Olandese singolare

Simone Nebbia
Crampi Sportivi
Published in
3 min readMay 29, 2017

Ma che ne sai Tom, che ne sai che quel giorno, quello in cui hai vinto il tuo (primo?) Giro d’Italia, proprio nel momento esatto in cui ti finiva sulle spalle l’ultima rosa, la più sofferta, la più meritata, proprio allora su un lontano prato verde dove nascono in genere le speranze se ne avvertiva una, la più promettente, concludere la sua parabola di esaudimento. Certa meraviglia di una domenica di sport, iniziata a bordo di una Ferrari tedesca, proseguita su una bici olandese, finita poi a colpire di lacrime un pallone, romano. E romanista. Perché le passioni esistono senza avere confini, passano di cuore in cuore, si riconoscono come diversi zampilli di fontana sprizzano dalla stessa sorgente. In cui immergersi senza timore di essere bagnati.

Il ciclismo poi è uno strano sport, ha tante gare ma non ha una finale. Eppure a vederla da Milano questa crono partita da Monza sembrava fosse una sfida da royal rumble: cinque sul ring, minacce e rivalità, pochi secondi a dividere paradiso e inferno, l’odio dal podio. Perché questa cosa che vincono tutti, che vince lo sport, non è vera nemmeno un po’. Sul traguardo di Milano ad aspettare l’ultima rosa c’era Paolo Bettini, gli ho detto grazie di tutto, non l’avevo mai incontrato ma quando c’è stata emozione, quel giorno che la incontri in carne e ossa, non puoi fare a meno di dirle questo grazie retroattivo, che non basta, ma esiste e tu insieme; c’era Maurizio Fondriest che avevi pochi anni ma è stato il tuo primo, o quasi, che hai visto trionfare (Mondiale di Renaix 1988) e te lo ricordi solo tu, forse, lì attorno nel campo gara; c’era Alessandro Petacchi che di braccia ne ha alzate tante al Giro; c’era Francesco Moser cui non puoi sottrarre la definizione recordellora”. C’era insomma tutta gente che quel giorno, quel giorno esatto, è arrivata “uno”, per dirla con il grande Vito Taccone. E non te lo ricordi, anche se ti sforzi, chi è arrivato due.

Tom Dumoulin è partito senza guardarsi intorno. Ha macinato i 29,3km dal primo metro e risucchiato Nibali, Quintana, Pinot, Zakarin, ognuno a cercare di restare in piedi sulla cresta dell’onda di vento che aveva alzato alle spalle. Non c’è mai stato dubbio, la progressione non ha avuto cedimenti, una ragazza del nostro box che non aveva mai parlato ha pian piano iniziato ad alzarsi in piedi, cedere all’emozione, anche lei, dichiarava la trepidazione di essere, fieramente, olandese.

E allora batti le mani Milano, batti le mani ché un olandese l’ha tenuta con i denti più stretti degli altri, sembrava di ghiaccio ma quando vedeva i secondi succedersi l’uno sull’altro e Quintana lasciarli sulla ruota lenticolare, è esploso in un sorriso inarrestabile, ha alzato le braccia e si è messo a saltare come un bambino alto due metri; questo perché l’aveva capito, di non essere arrivato né due né tre, ma che sul podio ci sarebbe stato posto solo per chi arrivava davanti a tutti.

Perché all’infinito tutti i numeri si dicono indistintamente al plurale.

Solo uno, il primo, è singolare.

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