Non assomiglio a nessuno
Se avessi un accessorio per tutte le volte che ho sentito abusare del termine predestinato, soprattutto nella narrazione sportiva, oggi sarei Aubameyang. Già il termine, di per sé, è molto vasto e rimanda all’accezione stoica del termine, dove il destino è il deus ex machina di tutte le cose. Nulla accade per caso. Ecco con Gianluca Caprari direi che l’abuso è quasi un eufemismo, dal momento che in tanti, dopo la sua apparizione in Serie A con la maglia della Roma, hanno ricordato un episodio decisamente trascurabile. Roma-Palermo del 2008, decide un gol di Mancini su corner battuto da Taddei. Quel corner è stato battuto velocemente dall’italo-brasiliano che trovò la retroguardia palermitana impreparata. Leggenda narra (che poi è la verità però ormai rimaniamo nella retorica) che la persona che posizionò la palla nella mezzaluna affinché la Roma potesse accelerare le operazioni fu proprio Gianluca Caprari, autore del primo “assist” con la maglia della Roma.
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Una cosa del genere non fa altro che amplificare la smodata necessità di una piazza come Roma di trovare un degno erede che almeno non faccia impallidire i nostalgici abituati a vedere la 10 girovagare per il campo. Bastano pochi scampoli di partite per capire che Caprari non sarà mai il prescelto che Roma e la Roma ansiosamente aspettano. Un po’ per caratteristiche tecniche e un po’ perché l’ultima volta che ho controllato quello lì con la numero 10 tende a farsi ancora notare quando scende in campo.
Per inquadrare correttamente Caprari bisogna partire dal dream team giallorosso che spostò per qualche periodo l’attenzione dall’Olimpico al centro tecnico Bernardini, dove la Primavera della Roma, tra il 2010 e il 2012, raggiunse risultati di un certo livello. Oltre a vincere il campionato nel 2011 e uscire in semifinale nel 2012, il grande merito che va dato ad Alberto De Rossi, storico allenatore della Primavera romanista, è quello di aver coltivato una nidiata di talenti come non se ne vedevano da tempo in Italia. Pigliacelli, Antei, Barba, Sabelli, Viviani, Verre, Florenzi, Politano. Ovviamente di quella squadra fa parte anche Caprari, convinto ad abbandonare la posizione di prima punta per esaltarne le doti nell’1vs1 e la visione di gioco.
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In Primavera Caprari gioca sia largo a destra che dietro alla punta, cercando sempre il passaggio per il compagno prima della soluzione personale. Sembra perfetto per il modo di intendere calcio esportato da Luis Enrique sulle sponde del Tevere, con la differenza sostanziale che Trigoria non è Sant Joan Despí e la Roma non è il Barça. L’esperimento di Luis Enrique dura poco, quello di Caprari titolare ancora meno, dal momento che bastano due partite contro lo Slovan Bratislava (e farsi eliminare dagli slovacchi era difficile) per dissuadere il tecnico spagnolo. Gli allenamenti posizionali made in Catalunya però li deve aver assorbiti piuttosto bene il nostro, dal momento che l’anno successivo si trasferisce in prestito al Pescara di Zeman, e lì oltre a sfoggiare una serie di movimenti senza palla che denotano una comprensione del gioco diversa dal resto della truppa, si scopre anche giocatore decisivo. Quando torna alla base (Roma), il nuovo tecnico Garcia dimostra di apprezzare esterni più diretti, capaci di spezzare le linee difensive palla al piede. Non esattamente l’identikit di un Caprari sempre più orientato verso il centro del campo. A gennaio il Pescara decide di investire poco meno di due milioni per metterlo sotto contratto. È la fine della carriera da predestinato e l’inizio di quella da calciatore vero, alla ricerca di una sua dimensione in una squadra di serie B dove poter maturare senza alcun tipo di pressione o scomodi paragoni.
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Caprari segna la doppietta che regala la promozione al Delfino
Un calciatore vero deve affrontare le sfide che una carriera normale pone di fronte a tutti. Ad esempio il destino non c’entra se in panchina c’è Serse Cosmi e il feeling tra i due non è dei migliori. Non c’entra nemmeno quando a ottobre ti fratturi il metatarso, costringendoti ad osservare lo sviluppo della squadra dalla tribuna. E quando i guai fisici sono risolti iniziano quelli tecnico-tattici, dovendoti inserire in un contesto dal quale la tua assenza ha elaborato soluzioni diverse, nelle quali ormai non rientri. La stagione 14/15 non è particolarmente felice, fino a che non arriva sulla panchina del delfino Massimo Oddo, il definitivo artefice del nuovo modo di giocare di Gianluca Caprari. Smaltita la delusione per il playoff contro il Bologna, la squadra si mette a lavoro, ragionando su una proposta di gioco proattiva e alla continua ricerca di spazi vuoti. Bastano poche giornate per capire che il Pescara di Oddo è una squadra che farà divertire. Lo schema di partenza è un 4–3–3 ultra-associativo, dove le due mezzepunte, Caprari e Benali, ricevono sempre negli half spaces creati dai movimenti di Lapadula, e scelgono se andare al tiro o premiare gli inserimenti delle mezzali o dello stesso Lapadula. L’ampiezza è garantita dai terzini e il pallone spesso viene giocato dalle retrovie con l’abbassamento di uno dei centrocampisti (Torreira o Mandragora). In fase di possesso il Pescara ricorda il 3–3–3–1 tanto caro a gente come Guardiola e Sampaoli, non esattamente due allenatori abituati a lavorare con materiale tecnico scadente. Anche la materia prima a disposizione di Oddo è superiore per la Serie B, tanto che il Pescara è sempre sceso in campo con l’idea di fare la partita, forte anche di un bomber in stato di grazia e di una mezzapunta che a 23 anni ha trovato la sua dimensione. I paragoni non esistono più, Roma è lontana, Oddo capisce che la fase difensiva è qualcosa che Caprari non ha intenzione di imparare con la dovuta attenzione e quindi lo colloca a ridosso dell’area di rigore. Il risultato è un concentrato di tecnica, comprensione del gioco e senso del gol in un giocatore che vanta un primo controllo con pochi eguali e che, viene da sé, diventa impossibile fermare in Serie B. Per la cronaca fanno 13 gol e 12 assist, salta appena quattro partite e si diverte come al campetto quando duetta magnificamente con l’altro capolavoro di Oddo che risponde proprio al nome di Gianluca Lapadula.
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Storia diversa stesso epilogo. Se Caprari è il bimbo prodigio sempre pronto ad esplodere e puntualmente riposto alla voce “eterne promesse”, l’altro è un attaccante qualsiasi che dopo un girovagare insensato trova la squadra giusta per dimostrare il suo effettivo valore. Le copertine le prende per ovvi motivi Lapadula, 27 gol sono troppi per lasciar perdere, persino il Milan non vuole aspettare una conferma in Serie A, tanto ha convinto in cadetteria. Per Caprari invece si muove la Juventus, senza però affondare il colpo, rimane sorniona in attesa di sviluppi. Quando arriva l’Inter nemmeno ci fa caso, il mercato è frenetico e non stiamo parlando del nuovo Maradona. Il Pescara si accontenta di 5 milioni, pochi per quello che il giocatore ha dimostrato, tanti per l’assenza di una controprova in un contesto più stressante e tecnicamente più alto della serie B.
Caprari non si è mai tirato indietro. Tradisce eccitazione quando parla dell’Inter, meno quando parla del suo passato alla Roma, dove sarebbe voluto tornare ma la società ha compiuto scelte differenti quindi è inutile provare risentimento. Riconosce i suoi due maestri in Zeman e Oddo, quest’ultimo ancora seduto sulla panchina del Pescara e ancora allenatore di Caprari, che si unirà all’Inter dalla prossima stagione. La maturazione calcistica di Gianluca passa quindi dal diventare il leader di una squadra piccola per dimostrare la durezza mentale che serve di fronte al pubblico di San Siro.
Senza Lapadula il Pescara ha dovuto modificare il suo gioco nella trequarti offensiva. Oddo sta ancora sperimentando le due migliori opzioni vicino a Caprari, alternando giocatori molto associativi (Verre, Benali) a centravanti più abituati ad andare in profondità (Manaj, Bahebeck). Certo è che per adesso le responsabilità realizzative pesano molto sulle spalle di Caprari, con l’ex romanista che tira 3 volte a partita e produce 1,9 passaggi chiave, i dati più alti in tutta la squadra. Rimane comunque un ruolo che deve imparare ad interpretare dal momento che il dato sui palloni persi (2,9 per game, soltanto Ricky Alvarez in Serie A ne perde di più) non è confortante, così come la sua percentuale realizzativa tra tiri tentati e gol fatti è molto bassa, anche rispetto alla qualità di quei tiri.
Non è ancora un gioco da ragazzi inquadrare Gianluca Caprari. Il destino ormai lo mettiamo in soffitta, il ragazzo ha attraversato un percorso di crescita che adesso lo porta a giocare legittimamente in Serie A con una squadra ben messa in campo e molto interessante da leggere partita per partita. L’idea è che quando Oddo troverà la quadratura nei tre davanti avremmo un Caprari molto più consapevole di ciò che può fare per aiutare la squadra e accrescere l’hype personale. La chiamata della Nazionale sembra ancora prematura, specialmente se Ventura si ostinerà ad emulare l’approccio tattico contiano, nel quale Caprari non sembra facilmente collocabile. Più interessante sarebbe vederlo nel 4–2–4, dove magari in coppia al suo amico Lapadula si troverebbe benissimo. Siamo sicuramente nel campo delle ipotesi ma dal prossimo anno, salvo stravolgimenti, giocheranno entrambi a Milano. Il destino non c’entra più. Caprari non assomiglia a nessuno, non vuole diventare nessuno, vuole soltanto giocare a calcio ed esprimere il suo talento al meglio delle proprie possibilità. E per quanto riguarda il destino, c’è tutto il tempo ancora di crearsene uno su misura.
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