Narcofútbol — Il calcio ai tempi di Pablo Escobar

Crampi Sportivi
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7 min readOct 25, 2016

Cosa hanno in comune una bomba esplosa all’interno di un aereo che viaggiava da Bogotà a Cali, e trasportava 101 civili, e la prima squadra di calcio colombiano a vincere la Copa Libertadores? Apparentemente niente, sembra un’analogia al limite dell’ordinario e della logica. Ma la connessione porta il nome del narcotrafficante Pablo Escobar.

Il 27 novembre 1989 il volo Avianca 203 decollò dall’aeroporto della capitale colombiana ma, cinque minuti dopo la partenza, una bomba contenuta in una valigetta scoppiò incendiando i vapori di benzina presenti nei serbatoi. Si consumava così una delle tragedie più disumane della storia della Colombia, tragedia che aveva un preciso obiettivo, quello di eliminare Cesar Gaviria, all’epoca candidato per le elezioni presidenziali del Paese, sospinto dalla dura campagna di repressione intrapresa contro il narcotraffico. La mente che aveva ideato l’attentato era quella di Pablo Escobar, che tentava in questo modo di eliminare un nemico scomodo.

Nelle settimane successive, l’Atlético Nacional de Medellín affrontava il Milan di Arrigo Sacchi nella finale di Coppa Intercontinentale. La squadra di Medellin arrivò a contendersi il titolo di campione del mondo per club grazie alla vittoria precedente nella Libertadores, che faceva dei biancoverdi la prima squadra colombiana nella storia a trionfare nella massima competizione americana. Il Nacional perse la sfida solo a un minuto dalla fine dei tempi supplementari, subendo il gol di Evani. Ecco, l’Atlético Nacional vincitrice di campionato e Libertadores, a un passo dal tetto del mondo, era la squadra finanziata dal Re della cocaina Pablo Escobar, il quale oltre alla violenza atroce alternava una passione altrettanto concitata nei confronti del calcio.

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D’altronde un’unione dei due interessi non sarebbe stata possibile senza un’ingente fonte di denaro. A questo punto subentra il potere economico dei narcos. Se l’Atlético Nacional è stata la prima squadra a vincere la Libertadores, è anche vero che il calcio colombiano in quegli anni, grazie alla sovvenzione dei narcos, ha vissuto un’epopea tecnica fino ad allora impensabile. Il cartello di Medellín, quello di Escobar, fatturava cifre intorno ai 60 milioni di dollari al giorno. Ma gli altri cartelli attivi nel narcotraffico come quello di Bogotá e soprattutto Cali, non persero tempo e in breve tempo instaurarono dei derby calcistici tra le squadre di Pablo Escobar, i Milionarios di José Gonzalo Rodriguez Gacha detto ‘El Messican’ e l’America de Cali dei fratelli Rodriguez Orejela. Un’era che può essere definita in Colombia come quella del narcofùtbol.

Il denaro dei narcos che ha pompato le casse di alcune squadre della Liga Postobon ha tutt’ora lasciato un solco indelebile nella storia del calcio colombiano. Basta pensare che le tre squadre sopracitate sono ad oggi le più titolate della Colombia. L’America de Cali tra il 1985 e il 1987 ha disputato per tre anni consecutivi la finale della Libertadores. I Milionarios, e mai nome fu più azzeccato, hanno potuto vestire con i propri colori uno dei migliori centrocampista della storia del calcio sudamericano Carlos Valderrama.

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Pablo Escobar, sciovinista e decisamente più fanatico dei suoi rivali, contemplò una politica calcistica personalizzata, tanto da convincere Francisco Maturana, allenatore del Nacional, ad ingaggiare esclusivamente calciatori di nazionalità colombiana. Così come i fidati sicarios del Re della cocaina formavano un temibile squadrone della morte, i biancoverdi di Medellin diventarono gli imbattibili Puros Criollos, un gruppo interamente costruito in patria. Un blocco che formerà poi l’ossatura della nazionale dei Cafeteros formato dal portiere leggenda René Higuita, insieme al capitano della nazionale e omonimo de El Patron Andrés Escobar, poi Luis Carlos Perea, ancora il veterano del Nacional e della nazionale Luis Fernando Herrera e il Palomo dalla tecnica sopraffina Albeiro Usuriaga López. I narcodollari permettono a una Colombia povera e affossata dal degrado delinquenziale, di alzare l’asticella degli stipendi dei propri calciatori conformandoli agli standard europei. Una condizione la cui realizzazione oggi sarebbe utopistica.

La rivista statunitense di economia e finanza Forbes, periodicamente censisce la classifica degli uomini più ricchi del pianeta. Nel 1987, momento d’apice per il cartello di Medellin, la rivista classifica Pablo Escobar al settimo posto. L’impero economico del signore della droga non poteva vivere di troppa luce del sole e quindi il calcio diventa un’ottima lavatrice per il denaro sporco. Il fútbol è anche un’opportunità da percorrere per costruirsi un’immagine migliore e amplificata utile a coronare il vero sogno mai nascosto da Escobar: diventare presidente della Colombia. Nasce così il barrio Escobar, il quartiere dove Pablo è nato e cresciuto. All’interno del sobborgo il re dei narcos costruisce ospedali ma soprattutto un grande numero di impianti sportivi, all’incirca una cinquantina in tutto l’agglomerato di Medellín.

Ma il calcio in quegli anni è stato sfortunatamente vettore di degenerazione. Una follia a livelli esponenziali che coinvolgerà numerose persone in un sistema più grande di loro. Nel 1990 Cardellino, arbitro di origine uruguaiana, denuncia un tentativo di corruzione subito in occasione del match tra Vasco de Gama e Nacional, con annesse minacce di morte. Il giro di scommesse clandestine è un ulteriore strumento usato dai narcos per ripulire il denaro e per esercitare la propria tendenza alla coercizione. Andrà notevolmente peggio all’arbitro Alvaro Ortega, ucciso per aver annullato un gol all’Independiente de Medellín nella partita contro l’America de Cali, squadra del cartello di narcos rivale a quello di Escobar.

La violenza è alternata a una esasperata ostentazione di prosperità. Dopo lo storico accordo siglato tra Escobar e il governo colombiano, il narcotrafficante si consegna alle autorità alla sola condizione di essere recluso all’interno di un carcere di sua costruzione. La richiesta è talmente folle che viene accettata dalle autorità governative, così Escobar in breve tempo fa costruire ‘La Catedral’, una prigione di lusso che ha evitato a Pablo l’estradizione negli Stati Uniti. Inutile dire che una parte del perimetro di costruzione della fortezza fu destinato a un campo di calcio dove i narcos potevano esibirsi in amichevoli tra pacifici gentiluomini.

Ed è qui che viene il bello. In una storia dove l’assurdo diviene più ordinario delle consuetudini, Escobar trovò il modo di ospitare nella sua prigione quasi tutta la formazione titolare della nazionale colombiana che di lì a poco avrebbe partecipato al mondiale di Usa ’94. René Higuita e compagni scendono così in campo nell’amichevole dedicata alla Virgen de las Mercedes, praticamente la madonna dei reclusi, contro la squadra di Escobar e i suoi sicari.

Proprio al portierone dei Cafeteros costò cara l’amicizia e le consuete visite ad Escobar. Nel 1993 Higuita pagò infatti con l’arresto a causa del suo ruolo da mediatore nel sequestro della figlia di un rivale di Escobar. In Colombia un’azione del genere rientra nei reati presenti nel codice penale e per il portiere furono inevitabili 7 mesi di reclusione e quindi l’esclusione dalla selezione per i mondiali statunitensi. “Sono un calciatore, non conoscevo la legge sui sequestri” commentò il Re Scorpione.

Anche nel periodo di carcerazione a La Catedral, Escobar non riuscì a mantenere i patti stretti col governo e spesso si concedeva toccate e (vere e proprie) fughe per assistere allo stadio, ad alcune partite delle sue due squadre di Medellin.

Ma non è tutto perché Pablo Escobar, con un’operazione tutt’altro che limpida, riuscì ad ospitare a La Catedral anche El Pibe de oro. Era il 1991 e Maradona, ignaro di dove fosse e con chi fosse, si esibì in amichevole insieme ai nazionali colombiani. Subito dopo la partitella, Escobar gli propose di giocare nel suo Nacional, ma el Pibe (in forza al Napoli) declinò l’invito e poco dopo fece il suo approdo alla corte del Siviglia.

Ogni paragrafo delle relazioni di Escobar con il calcio sarebbe degno di finire sul grande schermo con un film, o perlomeno con un documentario a parte. E infatti è l’idea che ha avuto anche ESPN con “The two Escobars”, i due Escobar: uno è il noto Pablo, e l’altro è il quasi omonimo Andres, il capitano dei Cafeteros. Un personaggio vittima di due grandi sfortune che gli hanno compromesso l’esistenza: la prima è quella di aver avuto lo stesso cognome del più grande narcotrafficante della storia, e la seconda aver segnato un autogol durante USA ’94 nel match decisivo per il girone, proprio contro i padroni di casa a stelle e strisce. Escobar (il calciatore) qualche giorno dopo pagò con la morte quell’autorete. Gli esplosero contro dodici colpi di pistola nel parcheggio del bar Padua di Medellín. Proiettili sparati dall’arma di un ex uomo di Pablo, successivamente sicario dei Los Pepes, gruppo di guerriglieri giunti sulla scena del narcotraffico dopo la morte di Escobar (il narcos).

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Per quanto riguarda la vita dei residenti calcistici di Medellin, invece, qualcosa pare sia cambiato sul serio. Il 27 luglio scorso il Nacional ha infatti avuto la meglio tra andata e ritorno sull’Independiente del Valle nella finale di Copa Libertadores. Dopo 27 anni Los Verdolagas sono tornati ad alzare al cielo la coppa più importante dell’America Latina, e facendolo si sono in qualche modo smacchiati dalle ombre del titolo vinto nei tempi del calcio di Pablo Escobar. Il protagonista della rincorsa alla vittoria è stato Miguel Ángel Borja, attaccante classe ’93 che quel calcio non lo ha vissuto. Quattro gol nelle semifinali e uno in finale per il giovane colombiano che ha avuto anche un breve trascorso in Italia, a Livorno. Nella stessa squadra campione, giocava Marcos Moreno. Un’altra promessa cresciuta nelle giovanili del Nacional, che è stato acquistato subito dopo il trionfo, dal Manchester City.

Per quanto riguarda la Medellìn fisica, invece, c’è da dire che fino a qualche tempo fa la Comuna 13, il quartiere più pericoloso della città, era irraggiungibile per tutte le persone che non fossero del posto, mentre oggi grazie ai numerosi tour operator è diventata un’ambita meta turistica. Il calcio ai tempi di Escobar era un elogio alla follia. La speranza è che quello attuale possa diventare un elogio alla favola, raccontata attraverso i murales di Medellín, Cali e Bogotá, e stavolta per meriti solo sportivi.

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