Lettera d’amore all’Arcadio di ritorno

Crampi Sportivi
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8 min readApr 26, 2017

Taglialatela, Nela, Ferrara, Bordìn, F. Cannavaro, Buso, Corini, Francini, Pecchia, Thern, Fonseca.

Questo era l’undici titolare del Napoli di Lippi che scese in campo, al San Paolo, contro il Cagliari, il 27 febbraio del 1994. Per i sardi, tra gli altri, in campo c’erano Lulù Oliveira, Marco Sanna, Francesco Moriero e Massimiliano Allegri. La sfida finì col punteggio di 1–2 (Oliveira, Fonseca, Oliveira). Quell’anno le vittorie valevano 2 punti e le squadre in lotta erano 18. Alla fine della festa, lo scudetto andò al Milan di Capello grazie a un totale di 50 punti. Volendo valutare solo matematicamente le 19 vittorie del Milan (19 vittorie, 12 pareggi, 3 sconfitte) rapportandole al ‘valore moderno’ (3 punti), lo scudetto della stagione 93/94 è valso 69 punti totali. Acqua passata quello che è stato, certo. Ma, guardarsi indietro è un esercizio utile a capire quanto avanti siamo andati, cosa effettivamente è cambiato e come. Il riferimento alla stagione 1993/94 non è fissato a caso. Casualmente, nelle ore a ridosso di quel Napoli-Cagliari, a Tychy, in Polonia, stava venendo al mondo Arkadiusz Milik.

La stagione 1993/94 è anche la quarta della carriera da allenatore di Maurizio Sarri che, proprio quell’anno, è sulla panchina del Cavriglia, una squadra dilettantistica della provincia di Arezzo. Il professionismo, per lui, arriverà qualche anno più tardi, ma la completa maturazione tattica arriverà nella stagione 2011/12, a Empoli. Durante quella stagione, Milik fa il suo esordio tra i professionisti in Ekstraklasa, la massima serie polacca. Immaginate ora due binari che corrono paralleli, divisi dal caso sistematico che diventa prassi. Che diventa quasi pronosticabile, calcolabile. I due binari rappresentano le carriere di Arek Milik e di Maurizio Sarri che corrono veloci. Sembrano avanzare, implacabili. Sembrano evolvere, più che crescere. Due linee solo apparentemente parallele. È proprio la loro evoluzione a condurli ad un punto d’incontro, il 2 agosto 2016. Il 4–3–3/offensivo — poi ribattezzato 4–3–3/sarriano — del Sarri-moderno necessita di una prima punta dinamica, elastica — fisicamente e mentalmente — e che, nell’agosto napoletano del 2016, debba essere in grado di riscaldare i cuori dei tifosi, gelati dall’addio di Gonzalo Higuaìn nella ‘notte di Madrìd’.

Milik ha 22 anni e viene da due stagioni da incorniciare passate all’Ajax e alla corte di De Boer, che lo descrive come «un talento purissimo dotato di potenza, stile, eleganza, rapidità e altruismo». Probabilmente quello che De Boer non dice è che Arek Milik ha coraggio. Perché è quella la caratteristica principale che devi necessariamente avere per accettare la chiamata del Napoli, all’alba della cessione di un attaccante da 36 goal in una stagione di serie A a una diretta concorrente, nonché rivale storica. È probabilmente il coraggio che gli stimola il sorriso. Solitamente si sorride per una battuta di un amico, per una scena buffa vista distrattamente in tv, per uno sguardo ricambiato da una ragazza che a te piace particolarmente o, che so, perché tutto va bene. Arek, invece, sorride alla vita, come fosse grato di non sapere esattamente cosa gli riserverà ogni nuovo giorno. Arek non ha paura, non sembra averne mai avuta. Ha coraggio che si fonde chimicamente al desiderio smodato tipico dei ventenni, che ti porta ad accettare sfide in automatico e a rifiutare anche solo l’idea dell’eventualità di un fallimento. La titubanza, per Arek Milik, è un concetto legato a un mondo che non gli appartiene e di cui, probabilmente, ha solo sentito parlare.

Fischio d’inizio, stagione agonistica 2016/17, stadio Adriatico di Pescara. Minuto 53, fuori Gabbiadini, dentro Milik. Un tiro angolato rasoterra, deviato in angolo da Bizzarri è quanto basta per rompere il ghiaccio e cominciare a fare sul serio. Sette giorni dopo, al San Paolo è subito titolare in Napoli-Milan. L’assetto tattico del Napoli è pressoché lo stesso dell’anno precedente e ad Arek è affidato il compito di partecipare attivamente alla manovra della squadra, come collante, equilibratore, sponda e — allo stesso tempo — finalizzatore. Le linee del 4–3–3/offensivo di Sarri, prevedono un suo galleggiamento verticale più che orizzontale, dalla doppia funzionalità: essere uno degli angoli dei i triangoli dinamici costruiti in fase di manovra — sia offensiva che difensiva — ed essere calamita — ossia attirare fuori dalla linea difensiva il diretto avversario — favorendo la creazione degli half spaces nella quale avviene l’effettivo superamento delle linee avversarie. Ad Amsterdam il suo compito era essenzialmente quello di finalizzare i cross delle mezzali: Arek era semplicemente chiamato a mantenere alto il livello di accuratezza delle conclusioni e delle soluzioni di posizionamento. Al Napoli, la dinamicità verticale a favore dei cambi posizionali, lo colloca fisicamente in contesto più ampio rispetto a quello in cui “vive” un 9 tradizionale. Il risultato è un sorriso, quello di sempre. Anzi, due.

La doppietta al Milan lo alleggerisce tanto che sembra essere esattamente a suo agio in ogni contesto di quel gioco, seppur quest’ultimo tecnicamente ancora non gli appartenga a pieno. Intanto lui ride, anzi sorride. Sorride in allenamento, sorride alle emittenti che lo intervistano con insistenza crescente. Sorride ai tifosi allo stadio e tra le vie della città che, assieme a lui, sta imparando a dimenticare. Napoli gli apre le braccia, così come gliele apre Maurizio Sarri. Il suo calcio sembra combaciare ad hoc alle caratteristiche tecniche del suo nuovo nove. In più, Arek è umile. Dice di non soffrire il peso delle aspettative perché lui non è lì per sostituire nessuno e che se qualcuno stesse pensando a lui come “nuovo Higuaìn” è fuori strada. Milik dice di essere Milik, diverso da chi c’era prima di lui e, addirittura, diverso da sé stesso partita-dopo-partita. Milik sta imparando. Precisamente, sta evolvendo. Nel ultimo anno all’Ajax ha fatto registrare il 49% di pass accuracy, il 72% di shot accuracy, il 37% di duelli vinti e una lunghezza media dei passaggi effettuati di 15 metri. Numeri che descrivono una prima punta tradizionale al 100%, giovane ma caparbia, oltre a essere sufficientemente cinica da fare la differenza in Eredivisie. Solo che la Serie A non è l’Eredivisie. Era necessario adattarsi in fretta e, al contempo, evolvere da giovane promessa a punto di riferimento.

L’esordio in Champions League in maglia azzurra a Kiev, in casa della Dinamo, è impreziosito dall’ennesima doppietta che vale la vittoria. Mi ritorna in mente il discorso sul coraggio di cui sopra. Il tuo nuovo allenatore ti dà fiducia incondizionata, ma tu sai che rivuole indietro tutto, con gli interessi: per cui, cosa fai? Sorridi. Segni e sorridi. Accorci gli spazi in verticale con i difensori che mordono le caviglie e sorridi. Apri il gioco, sbagli il meno possibile con la naturalezza di chi sa che quello è solo un gioco. La questione è che quello non è semplicemente un gioco e Arek non scherza affatto. I suoi numeri, al triplice fischio di Napoli-Bologna (3–1, Callejon, Milik, Milik) sono semplicemente e nettamente diversi da quelli nell’ultimo anno all’Ajax: 82% pass accuracy, 88% shot accuracy, 13% duelli vinti e una lunghezza media dei passaggi effettuati di 13 metri. Al 17 settembre 2016, Milik ha già aumentato esponenzialmente la sua precisione al tiro e al passaggio, ha abbandonato il gioco di sportellate al centro dell’area in perenne attesa del cross dalle fasce per andare a dialogare con i compagni di squadra, in fase di costruzione. Mentre Gabbiadini è in totale tilt tattico-emotivo, Arek cambia il suo linguaggio, raffinando la visione di gioco e l’attitudine a diventare un’unica entità con il resto della squadra.

L’8 ottobre 2016, è in campo con la nazionale polacca, in tandem offensivo con Robert Lewandowski nel 4–2–4 del tecnico Adam Nawalka. Arkadiusz è oramai titolare inamovibile della sua nazionale, al pari del 9 del Bayern Monaco e in patria è amatissimo dai suoi connazionali. Probabilmente è anche per questo motivo che qualche anno prima, nel 2012, la EA Sports scelse proprio la sua immagine da far comparire sulla copertina dell’edizione nazionale di Fifa16, a fianco a quella di Messi. O forse sarà stato quel goal segnato a Manuel Neuer a Varsavia, nella sfida valida per le qualificazioni a Euro 2016. Certamente è per questi e altri motivi puramente nazional-popolari-calcistici che lo Stadion Narodowy cade in un silenzio assordante, realizzando che se Arek Milik è rimasto a terra dolorante per tutto quel tempo è sicuramente un cattivo segno. Rottura del legamento crociato anteriore sinistro. Silenzio. Qualche settimana dopo è a Castel Volturno, a bordo campo. Guarda i compagni di squadra impegnati in una seduta di allenamento con la palla. Mani in tasca, il ginocchio fasciato, nessun movimento. Silenzio. Poi una scossa, un brivido, una scintilla nell’animo che risale la schiena fino alla testa. Un sorriso. Comincia la riabilitazione, dura, delicata, logorante.

23 aprile 2017, Mapei Stadium, Reggio Emilia. Arek ha già fatto il suo esordio-bis, accompagnato da migliaia di sguardi materni, tutti rigorosamente rivolti al suo ginocchio sinistro. Il suo “rientro” non si limita al campo: il suo è stato (ed è) un lavoro da fare nella testa e nei muscoli, di pari passo. Intanto, però, qualcosa è cambiato. Maurizio Sarri ha dovuto fare di necessità virtù per evitare quello che, agl’occhi di molti, era un disastro annunciato. Complice l’alienamento di Gabbiadini e il posto vuoto in panchina in alternativa, Sarri ha spostato Mertens al centro del tridente, arretrandolo di 5 metri circa rispetto alla posizione canonica della punta centrale. È l’intuizione che salva la stagione che nasce in estate, tra le sedute doppie di Dimaro e l’amichevole a Berlino contro l’Hertha (4–1). Con lo spostamento del belga al centro come “falso nueve” atipico, le linee di centrocampo e difesa di sono avvicinate, alzando il posizionamento medio della squadra di almeno 10 metri. La manovra d’attacco è mutata in qualcosa di estremamente aggregativo, dove le distanze tra gli uomini sono ancora più brevi e dove non è più il movimento di un singolo a dover attirare il marcatore, ma è lo stesso possesso palla della squadra a fare da calamita. Una prima punta brevilinea ed esplosiva è quanto di meglio possa adattarsi a questa nuova impostazione di gioco, nel quale le prime punte tradizionali fanno fatica ad amalgamarsi. Ne sa qualcosa Pavoletti, ad esempio. Ma, come lo stesso Sarri ha detto: «contano le motivazioni e le prestazioni». Questo Arek Milik lo sa. Forse è per questo che gli è ritornato il sorriso.

Articolo a cura di Saverio Nappo

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