Novanta minuti di silenzio

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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3 min readSep 11, 2016

Non c’erano abbastanza braccia per appenderci il nero di un lutto, quell’undici settembre duemilauno. Non c’erano, ma c’era l’uso di quanto stabilito, lo show che deve andare avanti. Roma, capitale del mondo di un tempo remoto, sublimava nello sport il coinvolgimento alle occasioni terrene, lasciava nella propria letteratura gli dei dispensatori di destino e si baloccava con le proprie meraviglie. Quale posto migliore di Roma, in quel caso, con il suo gigantismo manifesto, per azzardare la presunzione di saper sovrastare l’evoluzione della storia.

La distanza storica tra le capitali di due epoche del mondo si misurò in un campo di calcio, la sera degli attacchi terroristici: New York bruciava, Roma si svegliò più tardi, ché era già bruciata a lungo, per secoli d’Impero. E lo Stadio Olimpico agli dei sembrò forse il luogo naturale perché fosse definita la liquidità degli accadimenti, nonostante una gravità mai vista prima, il luogo deputato a certificare quanto tra il battito d’ali della farfalla in un emisfero e le faglie di un terremoto in un altro non ci sia, d’altronde, tutta questa continuità; non c’è giudizio, nella distanza, anche là dove le tecnologie abbiano permesso all’informazione di raggiungere gli angoli più nascosti di mondo, il mondo se ne accorse nel tempo e nel modo della propria consuetudine, fasciando ferite non sue di parole e gesti di sostegno, ma nell’intimo incapace di ammettere quanto la distanza fosse incolmabile, assoluta.

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Non si doveva giocare, si disse, dopo aver giocato. Una Roma formato Champions, non si vedeva da prima che esistesse, la Champions, mentre il Real Madrid era la squadra capitale del calcio mondiale, la squadra per eccellenza dello sport più seguito. Si doveva vedere la maglia fatta apposta, quella a blocchi verticali di giallo e di rosso su cui mostrare un sudato scudetto, si pretendeva che spiccasse contro il blanco galactico di un’invincibile armata, si attendeva il debutto al massimo livello del calciatore simbolo Francesco Totti, nel pieno della maturità, e se l’attesa del match aveva forse anticipato l’occorrenza della gara stessa, si chiariva così la misura tra l’evento sportivo e la storia: l’uno ragionato e anticipato da una continua proiezione, accaduto tante volte prima di accadere, l’altra definita dal proprio racconto, nel punto esatto in cui scoprì che l’immagine sapeva indirizzarla e sostituirla, in un racconto di secondo grado (si legga, per questo tema, l’importante saggio di Attilio Scarpellini L’angelo rovesciato, Edizioni Idea, 2009).

Settantamila, sciarpa più, sciarpa meno. Settantamila sfiorano la storia, la vedono riflessa tra gli schermi dentro i bar, scorrono gli occhi e compongono un mosaico frammentato di ciò che sta accadendo, sezionano il rapporto tra l’abitudine alla propria giornata di mezzo alla settimana e quanto l’improvviso sappia intervenire a modificarne il senso di marcia.

Settantamila si danno appuntamento, non recedono, sacrificano piccoli o grandi dubbi occorsi lungo la giornata e no, dicono di no, che “non cambia niente se ci vado lo stesso, in fondo se non si fermano loro perché mi devo fermare io”, dicono cioè una verità aumentata dell’era contemporanea: non è più lo show che deve andare avanti, ma in una realtà sconfitta dalla propria rappresentazione, nel giorno in cui le presenta il conto e determina il punto di non ritorno che sostituisce la didascalia all’evento, lo show non è dunque più in questione, non è più la sfera di interesse primario, ad “andare avanti” deve essere la proiezione che l’ha preceduto, non come verifica — giacché qui la verità non ha residenza — ma come fosse una ribellione della potenza all’atto, che volontariamente cerca i presupposti impossibili di esistere con i propri caratteri appena sagomati, senza mai trasformarsi in esso.

E poi finì, quella partita mai cominciata, rimasta come una macchia seminascosta tra le pieghe di una stoffa sontuosa, com’è il grande calcio europeo. Finì ma non fu la fine, non fu il fischio dell’arbitro tedesco a concludere le corse, i colpi, il sudore; fu il contatto tra le scarpe e il terreno, l’uscita dal tunnel sotto gli spogliatoi, quella comunicazione mai arrivata di impedire al mondo di tradire sé stesso, l’atto che rivendica il primato e si impone a ricondurre le aritmie di infinite astrazioni nel battito di un solo, enorme, evento. Finì il lutto senza braccio, finì l’attesa tra le macerie della coscienza e di colpo, a ognuno dei settantamila, si rivelò il punto esatto della frattura tra sé e il mondo, un punto qualsiasi di un battito inascoltato, ma costante, lungo novanta minuti di silenzio.

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