Non un altro Denilson

Crampi Sportivi
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8 min readApr 27, 2016

Non so voi, ma quando penso alla definizione di “giocoliere” nel mondo del calcio, ho un ricordo ben vivido in testa. Riguarda due estati: quella del ’98 e quella del 2002. Entrambe hanno ospitato due Mondiali, molto diversi tra loro. Da una parte la grandeur francese, dall’altra l’innovazione orientale.

Tra i due, l’unico punto di connessione è rappresentato dal Brasile. Con le sue differenze, eh. Nel ’98 un Brasile stra-favorito perse l’ultimo atto e non solo regalò alla Francia il titolo Mondiale, ma perse senza opporre resistenza. Nel 2002, invece, un Brasile tra i più forti della storia passeggiò con la tripla R sulle altre squadre. E sulle rovine mentali di Oliver Kahn, che credo non si sia più ripreso.

Anche in quel caso, nonostante le differenze, un punto in comune c’era. Ma quali Ronaldo e Rivaldo! La connessione tra quei due Brasile era un numero 17 o 19, che partiva sempre dalla panchina. Né Zagallo, né Scolari — abili tecnici — l’avrebbero mai schierato titolare, però lo facevano sempre entrare.

Denílson de Oliveira Araújo ha giocato 61 partite per la nazionale brasiliana. Molte più di Leonardo, Juninho Pernambucano, Alex: tutta gente che ha giocato più o meno nel suo stesso ruolo e che ha avuto un carriera migliore della sua. Quando si trattava però di mettere la partita in ghiaccio, Denilson era il tuo uomo.

Il ragazzo che per qualche tempo è stato l’acquisto più costoso del mondo (60 miliardi di lire spesi dal Betis nell’estate del ’98) ha giocato una Confederations Cup, due Copa América e due Mondiali, vincendo ognuna di queste competizioni. Eppure Denilson ha giocato 12 partite in quei due Mondiali: in 11 di queste subentrò dalla panchina.

A un certo punto, trovate anche Erdogan in marcatura su di lui.

Nonostante l’enorme potenziale a disposizione, Denilson non ha mai realmente soddisfatto quelle attese: è rimasto sette anni a Siviglia, ma senza mai conquistare i tifosi e i media. E c’è chi, come lui, ha sofferto lo stesso infausto destino fino a un paio di anni fa.

L’erede

C’è un anello di congiunzione tra Denilson e Yannick Bolasie. Un anello che si manifesta il 6 dicembre 2014. Il Crystal Palace, sempre nei guai in classifica e con Neil Warnock a un passo dall’esonero, si presenta a White Hart Lane per giocare contro il Tottenham. La partita finirà 0–0, ma il risultato sembra finire in secondo piano. Il merito è di Yala, come lo chiamano i suoi fan.

Al minuto 20 tira fuori la magia della serata: progressione sulla fascia, ma ormai il campo è finito. Di fronte c’è Christian Eriksen, secondo me uno dei migliori giocatori attualmente presenti in Premier League. L’ala delle Eagles prende la palla e la fa scorrere. Fa una giravolta e alza la sfera con la gamba d’appoggio. Quando il danese capisce cos’è successo, Bolasie è già andato via per il cross.

Io vorrei sapere non tanto cosa sia frullato nella mente di Bolasie, ma piuttosto nella mente di Eriksen. Uno ti fa un numero così e come minimo le reazioni sono due: o rimani stupito o lo vuoi falciare al prossimo tackle.

Il suo flick è talmente iconico che il Palace realizza apposta un video con il suo giocatore per spiegarlo ai profani. La mossa è finita persino tra le nuove skills presenti in FIFA 16. E l’impatto è così enorme che se cercate su YouTube la parola “Bolasie”, il primo suggerimento che vi spunta è “flick”, ovvero il trick che il ragazzo di Lione ha ormai fatto suo.

Lui dirà di essersi ispirato a Ronaldinho, particolarmente dotato per inventiva e tecnica. Però chissà se lo stesso Dinho non abbia rubato qualche trucco al vecchio Denilson, che con lui ha condiviso il Mondiale 2002 e la Coppa vinta a Yokohama. Qui però la preoccupazione per il congolese diventa un’altra.

E se fosse solo un giocoliere per tutto il resto della sua vita? Se il suo profilo di giocatore corrispondesse a quello del buffone e non a quello del giocatore che ti fa vincere le partite? Forse anche lui ha cominciato a chiederselo a un certo punto della sua carriera.

Dopo esser stato preso in giro già nella gara d’andata, anche qui Lovren deve essersi incazzato. Specie se si pensa che da questa burla nasce il vantaggio del Palace a Liverpool. Nell’ultima di Steven Gerrard in Red.

Ma è proprio quando ti poni un problema che la risalita è dietro l’angolo.

From zero to hero

Bolasie l’ha ricordato in questi ultimi mesi:

«Ho avuto alcuni momenti in cui non venivo nemmeno pagato. E adesso è pazzesco sentire un tecnico come Alan Pardew (il suo manager al Palace, ndr) dire che io valgo 20 40, 60 milioni di euro. Mi fa sentire orgoglioso».

Difficilmente sarà pagato 60 milioni di euro, ma la crescita di Bolasie è indubbia. Si è trasferito in Inghilterra quando aveva solo sette mesi di vita: ha cominciato a giocare e ha esordito nei dilettanti dell’Hillingdon Borough. Si è anche arrivati a un punto nel quale il calcio poteva non esser nel suo destino. A quei tempi, Bolasie ricorda come lo aspettasse un altro lavoro:

«Giocare a calcio è sempre stato un sogno per me, ma se non ce l’avessi fatta come giocatore, probabilmente sarei stato un carpentiere…».

Poi l’offerta da Malta, precisamente dal Floriana, e la sua carriera svolta definitivamente per il meglio.

Torna in Inghilterra appena un anno più tardi, quando nel 2008 firma per il Plymouth Argyle. Gira in prestito e impressiona con il Barnet. Quando torna alla base, Bolasie è ormai stabilmente titolare, ma la società è in amministrazione controllata: «Ho dovuto risparmiare per andare avanti. Al Plymouth è dovuta intervenire la federazione, altrimenti…».

Alla fine il Plymouth retrocede e lui decide di passare al Bristol City. L’idillio a Bristol dura appena un anno. Giusto il tempo di fare meraviglie in Championship e consegnare una richiesta scritta per esser ceduto. Il desiderio di tornare a Londra è troppo forte. E quando arriva il Crystal Palace nell’estate del 2012, l’affare è praticamente cosa fatta.

Tutto è iniziato nel sud dell’Inghilterra.

A Selhurst Park si gioca ancora in Championship, ma la squadra è quadrata e a metà stagione ha la fortuna di incontrare Ian Holloway, uomo tutto d’un pezzo e profeta del 4–3–3, già visto in quel di Blackpool. Gioca tanto (43 partite) ed è protagonista della promozione conquistata a Wembley, sebbene nella finale dei play-off non giochi. Tuttavia, quando si arriva in Premier, la squadra va male e Holloway non lo vede più.

A salvarlo dall’esilio tecnico ci pensano due cose: l’esonero di Holloway e l’arrivo di Tony Pulis, Mr. No Relegation. Non segna nessuna rete nella sua prima stagione in Premier, ma il manager non ha dubbi e punta sempre su di lui. Bolasie ricambia:

«Ogni tanto mi diceva che ero un top-player e mi mettevo a ridere. Poi lui si faceva serio e diceva: «Guarda che non scherzo». Pulis è un uomo capace di darti sicurezza: ci ha fatto capire che potevamo stare in Premier League».

L’anno successivo, però, Pulis non c’è più. Al suo posto arriva Neil Warnock, che viene esonerato dopo qualche mese. Quando Alan Pardew si siede sulla panchina delle Eagles, la carriera di Bolasie cambia di nuovo: da semplice juggler a giocatore decisivo. Mette a referto quattro gol, ma soprattutto 11 assist in tutto il 2014–15.

Una volta gli chiesero qual era la giornata perfetta per un calciatore: «Credo che segnare una tripletta sarebbe bellissimo». Contro il Sunderland nello scorso aprile si è divertito a vivere quella giornata-tipo. In 10 minuti, il primo nella storia del Palace in Premier League.

Con la struttura fisica che si ritrova, Bolasie ha due gambe che sono due trampoli. Quelle leve lunghe e giaguaresche gli permettono di arrivare prima degli avversari, sempre una frazione d’anticipo rispetto al suo marcatore. Ed è proprio quel decimo di secondo che gli consente di sciorinare il bagaglio di tricks che porta con sé.

Quest’estate il Tottenham avrebbe voluto fare come al solito: si mette mano al portafoglio e si porta un fenomeno — l’ennesimo — a White Hart Lane. Tuttavia, attento più al campo che al portafoglio, Bolasie non era convintissimo. E quando il Palace gli ha offerto il rinnovo con adeguamento, lui ha firmato felice.

In questa stagione sta proseguendo il suo percorso di crescita. Lo score è di 28 gare e sei reti, di cui una decisiva ad Anfield e un’altra con la quale ha firmato l’accesso alla finale di F.A. Cup dopo 26 anni. Un lavoro più silenzioso, ma sempre fondamentale. Nel frattempo, si è conquistato anche il cuore di un popolo lontano dal sud di Londra. E si diverte anche a fare battaglie rap.

Il simbolo di un paese

Nato a Lione, Bolasie avrebbe in teoria la possibilità di esser convocato per la nazionale francese. Tuttavia, il ct Deschamps non ha mai provato alcun interesse per lui. E anche l’Inghilterra avrebbe potuto chiamarlo, visto che Bolasie ha trascorso quasi tutta la sua vita nel Regno Unito, ma niente.

Così, in mancanza di offerte, si è fatta avanti la Repubblica Democratica del Congo. Claude Le Roy, un santone francese che ha allenato tante nazionali nel Continente Nero, l’avrebbe voluto con sé alla Coppa d’Africa del 2013. E invece Bolasie dice no: pensa che non sia il momento giusto per un’avventura del genere. Ma non la esclude del tutto.

E infatti due mesi dopo la RD Congo ci riprova, stavolta incassando il sì tanto atteso. Quando poi sulla panchina dei Leopardi arriva Florent Ibengé, tutto cambia per il meglio: del resto, l’attuale ct della nazionale è stato persino inserito nei 50 migliori allenatori al mondo da FourFourTwo.

Come cambia la vita, eh. Dal non voler giocare con la DR a diventarne l’idolo assoluto.

Il 2015 è stato fondamentale per Bolasie non solo in Inghilterra, ma anche con la nazionale. Non è un caso se alla sua prima competizione ufficiale con la DR Congo — la Coppa d’Africa — Bolasie abbia impressionato tutti. E non solo per il flick eseguito in un’amichevole contro il Camerun in preparazione alla rassegna continentale.

Dopo esser stata eliminata due anni prima, la nazionale guida da Ibengé ha passato prima il girone e poi ha eliminato i “cugini” del Congo in rimonta per 4–2. Ha sì perso la semifinale contro i futuri campioni della Costa d’Avorio, ma la DR ha conquistato il terzo posto finale. Una grande soddisfazione e una speranza per il futuro.

Oggi Bolasie sa di rappresentare una luce per l’intero paese, che ha vissuto le atrocità di Mobutu. Il ricordo dello Zaire sembra temporalmente lontano, ma non lo è nella mente di molti: «Giocare nel mio paese è stata una grande esperienza: mi ha aiutato a crescere e a farmi prendere responsabilità».

Legacies diverse

Cosa rimarrà quindi della carriera di Yannick Bolasie lo potremo sapere solo guardandolo in Premier League. Ogni anno lui migliora e quest’anno si è preso pure la responsabilità del “10”, lasciando il suo amato “7”, quello che forse meglio lo identifica dal punto di vista calcistico. Non più solo un’ala ballerina, bensì la colonna tecnica della sua squadra.

Denilson, invece, ha lasciato più rimpianti che altro. Dopo Siviglia è andato a Bordeaux e poi ha cominciato un lungo giro per il mondo, che l’ha portato in Arabia Saudita, nella MLS, in Vietnam e infine in Grecia. Ritiratosi nel 2010, ancora oggi lavora come commentatore per un’emittente brasiliana e ha un discreto seguito su Twitter.

Ma forse l’immagine che più stona è quella di una pubblicità. Quella della Nike del 2002, prima del Mondiale vinto in Oriente. La famosa gabbia con Cantona a fare da host, i tanti campioni presenti. E poi c’è Denilson, sorridente come al solito e sempre pronto per una giocata, in squadra con Seol Ki-Hyeon e il suo erede Ronaldinho. In quel parterre de roi, però, a posteriori sembra fuori posto. Bolasie si augura ben altro.

Articolo a cura di Gabriele Anello

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