensato a Istanbul. Ogni volta che qualcuno nomina quella città, i trend topic nella mia mente sono: 1. Milan-Liverpool, 2. Erdogan, 3. Galatasaray, Fenerbahce, Besiktas. Non ho mai superato veramente quel trauma.

Ho cercato di eliminare dalla mia mente ogni file che riguardasse quella partita. I quarantacinque minuti più belli di sempre, spazzati via in maniera inspiegabile. Non ho mai rivisto gli highlights di quella finale, mai in dodici anni. Eppure nella mia mente c’è più spazio per il rigore sbagliato e poi segnato da Alonso che per la mia festa di laurea; il gol che si mangiò Sheva a mezzo centimetro dalla faccia di Dudek è più vivido del mio ultimo Capodanno. I rigori, quelli no.

Recentemente ho letto un libro sul Mostro di Firenze e sono rimasto particolarmente colpito da come alcuni testimoni, a anni e anni dagli omicidi, sapessero per filo e per segno il colore e il modello della presunta auto del Pacciani, pur essendoci passati accanto una volta un decennio prima. Ho provato a fare un esercizio di memoria e subito, inconsciamente, sono finito nel salotto di casa mia. Mercoledì 24 maggio 2005, mio padre sul divano, io sulla poltrona, mia madre e mia sorella in cucina a vedere un film sulla Rai. Di quella serata ricordo tutto ciò che non fuoriusciva dal mio televisore, di quello invece ho preferito perdere le tracce.

Ci sono io che cado dalla poltrona al gol di Maldini. C’è mio padre che mi abbraccia alla doppietta di Crespo. Ci sono ancora io che, memore di quel sei a zero nel derby, tiro fuori una frase di Carlo Pellegatti: “Ma dove siamo? Ma dove siamo?”. E poi di nuovo io, che vicino al divano tenevo il Super Almanacco Panini e ricordo — lo ricordo bene ed è vero, la finzione letteraria non alberga in questo pezzo — di essere andato a cercare Milan-Steaua, che mio padre aveva visto dal vivo. Mi ero sempre interrogato come fosse essere in vantaggio di tre gol all’intervallo, che sensazione avrei avuto se mi ci fossi ritrovato, come avrei vissuto un secondo tempo — quarantacinque schifosi minuti — pur sapendo di aver già vinto una Champions League o Coppa dei Campioni.

Nel lasso di tempo tra Bari-Perugia e Milan-Liverpool non avevo più visto una rimonta da tre a zero. Certo, c’erano quelle partite di fine stagione che puzzavano un po’, ma ormai ero smaliziato sotto quel punto di vista. Il Milan mi aveva imborghesito, abituato a partite sontuose nelle quali tramortiva l’avversario e non lo faceva rialzare più. Sì, certo, l’anno prima c’era stato il Riazor, avevo iniziato a odiare il Deportivo più di ogni altra squadra al mondo, ma era un incidente di percorso. “Erano dopati” sentivo dire da mio padre e sul pullman.

E proprio sull’autobus che ogni mattina percorreva trentacinque chilometri in un’ora e mezzo per portarmi a scuola, avevo iniziato a maturare un sentimento uguale e contrario alla disillusione e al raziocinio nascenti, due caratteristiche piuttosto inedite in un tifoso adolescente. Ricordo che quelli di quinta dell’ITI stavano sui seggiolini in fondo e uno aveva una voce potentissima. Il giorno dopo la semifinale col PSV disse “Lo vedi come ci arriva spompato il Milan a Istanbul, col Liverpool perde”. Io, centomila posti più avanti, ridevo e scuotevo la testa. Gliel’avrebbe fatto vedere il Milan di cosa era capace, a lui e a tutti i miscredenti come lui.

Parlare del secondo tempo di Milan-Liverpool è uno strazio. Mia madre e mia sorella erano andate in camera. Sul divano mio padre, col Cornetto in mano, diceva “Se non prendiamo gol nei primi quindici minuti è fatta”. Nei primi quindici minuti ne prendemmo tre, racchiusi tra il 54' e il 60'. Iniziai a piangere al 61' e non smisi più fino al venerdì. Ci furono i supplementari, quell’errore di Sheva, qualche cambio sconclusionato di Ancelotti e la luce Rui Costa, il mio giocatore preferito di sempre. Non ero abituato a veder perdere una finale al mio Milan. Immaginavo già i titoli del giorno dopo “Milan 4–3 Liverpool: grande paura, ma il Diavolo ce l’ha fatta”. Ovviamente non successe nulla di tutto questo. Provai anche a trasportare di nuovo mia madre e mia sorella in cucina, ma ormai avevo cambiato troppi posti sulla poltrona, violato troppe norme non scritte. Il giorno dopo, il titolo più benevolo fu “Milan nell’incubo”.

Non voglio sminuire quanto abbia fatto per me in tutta la nostra vita assieme, ma per quanto soffrii quella sera (e anche dopo), mio padre il giorno seguente compì uno dei gesti più belli della mia esistenza. Mi evitò, unica volta in cinque lunghissimi anni di liceo, il trasferimento in pullman a scuola. Mi salvò, di fatto. Nel mio paesello di campagna c’erano troppi interisti, troppi juventini. Già ero grasso come un maiale, essere milanista il 26 maggio 2005 — e io lo sono ora e lo ero allora, al paesello ero fieramente riconosciuto come il più sfegatato milanista della mia generazione — non mi avrebbe aiutato molto in quanto a prese in giro. Mi portò lui in auto a scuola, entrò più tardi in conceria e mi guardò negli occhi appena scesi di macchina. Bestemmiò, fu la prima volta.

Dodici anni dopo, sono ancora qui che mi chiedo come sia possibile. Ho cercato in tutti i modi di uscire da quell’incubo, ma ogni volta ci sono ricascato. Quello che era successo a Istanbul era la verità, non un film o un romanzo scritto dal peggior anti-milanista possibile. Istanbul per me è diventata un tabù e a poco è servito il successo di due anni più tardi. Checché ve ne dicano, la vittoria del 2007 non riuscirà mai a lenire il dolore della sconfitta del 2005, niente ci riuscirà mai. Inzaghi ad Atene è stato bellissimo, ma la forza di quell’emozione non è nemmeno lontanamente paragonabile a quel vuoto dopo Istanbul. A Jerzy Dudek. Un altro fantasma che vorrei scacciare via, ma non posso.

Da quel giorno non provo quasi più niente, se non una grande apatia. Amo il Milan, sicuramente non meno del pre-Istanbul. Però non riesco più a vivere una partita in maniera trasognata. La disillusione e il raziocinio si sono fatti paura, poi ansia e poi qualcosa che assomiglia all’aponia, l’epicurea assenza di dolore che stavo studiando al liceo nei giorni di Dudek. Nemmeno a farlo apposta.

Milan-Liverpool ha cambiato me come tanti milanisti, abbiamo fatto un crash test dal punto più alto al punto più basso della nostra vita, tutto in soli sei minuti. Soprattutto abbiamo imparato a dissimulare. Se qualche fan rossonero parla di finali di Champions non accenna mai a Istanbul, o almeno non lo fa quando ci sono persone di altre fedi presenti. È un tema intimo, una sconfitta personale. Se ci chiedono di quella finale parliamo di altro, facciamo lunghe perifrasi. Ci ricordiamo tutto di tutto, fuorché cosa è successo in campo. Alla fine penso che sia giusto così: forse un giorno mi dimenticherò — ci dimenticheremo — di cosa è stato realmente Milan-Liverpool, mettendo da parte l’odiosa retorica della sconfitta che fortifica. Più probabilmente continuerò a prenderla larga, come ho sempre fatto.

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Gianmarco Lotti
Crampi Sportivi

Nel 2010 è stato inserito nella lista dei migliori calciatori nati dopo il 1989 stilata da Don Balón - @calcionews24 @gonews_it