Mirage PSG

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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6 min readApr 23, 2018

“La cosa più incredibile dei miracoli è che accadono” — G.K. Chesterton

Secondo l’autorevole quotidiano britannico “Financial Times”, il Paris Saint Germain (aka PSG) sarebbe stato messo sotto inchiesta dall’Uefa per aver sovrastimato contratti di sponsorizzazioni (per un valore di 200 milioni di euro), con lo scopo di avere il via libera all’acquisto dal Barcellona delle prestazioni sportive di Neymar. Inoltre, il FT Times ricorda che se fosse provata questo stratagemma fraudolento verso le norme del Fairplay finanziario — stabilito dal massimo organismo calcistico europeo — , il club parigino potrebbe ricevere una punizione che va da quella pecuniaria all’esclusione delle prossime competizioni europee.

“L’importante è che nessuno si faccia male: peccato che succeda sempre”, diceva l’attore Edward Burns nel film “Confidence — La truffa perfetta”, mentre cerca di spiegare il contraddittorio sentiment della truffa.

Era l’estate del 2011 quando la Qatar Sports Investiments annunciò di aver rilevato il PSG dal consorzio (formato da Colony Capital, Butler Capital Partners e Morgan Stanley) che ne deteneva la proprietà. Questo consorzio di banche d’affari (secondo conflitto d’interesse) aveva a suo tempo — nel 2005 — rilevato la proprietà dal potentissimo gruppo mediatico Canal+(primo conflitto d’interessi). In tutto questo, è interessante rilevare come, al momento dell’acquisto dei qatarioti, il PSG fatturasse 80 milioni di euro l’anno e come in soli sette anni sia giunto a fatturarne 500.

Sarebbe interessante capire perché l’allora presidente francese, Nicolas Sarkozy, avesse fatto pressioni sul Qatar per acquistare la proprietà di un club mai stato veramente tra i primi di Francia. In questo paese, il calcio è sempre stato una questione tra città centro-meridionali, mentre a Parigi — come in tutto il nord della Francia — si sono sempre interessati a un altro sport, ovvero il rugby.

Con uno sforzo di immaginazione si potrebbe anche capire il senso della solerzia di Sarkò, nel tentare di avere finalmente un club di football di prestigio mondiale. Ma forse sarebbe un puro esercizio di malizia, quella di descrivere una Francia colpita dalla smania di sedersi da protagonista su tutti i tavoli che contano nel mondo. E uno di questi tavoli è sicuramente il calcio, specie dopo gli ingenti investimenti prospettici di cinesi e americani. Ed è forse per questo che i governi francesi hanno spesso chiuso gli occhi sulle vicende del PSG: se un grande successo nel calcio doveva aver luogo in Francia, questo non poteva che accadere nella capitale della grandeur transalpina: Parigi.

A fronte di questa grandeur calcistica, è stata sacrificata tutta la tradizione — costruitasi nel tempo — di tutto il calcio del sud della Francia, oggi ridotto a mero spettatore di una squadra che nella Ligue 1 ha assunto la connotazione di una globetrotter del calcio per palese manifesta superiorità. Nella 33° giornata di campionato, il club parigino ha letteralmente demolito il Monaco, infliggendogli un 7-1 e relegando la squadra del Principato più al ruolo di una sparring partner da preparazione estiva che da seconda classificata della massima serie francese (il Monaco è arrivato quella sera a -17 dal PSG; la terza classificata, l’Olympique Lione, addirittura a -21).

Ovviamente di questo si parla poco, specie in un Paese dove preferiscono concentrarsi su quali costosi acquisti farà il PSG nella prossima sessione estiva di mercato. Il tutto per tentare l’assalto alla Champions League, ormai unico vero palcoscenico della globetrotters voluta da Sarkozy. E mentre la politica francese ha dato in appalto ai qatarini il sogno di realizzare la grandeur calcistica degli eredi di Napoleone, l’Uefa — dopo anni di grandi dormite — ha finalmente scoperto una qualche traccia di doping finanziario nei bilanci di un club che, prima o poi, dovrebbe far tremare il mondo.

Sono sette anni che i qatarini operano indisturbati e in spregio a ogni regola riconducibile al fairplay finanziario. Sette anni in cui la libera concorrenza tra i club francesi è stata stravolta, visto che il PSG gioca un altro campionato. Tutto questo mentre il numero uno dell’UEFA, Aleksander Ceferin, sta sempre più permettendo l’allargamento della distanza tra i club più ricchi (pochi) e il resto del mondo, attraverso una ripartizione folle dei premi dati alle squadre più vincenti nelle competizioni europee (contribuendo così ad aumentare il divario economico tra forti e deboli nei campionati nazionali).

Ma c’è una cosa su cui Ceferin sta veramente sbagliando: non considera il fattore “tempo ridotto” nello sport.

Per forza di cose, ogni atleta ha un tempo limitato per realizzare i suoi sogni nello sport e questo tempo possiamo ipotizzarlo nell’ordine di sei o sette anni: dopo finisce tutto e altri ti sostituiscono. Egregio mister Ceferin, è importante che questo tempo ridotto sia protetto dalle istituzioni dello sport; è importante che i sacrifici degli sportivi non siano umiliati o resi impotenti.

A settembre 2017, Ceferin ha detto: «So che dovrei escludere il PSG dalle coppe europee». Ma…?

Shirley Babashoff è nata nel 1957 a Whittier, un piccolo centro della contea di Los Angeles, fondato da una comunità quacchera verso la fine del 1887. La Babashoff cresce in un contesto da cristianesimo primitivo (come i quaccheri amavano e amano definirsi), credendo in un mondo fatto da “una comunità di amici”, piuttosto che da nemici da cui stare in perenne allerta. In realtà sarebbe troppo semplificante e manicheo descrivere il mondo come un’eterna rappresentazione di lotta tra nemici, quindi forse sarebbe meglio descriverlo come un luogo dove ognuno cerca di portare avanti le proprie ambizioni, a volte incuranti delle conseguenze.

Shirley Babashoff è stata probabilmente la nuotatrice americana più forte di tutti i tempi, con la “macchia” di non aver mai vinto un oro olimpico in una gara individuale. Trovò la strada sbarrata dalle valchirie tedesco-orientali (aka DDR), donne incastrate in corpi somiglianti più a profili mascolini che femminei. Sarebbe stato evidente trovare qualcosa di strano in quei corpi contro natura, così come sarebbe stato logico un intervento tempestivo da parte delle istituzioni sportive. Ma il Comitato Olimpico Internazionale non intervenne mai, nonostante la nuotatrice americana avesse protestato a più riprese in modo veemente. La Babashoff richiedeva, semplicemente, un gioco corretto e leale, ma ottenne solo di farsi la fama di sore loser, che tradotto in italiano vuol dire una “che non sa perdere”.

Oggi sappiamo che nella DDR vennero portati avanti programmi dopanti dai connotati di veri esperimenti eugenetici, atti a portare medaglie e gloria al socialismo tedesco. Quelle che un tempo furono valchirie, oggi sono o decedute o ridotte a rottami umani da quello che è stato definito il programma dopante più imponente di tutti i tempi. Shirley Babashoff non era una che non sapeva perdere, ma era una sportiva ridotta a vedere svilito il suo talento, per colpa di istituzioni sportive così omissive, da non rendersi conto che in quei corpi mascolini delle nuotatrici tedesche c’era proprio qualcosa di non pulito.

Tempo fa, nel corso di un’intervista che la riabilitava da una che non sa perdere a novella Don Chisciotte, Shirley Babashoff ha confessato di non avere nessuna empatia per quelle nuotatrici tedesche oggi malate a causa del doping:

«Sapevano che stavano barando. Lo sapevano e hanno continuato a giocare sporco. Tutti oggi parlano del loro dolore, e in parte lo comprendo. Ma chi comprende me? Chi mi restituirà la medaglia d’oro che non ho potuto vincere? Chi mai potrà ridarmi quel magico momento in cui si tocca il bordo della vasca per primi?».

Ecco il cuore della questione, egregio mister Ceferin: certi momenti non tornano più. E se l’Uefa concluderà che il PSG è colpevole di doping finanziario, il pensiero andrà a tutti quei giocatori dei club francesi che — come Shirley Babashoff — non hanno avuto l’opportunità di competere correttamente con Il club parigino. E nessuna sentenza, per quanto dura, potrà mai restituire a quei giocatori dei momenti di gloria che avrebbero potuto avere. Nessuno potrà restituire ai tifosi quella gioia che avrebbero potuto provare.

Qualche giorno fa, Filippo Facci ha scritto sul quotidiano “Libero” che tutti noi amiamo il calcio perché è “lo sport più ingiusto del mondo”, e in qualche modo lo rende lo sport più somigliante alla vita di tutti i giorni, alle angherie che sopportiamo. Mi permetterà Facci di dissentire: io credo che noi amiamo il calcio perché è sempre stato imprevedibile nel risultato. Un’imprevedibilità dai connotati apparenti a volte ingiusti, ma che ha regalato il “miracolo di Berna” nei mondiali del 1954, e la vittoria dell’Italia sul Brasile nei mondiali del 1982.

Un proverbio arabo dice: «Non arrenderti. Rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo».

Proteggiamo questa speranza. Proteggiamola prima di diventare tutti scettici e cittadini di un mondo inesorabilmente ingiusto.

Articolo a cura di Anthony Weatherill (ha collaborato Carmelo Pennisi)

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