Milos Teodosic, estasi serba

Crampi Sportivi
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6 min readAug 22, 2016

Controverso se ce n’è uno. Eclettico fino a spingersi oltre, e ancora più in là. Decisivo, nel bene o nel male, sempre e comunque. Timido, soprattutto fuori dal campo, quando condivide l’onere di una sconfitta o l’onore di una vittoria con tutta la squadra.

Qualsiasi aggettivo vi venga in mente può essere descrittivo di una parte di Milos Teodosic, uno dei più grandi playmaker che l’ex Jugoslavia abbia mai visto. Qualsiasi, tranne i sinonimi di noioso o banale. Quello che il figlio di Miodrag inscena su un parquet è una climax di emozioni che tengono lo spettatore al massimo dell’attenzione, con picchi di eccellenza ai quali anche un neofita del basket riconosce una magnificenza sportiva degna di un eletto del gioco.

Queste Olimpiadi sono state soltanto un’altra occasione per ammirare da vicino uno dei talenti più indescrivibili del XXI secolo.

Poco prima del preolimpico, Milos ha rilasciato un’intervista a Vice nella quale ostentava soddisfazione per essersi tolto un macigno dallo stomaco chiamato Eurolega, competizione che a sentire Teodosic quest’anno poteva vincere soltanto il CSKA: «Eravamo la squadra più forte, non ho mai dubitato delle nostre possibilità». Forse nemmeno erano poi la squadra più forte, visto che il Fenerbache di Obradovic ha rischiato di trasformare quella finale nell’ennesimo psicodramma moscovita. Fortunatamente i polpastrelli di Krhyapa sono educatissimi e Teodosic segna e fa segnare al ritmo dei tamburi della Mercedes-Benz Arena.

D’altronde Teodosic è un figlio di Valjevo, cittadina più vicina a Sebrenica che a Belgrado (almeno geograficamente). È stata ripetutamente bombardata dalle forze della NATO quando Milos era ancora un bambino, voglioso di stare al campetto con gli amici, possibilità spesso negata dalle sirene che continuamente annunciavano un’esplosione. Tedosic ama la sua città: è l’unico posto in cui la notorietà non lo disturba perché ci sono i genitori e gli amici di una vita. «In Grecia non potevo sedermi ad un caffè che subito avevo un paio di ragazzini a caccia di una foto o di un autografo. Ad Atene la passione per il basket è incredibile, quasi tutti sono tifosi di una delle tre squadre (Pana, Olympiacos e AEK)».

È un serbo atipico. La torcida (tanto siamo in clima) lo esalta in campo, ma fuori i riflettori non lo conquistano, sono una distrazione di cui farebbe volentieri a meno. «In Russia sono poche le persone che seguono assiduamente il basket. A Mosca l’unico che riconoscono è Kirilenko perché ha dato una nuova giovinezza al basket nazionale, gli altri cestisti non hanno la stessa fama che hanno ad Atene o a Belgrado». Non è un caso che dal 2011, quando Teodosic ha preso casa all’ombra del Cremlino, il suo nome è legato a doppio filo con quello del CSKA.

Basta guardare l’ultima giocata (in ordine cronologico) da stropicciarsi gli occhi con la canotta della Serbia. L’attenzione di pubblico, avversari, compagni, arbitri, inservienti, piccioni, sono tutti su di lui, ma come insegnano i grandi maghi il trucco si sta svolgendo esattamente dove l’occhio dell’osservatore non sta guardando.

Forse soltanto Bogdanovic sperava di ricevere quel pallone, anche se una volta ricevuto lo stupore è tanto che il tiro inevitabilmente esce. Come a voler sottolineare un gesto tecnico/magico (lui è The Magician) di una bellezza talmente stordente che un tiro da tre punti segnato da un altro non ne renderebbe sufficiente giustizia, tant’è che poi lo stesso Teodosic prende il rimbalzo, subisce il fallo e riporta la sua nazionale a -3 da Team USA. Il tutto come se stesse facendo la cosa più normale del mondo contro i suoi amici al campetto.

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Vorrei tanto credergli quando dice che il suo unico obiettivo sono i trofei, che lui gioca per portare a casa il risultato e non per consegnare ai postumi finali di questo tipo (che poi vogliamo parlare di Justin Doellman?!). No, la verità è che per quanto il processo di russificazione abbia portato ad un giocatore con una selezione di tiro migliore e una deresponsabilizzazione sull’arco dei 40 minuti (soprattutto dall’arrivo di De Colo) sgravandolo di pressioni a volte inesistenti, la sua rimane una ricerca del gesto perfetto. Un cruccio estetico senza il quale la sua pallacanestro non avrebbe ragione di esistere.

Certe volte esagera, certe volte coach Itoudis preferirebbe avere un playmaker normale, dalle capacità limitate ma senza quella supponenza che un occhio poco allenato potrebbe vedere in Milos Teodosic.

https://www.youtube.com/watch?v=CgQIaUH9DwQ

Nel 2014, in uno dei finali di partita più drammatici della storia del club, il Maccabi Tel Aviv sotto di 4 a 19 secondi dalla fine ha ribaltato la semifinale e ha vinto una storica Eurolega in finale contro il Real. In quell’occasione c’era Ettore Messina a guidare la compagine russa e l’attuale ct della Nazionale è stato solo uno dei tanti maestri del gioco da cui ha potuto attingere Milos Teodosic. Da Giannakis a Kazlauskas, da Ivkovic a Itoudis, da Djordjevic a Messina.

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Con l’allenatore italiano Milos non ha mai stretto un rapporto di complicità, anzi spesso si mandavano anche a quel paese. Eppure quando gli chiedono di Messina lui fa spallucce, non si sbilancia sul loro rapporto, e poi lo mette insieme a Obradovic e Ivkovic tra quelli che hanno scritto la storia del basket europeo negli ultimi trent’anni. Non si sono mai amati, ma quando le domande vertono inevitabilmente sull’NBA capisci che l’umiltà di questo giocatore si vede a fari spenti, senza l’ossessione del risultato sportivo.

«Chiunque, anche chi non lo dice, vorrebbe andare a giocare in NBA. Io ci vorrei andare ma soltanto in un sistema che mi permetterebbe di dare un contributo reale alla causa. Gli Spurs sarebbero perfetti ma mi piacerebbe andare a giocare anche con gli Utah Jazz perché in panchina c’è Quin Snyder (il vice di Messina ai tempi del CSKA)». Conosce i suoi limiti, sa che tipo di carriera vuole percorrere e possibilmente lo vuole fare circondato da persone dalle quali può imparare quotidianamente. Se hanno una personalità divergente dalla sua poco male, l’importante è che siano dei vincenti.

È un serbo atipico, vero, ma è pur sempre un serbo e il suo profilo Twitter non conosce il russo, e l’inglese viene utilizzato soltanto con i compagni di altra nazionalità. Per il resto è un continuo omaggio alla sua nazione con i complimenti a Djokovic quando ha vinto il Rolland Garros, la foto con il suo primo allenatore dopo la finale contro il Fenerbache, o il recente tributo alla nazionale di pallavolo femminile, per la quale gioca la sua Maja, per il raggiungimento della finale a cinque cerchi (poi persa contro la Cina).

A Rio la Serbia parte in sordina, complice anche l’avvio monstre degli australiani e una difesa da registrare soprattutto in situazioni di pick and roll centrale che i Boomers (così come i francesi) utilizzano tantissimo. La truppa di Sasa Djordevic si qualifica come quarta, incrociando le lame con la Croazia in uno scontro impossibile da ridurre al solo contesto cestistico. Teodosic e compagni sono in controllo ma questa era una sfida che doveva regalare per forza emozioni, in questo caso grazie ad un blackout totale da parte della Serbia che agevola il parziale di 22–7 in favore dei croati a tre minuti dalla fine.

https://www.youtube.com/watch?v=65-2JtAKhmI

Il coraggio di Raduljica (l’EA7 ha fatto il colpaccio!) tiene in linea di galleggiamento la squadra e nel finale serve la freddezza di Teodosic e Jokic, entrambi con percentuali rivedibili ma entrambi impeccabili dalla lunetta. Milos smazza 10 assist ma il pieno controllo della squadra non è ancora suo. In semifinale la rivincita contro l’Australia è una passeggiata di salute. Gli oceanici arrivano stanchi e i problemi di falli limitano eccessivamente Bogut, vero grimaldello quando la squadra non riesce a costruire dei tiri puliti.

Contro gli States era oggettivamente difficile fare meglio, in più la squadra di coach Djordevic ha tirato malissimo dal perimetro (17% da 3) e se non segni alla lunga i ritmi forsennati di Durant&co ti uccidono. Qualche lampo #TEO4 ce lo ha regalato anche all’atto finale e comunque se ne torna a casa con un argento olimpico che fa pendant con quelli di Polonia 2009 (Europei) e di Spagna 2014 (Mondiali). Certo che giochi per i trofei, per cos’altro dovresti giocare?

Articolo a cura di Paolo Stradaioli

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