Os Mutantes

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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59 min readOct 8, 2016

Copertina di Fabio Imperiale

Diario della resistenza, giorno XI: l’altro giorno sono arrivati gli alieni sulla Terra e ci hanno informato di volerla distruggere. Non sappiamo da che pianeta vengano perché non ce lo dicono, non sappiamo da che dimensione vengano perché quando glielo chiediamo ci rispondono con volgari improperi. Non sono brutti tout court, ma somigliano tanto ai nostri sensi di colpa e, di conseguenza, non riusciamo a sostenerne lo sguardo. Non sono neanche armati, ma continuano ad alludere a questo Nullificatore in loro possesso che magari non sarà nulla, ma un po’ d’ansia la mette lo stesso. Niente di personale, dicono, ma proprio non si può andare avanti così. Abbiamo chiesto ulteriori spiegazioni e hanno ribadito che non ci sono più motivi per non farlo.

Allora, per fargli cambiare idea, gli abbiamo portato il porno in streaming, ma a loro non interessa perché — dicono — non si riproducono in questo modo e onestamente gli fa pure un po’ schifo. In seconda battuta abbiamo provato a cucinargli qualcosa di tipico, ma alla fin fine loro se vogliono proteine si prendono le proteine, e hanno schifato anche solo l’idea di una bistecca. Buco nell’acqua anche il tentativo dei videogiochi: ci hanno fatto presente che sono troppo impegnati a rendere l’universo un posto migliore per trovare il tempo di crearsi un profilo, e giocare online. Allora, un po’ arresi, gli abbiamo chiesto di farci giocare un’ultima partita di pallone.
È andata: hanno visto il pallone, fissa totale. “Vi prego, questo ce lo dobbiamo per forza portare su Proxima Centauri”. Allora siamo salvi, abbiamo pensato, sospiro di sollievo.

No, hanno ribadito, distruggeremo lo stesso il vostro pianeta però lasciamo in piedi solo i posti in cui si gioca dell’ottimo pallone. Anzi, diteci i nomi dei migliori giocatori, Paese per Paese, convinceteci a sottrarli all’oblio, noi ce li portiamo appresso su Proxima. Volentieri, gli abbiamo risposto, ma molti di quelli forti forti sono vecchi o sono morti. E che problema c’è, siamo esseri atemporali, li preleviamo dalla linea temporale del loro massimo splendore e tac. Partite dal Paese che ha giocato meglio a pallone, hanno detto, prima che cambiamo idea.

A quel punto noi, la Linea Difensiva, abbiamo fatto i nomi.

***

Episodio I — I brasiliani

Il Brasile è la somma meravigliosa di ogni possibile contraddizione.

(Jorge Amado)

ADEMIR da Guia

Trequartista

A giocare da trequartisti col 10 sulle spalle negli anni ’70, esibendo tempi compassati, tecnica sopraffina e tendendo a giocare da fermi, non si trovava posto a sedere sul tram. Tanto che Ademir la Seleçao la bazzicò assai poco, anche per la sua tendenza a mandare molto in porta gli altri e a bucarla molto poco lui. Ma essere il primo dei non eletti, nel pallone, non basta a chiuderti l’accesso a un campo da calcio. Ditelo a lui che a fine carriera ha fatto il consigliere municipale con il Partito Comunista a San Paolo. Tanto più che, con meno pressione sulle spalle, trovi tutto il tempo di dedicare a una maglia sola. Qualla del Palmeiras Ademir l’ha benedetta più di 900 volte, con i suoi prodigi. Figlio d’arte del leggendario difensore carioca Domingos, Ademir ha trovato in un’esistenza defilata e consapevole, ma non per questo meno gloriosa, la sua immortalità.

ADRIANO

Centravanti

Nel sinistro di Adriano c’è tutta la potenza primitiva della natura. Nel suo destino, invece, il fallimento. Adriano si è smarrito nel corso delle stagioni, ha danzato con i suoi demoni e non è riuscito più a liberarsene. Ma, prima di perdere la corona, l’Imperatore ha saputo soggiogare le difese con il suo mix di forza bruta e talento selvatico.

ALDAIR

Difensore centrale

Aldair, Nascimiento dos Santos detto Pluto, per quell’andatura dinoccolata come quella del cane color arancioinacidito di Topolino, ma anche perché era l’unico a dare un’idea di fedeltà. Ti amo perché sei un uomo buono: tu non mi feriresti mai, gli dicevamo. Al centro della difesa dicono fosse lento, non a caso amavo poco le difese in linea, ma l’eleganza del movimento e l’efficacia dell’intervento ne facevano e ne fanno uno dei difensori più forti della storia sudamericana. Una volta raccolto il pallone che gli avevano lanciato non lo ridava indietro, lo teneva per chi glielo sapeva chiedere, Pluto era il migliore amico del portiere.

ALEMÃO

Centrocampista centrale

Ricardo Rogério de Brito, per tutti quelli vissuti su questo pianeta era più semplicemente Alemão. Intercettava palloni che sembravano aver preso vita, tra cielo e terra. Si sollevava altissimo, sembrava prendere il volo, lo slancio delle sue gambe le facevano apparire simili a un elastico. Stoppava il pallone di petto, assorbendo tutta la sua energia, rendendolo fermo, docile, mansueto. Poi atterrava sul posto, elegante come una ballerina di danza classica dopo un assemblé volante. Alemão aveva lo sguardo di chi calcolava le esatte distanze tra gli uomini, tra il pallone e le sue traiettorie, quelle che aveva in mente di disegnare sul campo correndo. Sapeva sempre dove sarebbe finito quel pallone, non l’ho mai visto sbagliare un lancio.

José ALTAFINI

Attaccante

A fronte dell’inflazione videogiochistica del motto “Incredibile, amici!” — che fa dei terrestri un popolo irriconoscente –, Mazzola è stato, a sua volta, un alieno. Prodigioso al Palmeiras, diventa campione del mondo a vent’anni, in Svezia. Succhiaporte ed eroe di Coppa con il Milan, si trasforma in un rampante trentenne nel Napoli dei secondi posti (e degli ultimi botti di Sivori). Contribuisce, ormai maturo, ad accrescere la fama della Juventus come riabilitatrice di anziani dal passato glorioso. 220 in A e il diritto di sorvolare serenamente sulle voci “Chiasso” e “Mendrisiostar”, meramente enciclopediche.

Detrattori (terrestri) alla sua inclusione nella rappresentativa del pianeta: 1) l’interista Sandro M., mai favorevole a certi eccessi di milanismo e al troppo indulgere in somiglianze evocative; 2) una fetta “istituzionale” di Brasile (a capo, nel dubbio, il lievemente attaccabrighe Pelè), che non può non notare la partecipazione di Altafini a Chile ’62 con la selezione italiana (6 presenze e 5 reti, per una carriera con le nazionali conclusasi a 24 anni).

AMARILDO

Attaccante

Nella Seleçao era l’unico possibile vice di Pelè, per caratteristiche tecniche e soprattutto atletiche, ma Amarildo Tavares da Silveira è stato soprattutto la quintessenza dell’attaccante brasiliano con l’Italia nel destino. 202 presenze in nove anni di Serie A, di cui quattro al Milan, tre alla Fiorentina (dove vinse lo scudetto) e due alla Roma. Tanti gol, ma anche tanti cartellini, per un totale di dieci espulsioni collezionate, record che lo rende uno degli attaccanti più prolifici, in tema di sanzioni, nella storia del nostro campionato. Questo perché Amarildo era una dinamo esplosiva di 1 metro e 67 centimetri, tanto proiettata verso la porta da essere disposto ad andarsi a prendere il pallone direttamente dai piedi dell’avversario.

Marcio AMOROSO

Attaccante

Marcio Amoroso dos Santos, sarà stato il nome, ma era facile volergli bene. Sorrideva quanto Cafù, ma segnava decisamente di più. Veloce e plateale come una gazzella in trasferta alla notte della taranta, era un buon rigorista e faceva parecchie giravolte. Era così rimbalzino nei movimenti che talvolta i difensori li pigliava per stanchezza. Nonostante io me lo ricordi perennemente all’Udinese e magari per 10 minuti al Parma, ha invece giocato con altre 10 maglie in giro per il mondo tra Brasile, Germania, Spagna, Grecia e credo anche al Milan, ma all’epoca aveva smesso di fare giravolte (e comunque sono pronto a giurare che anche il Milan se lo figurava all’Udinese in quel periodo).

BEBETO

Attaccante

La potenza, senza il controllo, è niente. Romario, senza Bebeto, pure. Bebeto, José Roberto Gama de Oliveira, se non avesse mai avuto figli, avrebbe lasciato orfano pure Romario, perché nella cultura di massa non esiste Bebeto senza l’esultanza in cui mima il gesto della culla. Esultanza che ovviamente all’epoca tutti pensavamo fosse dedicata a Romario, perché era impossibile scinderli quando vestivano il verde e oro insieme. Sembrava quasi un nome proprio di persona: Romario E. Bebeto. E chissà per cosa stava la E. Emanuele? Enzo? Edson Arantes do Nascimiento? E chi lo sa. Brevilineo, poco potente, viveva al limite del trequartismo per il quale però era troppo rapido, e allora lo spostarono in avanti. Dove trovò Romario, e da lì probabilmente la storia dei figli.

Hilderaldo BELLINI

Difensore centrale

Hiderlado Luiz Bellini fu il primo brasiliano ad alzare la prima Coppa del Mondo, nel senso che lui era il Capitano della squadra che si tolse il dente di fronte a tutto il pianeta riunito. Con un nome del genere ti aspetteresti un compositore di gioco, invece era un difensore centrale di 1 metro e 82 quando tutti gli attaccanti avversari erano alti quasi venti centimetri in meno. Pensa che strazio doveva essere ricevere un cross quando ce l’avevi attaccato alla schiena. E in più era bello come un attore di Hollywood. Roba da prendere il pallone e andarsene a casa in segno di protesta.

BRANCO

Terzino sinistro

Se dici verde e oro, e se dici corsia laterale sinistra, dici Roberto Carlos. Se dici missile tutto effetto, da calcio piazzato e tirato col sinistro, dici Roberto Carlos. Se dici terzino sinistro carioca e campione del mondo, dici ancora Roberto Carlos. Eppure prima di lui, al posto di lui, in tutte le categorie citate, c’era Claudio Ibrahim Vàz Leal. E lì dici Branco. Come terzino era abbastanza regolare, modesto, però aveva un micidiale tiro a effetto e un soprannome che metteva un po’ inquietudine. Branco rispetto a Roberto Carlos correva assai meno veloce, e non giocava nel Real Madrid ma nel Brescia e poi nel Genoa. Però aveva molti capelli in più.

Marcos CAFU

Terzino destro

Marcos Evangelista de Moraes detto Cafu è sempre felice, forse ha una paresi o forse è solamente sempre felice. Corre sicuramente più veloce di te, e già questo dà ai nervi. Non bastasse ciò, lui comunque dopo lo scatto si ferma e ti aspetta. Anche un minuto, due minuti, dieci minuti, sta lì che ti guarda sorridendo e ciancicando la gomma, come a chiederti “dai scusa amigo, dai facciamo pace, qua la mano”. Fai per stringerla e ti dribbla ridendo e ciancicando la gomma, cerchi di dargli un calcio e ti dribbla, lo falci e ti dribbla, piede a martello e ti dribbla, ti getti a corpo morto su di lui e ti dribbla, gli tiri un sasso e ti dribbla, e ogni volta che ti rialzi è sempre lì col piede sulla palla che sorride ciancicando, mani sui fianchi, e ti aspetta, e ti dice “dai scusa amigo, qua la mano”.

CANHOTEIRO

Ala sinistra

Non di soli Mondiali vive il talento grande talento brasiliano. Infatti José Ribamar de Oliveira, detto Canhoteiro (letteralmente “mancino”), non partecipò a nessuna spedizione gloriosa verdeoro fuori dai confini continentali. Nonostante fosse considerato il Garrincha sinistro per la sua tecnica e i suoi dribbling sovrannaturali, non fu mai scelto, mai selezionato per un Mondiale, un po’ perché era un funambolo che segnava poco, un po’ perché era un anarchico puro, riluttante a presentarsi agli allenamenti e dedito anche a regolari bicchierini furtivi. Canhoteiro morì relativamente giovane, senza un soldo e senza un titolo, ma alla storia del calcio, nel 1958, regalò un duello epico sotto la pioggia battente, tra il suo Sao Paulo e il Santos di Pelé, che termino 2 a 2 con doppietta di entrambi.

CARECA

Attaccante

Antonio De Oliveira Filho, per tutti quelli che lo hanno amato era Samba e Goal, per il mondo intero era Careca. Fu colui che unì due mondi ostili ma confinanti, con il calcio. Lo amò il più forte di tutti che era argentino, lo amarono gli europei, lo amarono i nord americani, lo amarono i messicani. Era esattamente sempre dove ci aspettavamo che fosse, al limite alto dell’area grande, dove le linee si vedevano solo sforzando lo sguardo. Una vita intera ad attaccare gli spazi, passata sminuire la percezione delle distanze e degli sforzi, solo per arrivare prima, per arrivarci meglio. Una vita intera passata a vedere opportunità laddove molti vedevano tempo perso.

CARLOS ALBERTO

Terzino destro/Difensore centrale

In base a quali elementi si sceglie un Capitano? In base al suo carisma e ai suoi silenzi, quando questi vibrano piùi delle sue parole. Si sceglie in base alla sua intelligenza tattica, alla naturale lettura del gioco e del campo.

Si sceglie anche in base a quante posizioni può ricoprire nel suo reparto di riferimento, alle qualità che esibisce e che vanno oltre i compiti che al suo ruolo vengono normalmente richiesti. Capacità con le quali al ruolo apporta innovazione, alzando le pretese a scapito delle generazioni successive.

Carlos Alberto Torres, o Capitano do Tri, era tutte queste cose. Quella che fu definita la partita del secolo, tra Italia e Germania, finì 4 a 3. Il quarto gol, alla vincitrice di quella partita, lo segnò Carlos Alberto in una finale del Mondiale, con un potente tiro al volo, come a voler mettere in riga anche la storia.

Toninho CEREZO

Centrocampista centrale

Antonio Carlos “Toninho” Cerezo per prima cosa è il centrocampista più buffo del pianeta, e per seconda è quello con più baffo sul pianeta: quando fanno le squadre temi sempre di finire nella squadra avversaria, perché vorresti giocare solo con lui; vorresti poterlo lanciare al quarantunesimo del secondo tempo nel corridoio là in mezzo, speri di guardarlo correre strascinando i piedi, e barcollando seminare difensori; lo vedresti entrare in area a balzi da tremilasiepista e tirare in porta saltando l’ostacolo e mandando schizzi d’acqua tutto intorno, e poi vorresti solo inseguirlo felice con le braccia rotanti scavalcando i tabelloni, il fossato, le barriere, lo stadio tutto, prendere la bici e guidare senza mani fino alla spiaggia e levarsi le ciabatte della Fila, e correndo tuffarsi con una capriola sbattendo la schiena fortissimo nel mare.

CESAR SAMPAIO

Mediano

Disambigua. Già perché a cercare Cesar Sampaio ce ne sono due. Ma solo uno è Carlos César Sampaio Campos, nome completo di uno dei più duttili centrocampisti che la nazionale brasiliana abbia avuto nell’epoca recente e pioniere del calcio in Giappone, fin dalle epoche più remote. Per intenderci, quelli come lui sono i calciatori necessari perché Ronaldo faccia Ronaldo, Rivaldo faccia Rivaldo, Cesar Sampaio non fa solo Cesar Sampaio. Fa tutti gli altri. Corre, fatica, recupera, imposta, si inserisce. Mai tra gli interpreti principali, ha recitato in ognuno dei più grandi film in maglia verdeoro. Candidato eterno come miglior attore non protagonista.

CLODOALDO

Mediano

La vulgata vuole che, un po’ per compensazione nei confronti dell’abbondanza di funamboli, ambidestri e fenomeni nei reparti avanzati, i mediani della scuola brasiliana siano invece tecnicamente modesti, efficaci ma legnosi, ordinati ma dotati di piedi diseducati. Clodoaldo Tavares de Santana era l’eccezione che confermava la realpolitik del ruolo. Un mediano difensivo con i piedi da 10, oltre a impostare sontuosamente rischiava anche tacchi e dribbling sulla propria trequarti in fase di pressing avversario. In particolare un suo gesto lezioso, in finale contro l’Italia nel ’70, fece intercettare il pallone che si trasformò nell’1 a 1 di Boninsegna. Per ristabilire la positività del suo karma, sul 3 a 1 per il Brasile dribblò ben quattro azzurri a centrocampo, innescando la serie di passaggi che portò al gol finale di Carlos Alberto.

Philippe COUTINHO

Trequartista/Ala destra

Philippe Coutinho, guarda, se c’è chi non ne parla è perché non vuole ammettere di non averlo capito agli inizi. Ognuno merita la chance di una falsa partenza per godersi poi le facce barbose di chi lo aveva sottovalutato. Tanto più che, se c’è un settore dello spaziotempo che può garantirti tanto, questo è l’Inter. E invece Coutinho, incantatore di marcatori disattenti, è tecnico e veloce, e a quelle velocità sa dialogare, anche con una certa sicurezza, sa penetrare le linee difensive o creare spazi se le linee difensive fanno le preziose. Poi, vabbè, tutto è ancora da scrivere; ma se l’arrivo sarà inversamente proporzionale alla partenza, portiamolo subito su Proxima Centauri.

DANI ALVES

Terzino destro

Aveva gli occhi dell’amore, verdi. Come due lacrime d’amore, grandi. Ed era un gran terzino. Unico a modo suo. Più trequartista di Cafù e più difensore di Maicon. Grandi bolidi dalla distanza, cross perfetti, tecnica, polmoni e una teca dei trofei tanto larga da richiedere una succursale a casa di un parente. Ma al di là di questo Dani Alves è stato e continua ad essere uno showman. Uno showman della fascia destra che ti lascia dietro in dribbling e scelta dell’outfit. Ballerino(1), cantante(2), youtuber(3), icona a 360 gradi. Sarebbe potuto arrivare al successo in mille modi diversi e ha scelto il calcio, probabilmente solo perché gli hanno detto che si rimorchiava di più.

DAVID LUIZ

Mediano/Difensore centrale

David Luiz Moreira Marinho non è un calciatore. Non potrebbe essere altrimenti considerando il suo nome, la sua capigliatura o il fatto che possa giocare da difensore centrale o da mediano senza mai eccellere in nessuno dei due ruoli. È probabile sia figlio di un commercialista del Chelsea che aveva bisogno di un escamotage e ha pensato di rimbalzare questo ragazzo tra Parigi e Londra fino alla fine della sua carriera. Però è pop, e quindi si fa amare. Anche io me lo prenderei in squadra se non dovessi farlo giocare. Ogni fan dei Queen vorrebbe mettergli una chitarra in mano e chiedergli un assolo. Smetterà di giocare quasi sicuramente al Parco dei Principi, in preda a una crisi d’identità e con in mano uno striscione che recita “Veramente tifavo Valencia”.

DENILSON

Ala sinistra/Trequartista

Dicono che, quando giocava nel Betis, la gente andasse al Benito Villamarín solo per vederlo palleggiare prima del calcio di inizio. Perché poi, di spettacolo, ce ne sarebbe stato poco, e in ogni caso non all’altezza di quella ventina di minuti di riscaldamento. Se il calcio non avesse come ultimo scopo quello di infilare un pallone in una rete, Denílson de Oliveira Araújo sarebbe stato uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi. Anarchico per vocazione, ala sinistra per esigenze di copione, riscrisse il doppio passo come genere letterario. Denílson era il ribaltamento del gioco del calcio, la trasformazione dello strumento in fine ultimo, e del fine ultimo in conseguenza accidentale — ma mai necessaria — di una giocata. Al novantesimo minuto della semifinale del Mondiale del 2002, il Brasile è avanti 1–0 sulla Turchia. Lui è in campo da un quarto d’ora, entrato per sfruttare gli spazi che si aprono in contropiede e tenere palla. Così, quando la riceve sulla trequarti, leggermente spostato sulla destra, fa quello che gli riesce meglio, dribblando un avversario. Il suo ingresso in area è come la violazione dello spazio aereo turco da parte di un jet russo. Così mezza squadra avversaria gli si lancia addosso, lo inseguono in quattro, e a guardarli sembrano proprio uno stormo di caccia in formazione. Lo rincorrono fino alla bandierina, per prendergli il pallone, la maglia, la gamba, il numero di targa. O forse, alla fine, solo per chiedergli un autografo.

DIDA

Portiere

La Pantera Nera con il petto grande come le navi dell’Eubea. Una volta, durante una telecronaca del Milan, ho sentito chiamare Nélson de Jesus Silva, detto Dida, proprio con questo sintetico appellativo. Che, devo dire, restituiva l’inesorabilità della sua reattività e della sua stazza. La verità però è che Dida quel petto se l’è fatto grosso con la gavetta. Anni di prestito e da terza scelta in casa fino a imporsi nel suo massimo periodo di splendore e potenza. Che durò poco, e poi il crollo verticale del suo stato di forma fu altrettanto inesorabile, ma anche recepito in maniera un po’ infame da chi aveva dimenticato in fretta tutti i trofei vinti con lui tra i pali. Poi sarà stato grosso e con lo sguardo allampanato, ma probabilmente era un simpaticone.

DIDÌ

Centrocampista centrale

L’effetto nel pallone e il tiro a foglia morta, se non sono nati con Didì., quantomeno con lui si sono perfezionati. Immagina un essere umano secco secco e di altezza media, quasi modesta, che non sa correre e anche se sapesse farlo sarebbe troppo lento. E però qualsiasi pallone arrivasse tra i suoi piedi andava esattamente dove voleva lui. Didì fermava il tempo, lo resettava, posizionava il collo come a dire al marcatore “aspetta, per piacere”, e si metteva a ragionare su dove fosse meglio posizionare la palla. Spesso ti dava l’impressione di averne perso il controllo perché col corpo dinoccolava, eppure non lo perdeva mai. A un certo punto andò anche al Real Madrid, ma l’ombra delle statue di Di Stefano lo fecero sentire un Calimero.

DIEGO

Trequartista

Estate di fine anni zero, un lido assolato. Non vedi l’ora che scenda in spiaggia la ragazza nuova, quella biondina, dall’esotico accento sudamericano; quella con lo sguardo vispo di chi studia in Europa già da un po’ e capisce perfettamente ciò che dici, anche se fa finta che non sia così. “Abituata com’è ai corteggiamenti teutonici mi basterebbe solo un’occasione”, pensi, nella tua testa bacata da provinciale. Per osservare da vicino il modo in cui lei si muove rinnegheresti gli amici, accorceresti la sessione estiva. Poi una sera, finalmente, lei ricambia il tuo sguardo, percorre in discesa la passerella del lido e voltandosi ti sorride, sicura del fatto che tu la stia seguendo. Gli altoparlanti suonano una seducente bossanova. Vorresti ascoltarla tutta la notte, senza nemmeno sfiorarla, le chiedi cosa le piace, vuoi che ti racconti tutto di lei. Sorride, è meravigliosa. Solo che però non ha niente da dirti, non le piace niente. Non le piace la musica, va al cinema solo nel tempo libero, non legge i quotidiani, la sua bellezza le basta. D’altronde chi sei tu per giudicarla? E allora, inopportuno, ti avvicini per baciarla, ma lei si ritrae e il gelo cala sulla spiaggia buia. In una notte lunga, nemmeno una scintilla. Rimanete entrambi lì in silenzio e, sperando che il mattino vi riavvicini, ti addormenti. Al tuo risveglio lei è già andata via. E mentre torni a casa un po’ ti dispiace quando pensi che, tutto sommato, tra una settimana ti sarà già passata.

DIRCEU

Trequartista/Laterale sinistro

«Il Brasile che avevamo in testa noi non esisteva più. Era scomparso nel ’70, per sempre. Ora il calcio era diventato un’altra cosa: tantissimo agonismo, meno tecnica, meno fenomeni; era un calcio nato per distruggere, non per costruire. E per gente come noi, abituata a far correre la palla, non c’era più tanto spazio.»

Lo ebbe a dire Dirceu José Guimarães, che partecipò a tre mondiali (74,78 e 82), giocando sempre ad altissimi livelli ma senza vincerne nessuno. Dirceu lo chiamavano la Formica in patria, perché era instancabile e a centrocampo ricopriva tutte le posizioni che gli consentivano di esibire la sua tecnica sopraffina. Dirceu, bravo ragazzo, bravo a scuola, sostenuto dalla sua famiglia nell’intraprendere la carriera calcistica, si impone nel calcio del suo Paese prima di partire per l’Europa. Dopo tre anni da protagonista all’Atletico Madrid si trasferisce in Italia dove indossa le maglie di Verona, Napoli, Ascoli, Como e Avellino. A quel punto Dirceu viene preso alle spalle dal calcio che cambia, che diventa meno gioioso; dopo una breve pausa all’estero sceglie di continuare a giocare al sud Italia, dove il suo calcio, fantasia e divertimento, poteva ancora essere apprezzato, dove sapeva di poter ritrovare quel calore che aveva conosciuto in patria da ragazzo. Dal 1989 al 1992 gioca tre stagioni all’Ebolitana e una al Benevento, lui che era stato eletto terzo miglior giocatore al mondo nel 1978. Sei anni dopo il tragico incidente d’auto in cui perde la vita a Rio, danno il suo nome allo stadio di Eboli.

DJALMA e NILTON SANTOS

Terzino destro e terzino sinistro

Io non ci ho mai capito niente di motori e dubito che inizierò a interessarmi alla questione con le astronavi, perciò lungi da me chiedervi quanti parsec fanno le vostre navicelle. Tuttavia, se posso darvi un consiglio da umanista sul nome da dare alle due capsule d’assetto laterale con cui siete scesi, suggerirei Nilton Santos e Djalma Santos, perché prima di loro c’erano terzini, c’erano solo difensori laterali. Chiamate Djalma quella più solida e veloce, quella con meno fronzoli, quella che arriva prima delle altre. Chiamate Nilton quella che ci mette un po’ più tempo, ma che in compenso ha il pilota più spaccone, quella che maneggia le correnti atmosferiche come se fosse un pizzaiolo napoletano con la pasta tra le mani. Ve lo spiego dopo cos’è la pizza. E comunque no, non erano fratelli.

DJALMINHA

Trequartista/Seconda punta

Djalma Feitosa Dias detto Djalminha, anima in pena con un piede solo, sinistro irrequieto e attaccabrighe democratico, in quanto sia che fossero avversari sia che fossero compagni tutto ciò che lui gli chiedeva era che non gli stessero addosso. Genio del dribbling, del quale padroneggiava almeno sei delle specialità più note, e danzatore dei calci piazzati. Non partecipò al Mondiale del 2002 perché prese a testate l’allenatore del Deportivo La Coruna poco prima della partenza.

DOMINGOS DA GUIA

Difensore centrale

Prima e primaria caratteristica di Domingos da Guia: l’essere un negro enorme, gigante e gigantesco. In tempi in cui in Brasile, e magari non solo in Brasile, e nel calcio brasiliano, e magari non solo nel calcio brasiliano, essere negri è un problema, Domingos sa probabilmente che a nessuno potrà mai sfuggire quel suo esserlo in maniera tanto immane, evidente e quasi impudente. L’unica cosa da fare, allora, oltre a esordire in una delle prime squadre a non fare troppe questioni a negri o professionisti (ossia a coloro che non erano abbastanza ricchi per giocare per hobby), cioè il Bangu, è diventare il più grande negro di tutti i tempi, un negro che non possa essere assolutamente ignorato da nessuno. Il ruolo, intanto. Il Brasile si picca di aver fatto da culla ai più letali attaccanti della storia e ai fantasisti più imprevedibili; perciò un difensore centrale brasiliano bravo, uno uso a fermare tutta questa gente, è per forza di cose bravissimo. E Domingos da Guia era il più bravo di tutti, in Brasile. Ma non solo in Brasile, non bastava per essere il più grande. A un certo punto prende il piroscafo — all’epoca si viaggiava così, erano tempi enormi, seppur non sempre comodi — e sbarca a Montevideo. Qui trova un altro gigante, Nasazzi, con il quale forma per un solo incredibile anno la coppia difensiva del Nacional. E anche questa, per Domingos, è fatta: essere parte della migliore coppia dell’epoca, ed essere talmente grande da far inchinare anche gli orgogliosi e durissimi uruguaiani. Poco dopo, il grandissimo negro affronta di nuovo quegli altri giganti scuri e possenti, l’oceano e il Rio della Plata, e arriva stavolta a Buenos Aires: qui prende possesso della difesa del Boca, l’anima di Baires e degli argentini, ancora per un solo interminabile momento. Poi riparte per il Brasile, ma è come se fosse rimasto: come se avesse mantenuto il suo posto da zagueiro al Parque Central, alla Bombonera (benché, a dire il vero, non abbia fatto in tempo a giocarci; ma non poteva abbandonare il Boca), ovunque la sua figura avesse fermato e intimidito un attaccante avversario. Sono passati ottant’anni ed è come se fosse ancora lì. Obdulio Varela dirà che Domingos da Guia è stato il più grande di tutti i brasiliani: campione in Brasile, campione in Uruguay, campione in Argentina, campione ineguagliato. E se lo dice l’uomo che ha ucciso il Maracanà e ne ha creato il mito, vuol dire che è vero: Domingos da Guia, leggenda in tre nazioni, presenza immane in tutte le sue difese, è stato il negro più grande di tutti. Nessuno ha potuto o può più ignorarlo.

DOUGLAS COSTA

Esterno sinistro

Douglas Costa de Souza era lì in Ucraina mentre qualcuno cercava di raderla al suolo, lui scendeva in campo e correva, saltava uno a uno tutti gli avversari perché gli avevano insegnato che la sopravvivenza è fatta di corsa e fiato. Al Bayern lo hanno amato fin dal primo momento solo per questo, l’hanno messo sulla fascia dicendo “Qualunque cosa accada tu corri, corri fino a bruciarti i polpacci, corri per sempre” e adesso questo fa, oltre a piazzare la palla dove vuole quando entra in area. Sarà bello a fine carriera scoprire che alle Olimpiadi, correndo più veloce degli altri, ti premiano anche con una medaglia. Pensa che strana la vita.

Carlos DUNGA

Mediano

Uno di quelli che già quando giocava avevi capito che avrebbe fatto l’allenatore. Questo pensavano tutti, a vederlo dettare i tempi, impostare, lanciare. Carlos Caetano Bledorn Verri, meglio noto come Dunga. Di origini piemontesi, ancora “Cucciolo” (appunto, Dunga) si impose proprio in Italia come un regista puro, trovando in Europa (alla Fiorentina su tutte) una seconda patria. La prima, il Brasile, l’ha ritrovata con alterne fortune allenando negli anni recenti la sua nazionale, di cui è stato molte volte capitano. Ma il suo ruolo di ragionatore di centrocampo, dotato di un gran tiro e di una visione di gioco “europea”, metodica e razionale, lo consacra naturalmente come un calciatore di valore assoluto, capace di avere sempre il pallone tra i piedi, di accorciare i reparti, di dare idee. Insomma, un leader. E non te lo aspetti un leader, se pensi a un Cucciolo.

ÉDER

Ala sinistra

A 174,5 km/h non ci era mai arrivato nessuno, nemmeno Roberto Carlos. Però ci è arrivato, col suo sinistro, O Canhão (il cannone), Éder Aleixo de Assis, o semplicemente Éder. Diffidare dalle imitazioni, sia in fatto di Éder sia in fatto di punizioni: in tanti tirano il pallone forte fino a impressionare gli astanti e far tremare le porte, ma solo Éder è stato vicino a disintegrare davvero tutto. Avendo un destro che non era un granché, d’altronde, in qualche modo bisognava compensare. Tutto il resto è ordinaria letteratura dell’ala mancina brasiliana, neanche troppo veloce, che ha avuto la fortuna di non arrivare mai in Europa a farsi dare del bidone. A certi livelli del gioco chi ha un mancino del genere non se lo merita mai.

EDINHO

Difensore centrale

Forza, trovami un difensore centrale brasiliano che abbia fatto più di 20 gol in Serie A. Centrale, non uno dei soliti terzini con licenza di uccidere. Te lo trovo io, Edinho Nazareth Filho, perché le associazioni ‘figlio’ e ‘Nazareth’ non ci mettono affatto pressione da queste parti. Ha segnato 22 gol in 5 anni in Italia, con la maglia dell’Udinese, a testimoniare che non di solo Zico vivono gli anni ’80 friulani. Rigorista con la dinamite nel destro, non era solo un discreto difensore, solido e reattivo, ma una fucina di bombardoni, anche sui calci piazzati. Se avesse giocato negli anni ’10 avrebbe ogni estate le ansiogene attenzioni del Chelsea addosso. Supplizio di Tantalo di tutti gli appassionati di Fantacalcio.

EDMUNDO

Attaccante

Che bello che era Edmundo. Se qualcuno di voi — io credo nemmeno i fiorentini, che pure magari, razionalmente, qualcosa potrebbero rinfacciargli -, se qualcuno ha un solo ricordo negativo legato ad Edmundo, una volta in cui abbia visto giocare quella meravigliosa faccia (da schiaffi, avrebbero detto nei film anni Settanta) senza provare gioia, senza ridere scioccamente… Non finisco neanche il periodo perché non lo credo possibile. Tutti abbiamo avuto un amico che era, in sostanza, Edmundo: quello dei fagioli, delle vecchiette, dei sotomayor, degli scherzi del cazzo, quello con cui comunque non riuscivi ad incazzarti, perché esistono persone che sono simpatiche senza far nulla per meritarselo. Ognuno di costoro ha, più o meno metaforicamente, una foto che lo ritrae nel momento di offrire birra a una scimmia. Non una scimmia qualsiasi: un simpatico scimpanzé con una tuta dell’Adidas, insomma una piacevole compagnia per la serata (un perfetto parceiro, direbbero Toquinho e Vinicius). Quella bestia (o “animale”) di Edmundo era fatto così: gli piaceva far sorridere le scimmie con cui si trovava a passare la serata. Io non penso che nessuno possa essere seriamente irritato con una persona del genere, nonostante le sue indubbie mancanze, i suoi carnevali, i suoi scherzi del cazzo. Sciascia ha scritto, parlando segretamente di Edmundo: “Ma la Sicilia, forse l’Italia intera (…) è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa”. E tuttavia a me parrebbe che una tale pena, per un fagiolo, per una vecchietta, per uno scudetto buttato via andando a ballare al sambodromo…, sarebbe eccessiva; e non terrebbe conto delle attenuanti, prima fra tutte la grande, spontanea simpatia di quella orribile persona che è stato e forse è tuttora Edmundo Alves de Souza Neto.

Giovane ELBER

Centravanti

Giovane Elber, ovvero Élber de Souza, è nato in Brasile. Il soprannome Giovane gliel’hanno affibbiato a Milano, durante un fugace campo scuola rossonero, il nome intero invece se l’è fatto in Germania, dove tra Helmer, Basler e Hassler e Reuter e Moeller e Voeller, e in netto anticipo su Schweinsteiger, se pensi che prima di internet non tutti potevano vederlo brasilianare in campo, sulla carta Helber lo avresti fatto passare per germanico. E invece no. Capoccione tondo, piede fino, movenze subtropicali, guanti di lana anche a settembre, antidoto vivente alla saudade.

EMERSON

Mediano

Puma! Puma! Spingila dentro. Incredibile come una palla così ti passi a un metro e tu non te ne accorga. Te la devo chiamare io. Lo so che tu non sei un animale d’area, tu la porta la vedi lontano, la immagini laggiù, mentre a passo di rumba cuci attacco e difesa. Il tuo positivismo calcistico mal si adatta alla situazione in cui il caso decide che la palla in rete debba calciarla tu. Il tuo istinto per il calcio è particolare, quasi primitivo: la tua corsa è cadenzata e goffa, le braccia sono tanto lunghe che quasi toccano i piedi; è misterioso il tuo modo di colpire il pallone che impegna ogni volta tutto il corpo in un inarcamento innaturale. Eppure rubi palla, sventagli da destra a sinistra, ingombri gli spazi, quadrato come sei, e poi metti ordine e scegli sempre bene. Dai equilibrio e tempi, fosforo e legna. Parliamo di come tu sia uno degli ultimi giocatori di altissimo livello senza un fisico e una tecnica e che ti permettano di esserlo, con tutto il fascino che ne deriva.

Paulo Roberto FALCAO

Centrocampista

Quando staccava i piedi da terra, sessantamila cuori si fermavano all’unisono. Temevano che un giorno o l’altro, in uno di quei suoi voli felici con cui sempre celebrava le sue imprese, decidesse di continuare la parabola verso l’alto per tornare fra i suoi simili, senza riscendere giù. Il frastuono gioioso del gol si interrompeva e il silenzio diveniva fragoroso, l’attesa palpabile. Solo quando i suoi piedi tornavano a toccare il prato verde, solo allora la festa poteva continuare. Paulo Roberto Falcao fu una continua contraddizione di se stesso e di tutto ciò che rappresentava. Riservato e realista, fu il meno brasiliano dei brasiliani. Sfrontato e vincente, fu il meno romanista dei romanisti. Un centrocampista totale, il Divino. Giocava sempre a testa alta, perché a che serve guardare il pallone, diceva, che non lo sai che ce l’hai fra i piedi? Ma ci fu una sera che fu storia, una storia chiamata Liverpool, in cui un popolo intero cercò conforto un metro e mezzo sotto il suo sguardo, ma fra i suoi piedi non ci trovò il pallone. Né una coppa fra le mani. Stanchezza. Egoismo. Dolore. Paura. Tradimento. Quante parole sprecate. Quanta bellezza incompresa. Quanta ingratitudine, per chi ti ha raccolto in purgatorio e ti ha portato per mano al cospetto di Dio, solo per dirti ecco, ora vai da solo, ora tocca a te. È più difficile comprendere o perdonare, l’amore?

FERNANDINHO

Cantrocampista

Fernandinho è la seconda evoluzione di Fernando, quella che anticipa Fernandao. Deve tutto al suo nome e ai maxi progetti folli pensati dal board del Manchester City e all’avvento di Pokemon Go. È divenuto per essere il primo giocatore brasiliano della storia a cui nessuno ha trovato un soprannome scrivendo la parola fine a una tradizione centenaria. Lui ha incassato il colpo e non parla mai con nessuno dei connazionali, forse per invidia o forse nell’attesa di accumulare punti esperienza, evolversi e acquistare finalmente la giusta credibilità.

GANSO

Trequartista/Centrocampista

Paulo Henrique Chagas de Lima, per tutti però Ganso, spero che torni indietro. Aveva scelto di vivere sugli alberi, il Cosimo del Parà, come se fosse uscito dalla penna di Calvino. Ganso si era sempre rifiutato di giocare in Europa, con le grandi squadre e i grandi giocatori che giocano le grandi partite della grandi competizioni. Le aveva le caratteristiche, per l’amor di Dio, ma non aveva mai voluto fare il passo decisivo, quello della consacrazione. E il mondo aveva bisogno di Ganso, anche se nessuno lo sapeva. Di chi si tira indietro, di chi non ce la fa. Di chi non scende mai dalla nave, come un Danny Boodman T.D. Lemon Novecento qualsiasi. A un certo punto però ci sono rimasto male. Perché Ganso l’ha trovato il coraggio, è andato a Siviglia. Ma ti sei seduto sul seggiolino sbagliato, Ganso: quello è il pianoforte su cui suona Dio.

GARRINCHA

Ala destra

Su Manuel Francisco dos Santos si è scritto e detto tanto, quasi tutto, anche su Proxima Centauri. Ma del suo modo di giocare disse tutto lui, un giorno in cui si trovava fuori dal campo. Dopo la vittoria della Coppa del Mondo il governatore di Rio chiamò a raccolta la squadra brasiliana nel suo ufficio. “Qualunque cosa, qualunque”. Bastava chiedere, disse il governatore, e a ciascun giocatore avrebbe avuto per se qualunque regalo desiderasse. Macchine, soldi, case. Quando toccò a Garrincha indicò l’uccellino rinchiuso in una gabbietta nell’ufficio del governatore. “Lo liberi, per favore. Sarà questo il mio regalo”.

GERSON

Trequartista

Gérson de Oliveira Nunes, per gli amici Gérson senza Oliveira Nunes, viene considerato il cervello del Brasile che vinse i Mondiali del ’70. E consideriamo che lì c’era Pelè, e il capitano era Carlos Alberto, ma vuoi mettere uno che aveva per soprannome Canhotinha de Ouro (piede sinistro dorato) e poteva metterti un pallone sui piedi a 40 metri di distanza? Ecco, il rischio con uno così era che ci pigliasse gusto e, prima di servirti al limite dell’area, tornasse indietro per essere sicuro che fossero davvero 40 metri. Dato che non era un velocista, speriamo che la tentazione non l’abbia mai punto sul serio.

GILBERTO SILVA

Mediano

Se vuoi capire perché salvare Gilberto Silva dall’oblio, vedi in basso alla voce Zito, togligli un mondiale e aggiungigli due Confederations Cup, nutrilo con qualche omogeneizzato in più, fagli le spalle più grosse, e mettigli la maglia dell’Arsenal.

GILMAR

Portiere

È il 2016, esiste un video su youtube più o meno per tutti, e su di lui video ce ne sono pochi, quasi nessuno. Ma di foto tante, e solo un’immagine ritratta. Un gatto, con la maglia più scura degli altri che a mani nude afferra saldamente un pallone. Non ci sono altre illustrazioni di Gilmar dos Santos Neves, non in verticale. Sono solo orizzontali. E lui vola da una parte all’altra della cornice. Non a caso è stato l’unico portiere a vincere due Mondiali consecutivi e non a caso è ritenuto, anche a 50 anni dal suo ritiro, il portiere più forte della storia brasiliana. Su Gilmar non si scherza. Anzi su Gilmar si piange, come fece Pelè dopo la vittoria del Mondiale ’58.

HULK

Attaccante

Givanildo Vieira da Souza o semplicemente Hulk, per la somiglianza con Lou Ferrigno e della sua armadiesca mole fisica. Qualcuno dice di averlo avvistato per le vie di Shangai intento a chiedere ai passanti “Ma come mi vedi in una serie TV?”. Un modo come un altro per riciclarsi quando i 74 gol con lo Zenit valgono meno di zero, quando fare il gradasso con le magliettine attillate per poi segnare 9 gol per il Brasile equivalgono a una semplice colata d’oro in Cina, l’unico luogo su questa terra dove riesci a spaventare un difensore avversario. Però lo voglio come istruttore in palestra.

JAIR

Ala destra

Giochi ala destra, sei molto forte, ma c’è un piccolo problema: sei contemporaneo di Garrincha. Ecco, questa è stata la grande colpa di Jair da Costa. Tutto ciò, però, non gli ha impedito di fare capolino nella storia emigrando nella vecchia Europa e conquistandola da protagonista, due volte, con la Grande Inter di Helenio Herrera. In Brasile, magari, non se lo ricordano benissimo (con i verdeoro vinse i mondiali del ’62 senza mai scendere in campo), ma in Europa e in Italia se lo ricordano tutti. La formazione della Grande Inter è diventata una specie di poesia da recitare a memoria: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Domenghini, Suárez, Corso. Quindi non è un problema di memoria.

JAIRZINHO

Ala destra

Bello, sfrontato, fortissimo. Nato a Rio il giorno di Natale, il Cristo Afro, l’altro Jair, presenzia a tre Mondiali e si laurea campione nel ’70, da miglior marcatore del Brasile. Ciò che ha vinto nei tanti anni al Botafogo non è moltissimo (due scudetti, di fatto), ma il suo contributo, in termini di dinamismo e basette, non si discute. Ha cercato di rimediare al Cruzeiro, con cui ha conquistato la Libertadores, da gregario; in Europa di passaggio, Jairzinho ci ha concesso giusto un piccolo assaggio di Olympique Marsiglia (18/9 lo score), per poi riciclarsi in girovago di professione. Benché le statistiche siano incomplete e rivelino solo in parte il suo sporadico utilizzo a centrocampo (le reti “attestate”, del resto, sono circa 250), l’adattarsi ha costituito la forza del Furação, a tutti gli effetti il 7 più rappresentativo dopo Garrincha. Con quel guardalinee, alla fine, ha fatto pace.

Mario JARDEL

Centravanti

Mario Jardel, grosso e forte, apriva le noci con la testa. Dal Portogallo alla Turchia, per fargli fare gol incastonavano delle noci nella rete avversaria. Ricordo i magazzinieri del Porto, e poi quelli del Galarasaray, fare avanti e indietro dal mercato coperto. Avanti e indietro senza sosta, poveri magazzinieri. E carica, e scarica, e carica, e scarica. Il trucco era fare scorta in modo da non rimanere senza, quando finiva la stagione. Poi le noci mica le mangiava, eh, era una questione balistica. Se ogni tanto la metteva dentro di piede, cosa di cui era capacissimo, perché tirava piano ma preciso, voleva dire che erano finite le noci. Conoscevo uno che conosceva uno a cui infatti una volta Jardel disse: “nella vita o sei noce, o sei magazziniere. E fidati, meglio magazziniere”.

JUAN

Difensore centrale

Hanno rubato il sorriso a Juan, chi sia stato non si sa. Ma, se mi è concesso avanzare un sospetto, mi è sempre sembrato che Cafu ne avesse troppo. Fatto sta che Juan Silveira dos Santos non rideva mai. Anticipava l’avversario e non rideva, impostava il gioco dalle retrovie, guardando fisso il pallone a terra, e non rideva. Braccia dondolanti, dinoccolava in area fino a segnare e che fosse di testa o che fosse di piede, non rideva. Juan non rideva mai. Perciò non riuscivi mai a credere che fosse tra i più forti nel suo ruolo, perché se lo sai, almeno una volta, sorridi. Lui no. Qualcuno gli aveva rubato il sorriso. Chi sia stato, lo sa solo Gesù. Avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di Cafu.

JULINHO

Ala destra

Alcuni storici del Pallone brasiliano definiscono Julio Botelho, detto Julinho, la migliore ala destra della storia del calcio nazionale insieme a — o comunque dopo — Garrincha. Negli anni ’50 chiunque lo vedesse giocare era sostanzialmente d’accordo. Crossatore finissimo a filo d’erba, brevettatore di una finta di corpo speciale che mandava matematicamente l’avversario col sedere per terra, era buffo perché portava i baffetti alla Clark Gable ma fisicamente ricordava una giraffa nana di un metro e 80, cioè con un collo tutto sommato ragionevole. La Fiorentina, per rimediargli il passaporto, gli trovò un nonno lucchese che poi si scoprì essere in realtà un prete, e tutti passarono i guai per alterazione dello stato civile. Tuttavia ne valse la pena, perché Julinho fece vincere alla Fiorentina il suo primo, storico scudetto. La Federazione italiana provò per anni a renderlo un oriundo ma lui, memore anche della storia di povero nonno prete, rispose sempre picche.

JULIO CESAR

Portiere

Julio Cesar Soares Espindola è IL goleiro. Portiere, goalkeeper, chiamatelo come volete. Il ragazzone di Duque de Caxias per un quinquennio è stato la massima espressione del ruolo. Più di tutti. In qualsiasi discussione ti capitava di tirare in ballo JC, l’eventuale risposta era sempre la stessa: “I supereroi non contano”. Tecnica, esplosività, piedi da regista ma anche mentalità vincente e una simpatia contagiosa. Per anni, ogni domenica, ha offerto gesti tecnici perfetti per lezioni a Coverciano, sigle televisive e immagini da poster in cameretta. Parate facili no, grazie, solo miracoli. Era talmente bravo da essere anche altruista. Sbagliò volutamente il posizionamento in un Inter-Roma di qualche anno fa per stampare nella memoria eterna il gol più bello della carriera di Francesco Totti. A 35 anni continua a volare tra i pali dell’Estádio da Luz. Chiuderà la carriera dopo un retropassaggio di un avversario.

JULIO CESAR

Difensore centrale

Julio Cesar da Silva se lo ricordano in pochi, in fondo è difficile dimenticare quell’altro, quello che parava tutto. Eppure anche da Silva era un difensore. Non sarà stato veloce e reattivo come il suo omonimo, ma aveva un buon tempismo e una discreta elevazione. Soprattutto, giocò 4 anni alla Juventus e 4 al Borussia Dortmund, dove portò a casa anche la Coppa dei Campioni. Se ci aggiungi che era un tipo silenzioso, timido e sorridente e che una volta, per paura che gli volesse far del male, Van Basten gli ha camminato sopra, hai la lista completa dei motivi per scegliere di sottrarlo all’oblio, con merito.

JUNINHO Paulista

Trequartista/Centrocampista

Osvaldo Giroldo Junior è stato campione del mondo nel 2002 ma nel frattempo ha viaggiato con un biglietto A/R dal Brasile all’Europa per tutta la carriera. L’ha fatto con il nome di Juninho Paulista. Fedele al suo ruolo da fantasista, si faceva trovare in posizioni del campo dove nessuno si era accorto fosse capitato, l’uomo in più per eccellenza, che mentre tutti stanno cercando di capire da che parte se lo troveranno lui ha già preso palla e si è infilato in mezzo alla difesa schierata. Abile negli inserimenti, meticoloso nel portare palla e dettare gli scambi rapidi, Juninho ha sfruttato l’agilità funambolica oltre le competenze strettamente calcistiche, tanto che a volte, come molti fantasisti in verdeoro, lasciava la palla in giro, innamorato del piede che la portava. Un’artista, di quelli che si dimenticano di firmare l’opera.

JUNINHO Pernambucano

Centrocampista/Trequartista

Non era bravo a battere le punizioni, era lui la punizione. Ho visto portieri, mastini dell’area da rigore — e randellatori dal limite — andare a dormire con la luce accesa, per la paura che il buio sopraggiungesse e lui piazzasse il pallone sull’uscio delle loro camerette. Il destro di Juninho Pernambucano poteva essere pennello e bulldozer, ma più spesso i due fenomeni si manifestavano contemporaneamente. In Europa ha giocato solo a Lione ma a quel punto ha pensato bene di vincere sette titoli nazionali consecutivi. Sempre meno delle punizioni che era in grado di insaccare di fila.

JUNIOR

Mediano/Laterale destro

Júnior è quella parola che si usa in Brasile per dire che c’è stato un padre celebre, con lo stesso nome. Così la sappiamo noi. Ma chi fosse mai Leovegildo Senior non lo sappiamo, forse neanche ci interessa, noi sappiamo solo chi è Leo(vegildo Lins da Gama) Júnior, detto “Capacete” per via della capigliatura afro, mediano di classe straordinaria che rendeva la difesa uno spazio pulito dove ci puoi mangiare e il centrocampo un giardinetto di passeggiate a testa alta, palla al piede. Inizio e fine, il Flamengo, peraltro da terzino destro. Ma nel mezzo c’è l’Italia, il Torino dove fu accolto come un re, il Pescara neopromosso poi, dove divenne anche conduttore televisivo del programma Brasi…Leo su Telemare. Alla fine tra il calcio e la musica, per un brasiliano, c’è poi tutta questa differenza?

KAKÀ

Trequartista/Seconda punta

Io non lo so cos’è l’eleganza. Mi vesto sciatto, sto sempre a rosicchiarmi le unghie, spesso ho i capelli in disordine e faccio rumore quando mangio la minestra. Però quando sento il sostantivo “eleganza” o l’aggettivo “elegante” o l’avverbio “elegantemente” penso a Ricardo Izecson dos Santos Leite. Kakà, insomma. Riky non corre, va suo pattini. Quando allunga il passo percepisci la velocità solo dai suoi capelli che si scompigliano. Tocca la palla senza alcuna violenza, non la strapazza di finte, non la graffia con la suola. Semplicemente accelera e se la porta dietro. Se la vede cadere dall’alto, dormiente, la accoglie con dolcezza, senza farla svegliare. Controlla il tempo del gioco a qualsiasi frequenza di passo, con la testa sempre alta e il corpo esteso, aperto verso il campo. Riky è Grace Kelly in verde e oro. Riky è Roberto Bolle in progressione sulla fascia. Audrey Hepburn con la 22.

Emerson LEÃO

Portiere

Era talmente piacione che posava sdraiato e in mutande sulle pubblicità dei giornali. Da qui la convinzione che l’immagine di un Cristiano Ronaldo ante litteram basti a far assurgere Emerson Leão allo status miglior portiere della storia brasiliana. Il fatto che poi gli sia stato scippato il posto da titolare nel ’70, dalla dittatura militare fascista che impose le sue convocazioni — e abbia invece giocato quelli infausti del ’74 e del ’78 -, aggiunge alla sua carriera quella dramatic structure che lo rende ancor più fascinoso dei suoi lunghi capelli mossi, da attore di Sentieri.

LEONARDO

Vai a capire

Leonardo era quel tipo di giocatore che entrava in campo e tu dicevi «in che ruolo gioca questo?». Non lo capivi mai veramente bene, passavi la partita a mangiarti le unghie tentando di scoprirlo, ma niente. Le carte lo definiscono trequartista, però ha giocato anche da centrocampista, esterno, terzino sinistro, punta esterna; c’è chi dice fosse un fenomeno, però è dovuto passare per il calcio giapponese prima di consacrarsi. Leonardo Araujo è sempre stato un equivoco, anche — e forse soprattutto — per se stesso. Un equivoco che vagava per il campo come Toulouse-Lautrec per i boulevard di Parigi: in attesa. Poi dal nulla — quando proprio gli andava — prendeva il calcio e lo rendeva qualcosa di diverso, più simile alla magia, e allora non importava davvero più il ruolo.

LEONIDAS

Attaccante

Due abiti, due scarpe e due paia di guanti. Fu il prezzo (a dire il vero, parte di esso) di uno dei primi cartellini da professionista di Leonardo da Silva detto Leonidas, il pioniere che negli anni ’30 brevettò la rovesciata in quanto bicicleta, oltre a essere uno dei primi calciatori neri del Botafogo, nei giorni in cui l’integrazione era poco più di un auspicio. Attaccante totale quando per il ruolo bastavano 173 centimetri, veniva soprannominato l’uomo di gomma per l’elasticità dei suoi movimenti e per la sua facilità di dribbling. Con sette reti divenne capocannoniere del Mondiale 1938, nonché la prima vera icona calcistica del Brasile, tanto da finire sui pacchetti di sigarette.

LUCIO

Difensore centrale

Con un grugno così, già prima di scendere in campo era legittimo avvertire una fitta alle giunture. Lucimar Ferreira da Silva detto Lucio, a parte la discreta corsa, non aveva nessuna dote tecnica particolare. Però sapeva farti sentire in difetto, se per caso avevi intenzione di fargli gol. Ti poteva mettere davvero a disagio, rasentava la maleducazione. Alle volte stavi lì, lo guardavi e pensavi: ma al posto suo io pure farei così? Certo sarei seccato, stizzito, magari sgarbato ma no, non credo, sarà che sono stato educato diversamente. Poi a volte, se voleva punirti perché riteneva tu fossi un mammone, prendeva palla e avanzava dalle retrovie, sgraziato. Come un percussionista nervoso, che ti prende il jambé a una festa, per rovinarla a tutti, e per quanto a volte andasse anche a tempo, colpiva il legno male, e te lo faceva apposta. Ma nessuno mai gli diceva niente. Anzi qualcuno gli dava pure ragione.

LUIS FABIANO

Centravanti

Bisogna sempre — necessariamente — fare attenzione ai soprannomi che si danno, perché poi rimangono attaccati alla pelle, alla maglia, agli scarpini. Dopodiché dare quello stesso soprannome a qualcun altro sarà inutile se non si rispettano le caratteristiche ontologiche del prototipo. Ragion per cui, quando da oggi soprannominate un attaccante O Fabuloso, assicuratevi che sfiori il metro e 90, che sappia correre senza palla tra le linee, che sia ragionevolmente ambidestro ma anche ottimo colpitore di cranio, che esploda di potenza e che abbia come compagno di reparto Kanoutè. Almeno per dieci minuti.

LUIS PEREIRA

Difensore centrale

Dai avanti, dimmi il nome di un difensore forte, storico dell’Atletico Madrid. Difensore centrale. Te lo dico io, Luis Pereira. Luis Pereira anticipava tutti, sempre. Era tarchiatello e a guardarlo avresti pensato che forse era più utile lanciarlo di peso contro l’attaccante, e invece Luis Pereira era più veloce di te. Era così veloce e bravo nell’anticipare tutti che a quel punto, una volta presa palla, andava da solo in area. Se la perdeva e la squadra la recuperava, lui mica tornava indietro, no. Aspettava il rimpallo, del tuo cuore in gola.

MAICON

Terzino destro

Maicon Douglas Sisenado fa l’effetto del Titano di Braavos di Game of Thrones: lo guardi e ti mette un po’ soggezione, anche perché è capace di fare lo sguardo più truce (ma, allo stesso tempo, anche lo sguardo più cazzone). La differenza col Titano di Braavos è che Maicon non sta fermo: parte in progressione con la forza di un tornado, ama scambiare la palla con un compagno e continua a correre come una locomotiva impazzita per chiudere l’uno-due e quando arriva sul fondo non esclude l’opzione del tiro in porta (con risultati devastanti, spesso). Sulla fascia destra, qualora ci sia stato qualcuno più bravo di lui, non ha mai osato farglielo presente.

MANGA

Portiere

Quando era opinione diffusa che i portieri brasiliani non fossero un granché, Haílton Corrêa de Arruda detto Manga, come un fumetto giapponese alto un metro e 86, volava fuori dai pali e sconfiggeva il male con la sua grande elevazione, per il grande Botafogo di Garrincha, Nilton Santos e Zagallo. E a conferma che fosse il Sudamerica il suo ambiente naturale partecipò a un solo Mondiale nella sua lunghissima carriera, ma al contempo divenne il brasiliano con più presenze in Copa Libertadores.

MARCELO

Terzino sinistro

Tarchiatello, tutto proiettato in avanti, con i capelli sparati tipo presa di corrente, pasticcione, spesso sorridente ma senza la pretesa di sorridere in modo intelligente. Sembra uno dei protagonisti di Wayne’s World, sembra l’amico tonto del protagonista di una velleitaria commedia per collegiali americani, invece è il terzino sinistro del Real Madrid degli anni ‘10.

MARINHO CHAGAS

Terzino sinistro

Per essere un destro che gioca a sinistra, già di tuo, devi essere bello sfrontato. Innanzitutto perché ogni passaggio o tiro preciso, ogni calcio dritto che dai al pallone su quella fascia, è un calcio nel sedere a tutta la retorica sui mancini. In seconda battuta, poi, sei meno costretto a crossare e più costretto a entrare in area, a saltare l’uomo. A metterti in mostra, sì ma rischiando di più. Devi essere incosciente, per giocare a sinistra col piede destro, devi aver voglia di vendicarti di qualcuno che pensi ti abbia tolto qualcosa, come un allenatore che non ti fa giocare attaccante e anzi ti mette a fare il terzino, o un padre che non ti ha firmato il primo contratto perché era contrario al fatto che facessi il calciatore, e ti è toccato far falsificare la firma a tuo fratello. E se dimostri di essere bravo perché in campo giochi come vivi anche fuori, sopra le righe, irriverente, devoto al gioco, racconteranno di te solo che prendi l’aereo per andare a giocare d’azzardo in Uruguay e che sei un seduttore seriale di attrici e modelle. Nel frattempo, però, puoi comunque fare una discreta carriera e sedurre le folla come fosse lei l’attrice, e tu solo un Diablo Louro, un diavolo biondo, che le ha rubato il cuore. Come Francisco das Chagas Marinho, per gli amici Marinho Chagas.

MARQUINHOS

Difensore centrale

Con l’apparecchio s’era presentato. Quella ferraglia ordinata nella sua bocca era la cosa che più mi piaceva di lui, quando era a Roma. L’apparecchio non ringiovanisce chi lo porta, non è quello a relegarti all’immaturità, a un’espressione infantile. Alla fine è solo uno strumento, un mezzo verso quella regolarità che cerchiamo in ogni gesto ma quasi mai nel nostro corpo. L’apparecchio interviene dove serve, piega con cura ciò che è storto, stringe tra loro i denti, ogni mese sempre di più, fino al dolore, fino alla resa dell’aria che non può più passare oltre, se non facendo il giro. Marquinhos davvero mi sembrava un apparecchio, quando stava qua. Era piccolo, visibile solo quando la Roma apriva la bocca, efficace, essenziale. Ecco, forse il motivo per cui il paragone non regge è perché ad apparecchio tolto s’alza un forte sollievo, sorridi allo specchio che ti ricambia in luce e sicurezze. Invece lui mi manca, e mi servirebbe pure.

MAXWELL

Terzino sinistro/Silver Hammer

Maxwell Edison, majoring in medicine, calls her on the phone. “Can I take you out to the pictures, Joa, oa, oa, oan?” But as she’s getting ready to go, a knock comes on the door. Bang! Bang! Maxwell’s silver hammer came down upon her head. Bang! Bang! Maxwell’s silver hammer made sure that she was dead.

MAURO SILVA

Mediano

Mauro da Silva Gomes, noto come Mauro Silva, ha quarant’anni al momento della nascita e il classico fisico dell’interdittore, anche detto “configurazione del comodino”. Non ci sono prove di questo ma sembra certo che sia così; raggiunta alla nascita tale età, Silva decide di mantenerla per il resto della vita. Il suo ruolo calcistico ma soprattutto umano è quello di vecchio in mezzo al cazzo; interpreta tale compito in maniera magistrale sia al Guarani che al Bragantino sia per circa due secoli al Deportivo La Coruña, oltre che ovviamente in Nazionale. Generazioni di alette talentuose e presuntuosi trequartisti inciampano in Mauro Silva, lasciando la palla lì; altri, più educati, gliela consegnano con tante scuse. Al che Mauro Silva calcia di bastone verso Romario o Bebeto o Makaay e questi segnano. A cinquantasei anni, raggiunti i quarantuno anni di età, Mauro Silva si ritira e occupa in sedia a dondolo un incrocio trafficatissimo. Di lui resterà lui stesso, il fatto che fosse e sia impossibile che se ne vada, la sua presenza fastidiosa e inamovibile.

NENÉ

Centrocampista/Trequartista

Nato in Brasile, vissuto e morto a Cagliari, lì dove aveva trovato una famiglia, dopo aver iniziato a giocare nel Santos di Pelé ed essere arrivato in Italia con la Juventus di Omar Sivori. Claudio Olinto de Carvalho, per tutti, semplicemente Nené (il pianto del bambino), andava in giro per le strade della città che lo aveva adottato, fermava i passanti e chiedeva: «Ti ricordi di me? Sono Nené, quello dello scudetto». Nessuno lo aveva dimenticato. Centravanti di manovra, una prima punta, un’ala e una mezzala. Nené è stato tutto, si è adattato alle esigenze delle squadre in cui giocava, ai compagni cui doveva fare da scudiero. Classe da solista, spirito da gregario, Nené ha saputo trasformarsi in continuazione, da 9 a 7, da 7 a 8. Gambe fortissime e velocissime, Nené recuperava palla, saltava l’uomo, serviva i compagni, faceva gol. Cresciuto al fianco di Pelé, silurato da Sivori, diventato grande al fianco di Riva, ha vissuto una carriera all’ombra dei più grandi. Contribuendo a proiettare su di loro la luce della ribalta.

NEYMAR

Attaccante

Se gli inglesi hanno inventato il calcio, se gli argentini lo hanno elevato a forma d’arte, i brasiliani gli hanno regalato la dignità di un trattato filosofico. Quando gli inglesi hanno cominciato a giocare a calcio in Brasile, organizzando oziosi tornei aziendali fra loro, gli mancavano i giocatori per arrivare a undici. Allora sono stati costretti a far giocare gli operai neri, cosparsi di farina per sembrare meno neri, a una condizione: che non toccassero i bianchi. È quindi nel tentativo di aggirare vincoli sociali e politici che i brasiliani hanno trasformato il calcio in illusionismo, lavorando sull’idea assurda e metafisica di far scomparire il proprio corpo in un gioco che si gioca con il corpo. Per riuscirci hanno mischiato il calcio con l’ambiguità della capoeira, la danza della sublimazione del contatto.

I migliori calciatori brasiliani della storia sono stati farfalle, maestri dell’elusività e della provocazione per cui il dribbling non è un gesto tecnico ma un simbolo di astuzia: la vittoria dell’inganno sulla forza. Dopo Garrincha, Jairzinho, Rivelino, Ronaldinho, Romario, Neymar Jr. è stato l’ultimo malandro del calcio brasiliano, la sua stessa essenza. Venuto fuori nel momento stesso in cui il calcio sembrava aver perso la sua poesia, il gioco di Neymar Jr. è racchiuso nella contraddizione tra la leggerezza aerea della sua corsa e la pesantezza barocca delle sue azioni. Il rapporto privilegiato tra Neymar Jr. e il pallone faceva sì che avesse la stessa sensibilità con ogni parte del corpo: petto, tacco, suola, collo, piatto, esterno. Spesso si pensava che la sua bellezza fosse contraria al praticità che il calcio richiede, ma Neymar Jr., pur arrivandoci attraverso la via più lunga e tortuosa, è stato anche re del gesto tecnico più brutale del calcio. A 28 anni ha superato il miglior marcatore della storia della Seleçao e a 30 ha rotto la barriera dei 100 gol. Conservarlo significa mantenere in vita un linguaggio e una visione che appartiene al Brasile quanto le sue montagne, la sua giungla, le sue contraddizioni.

OSCAR

Trequartista

Oscar dos Santos Emboaba Junior in realtà voleva scriversi sulla maglietta Emboaba perchè aveva scoperto che cercando quel nome su Google non usciva fuori assolutamente nulla. Sfortuna volle che la sua passione fosse il calcio e che nel primo contratto firmato ci fosse la clausola di Uniformità Brasiliana che comprendeva: avere un nome orecchiabile per gli europei, saper calciare le punizioni, essere accostato a intervalli regolari alla Juventus. Solo le ferree leggi di mercato brasiliano ci hanno permesso di avere un giocatore comune, identico a tutti gli interpreti del ruolo venuti prima di lui.

PATO

Attaccante

Nonostante il visino pulito da One Direction e il soprannome da cartone animato, sul Papero non c’era niente da ridere. Nei suoi anni a Milano è stato la quintessenza dell’attaccante moderno, facendoci dimenticare il preconcetto del calciatore brasiliano tutto giocoso e ineffetivo: Ha segnato quasi un gol ogni due partite, di testa, di piede, destro o sinistro, rendendosi spirito apollineo del dionisiaco e ispiratissimo Ronaldinho. Per colpa degli infortuni ce lo siamo un po’ perso, uno dei talenti più cristallini dei primi anni 2000, ma niente in confronto ai tifosi del Brasile che hanno dovuto vederlo sostituito in Nazionale da FRED ([ˈfɾɛd(ʒ)i]). Fred, capito?

PELÉ

O’Rey

Edson Arantes do Nascimiento, ovvero Pelè. Ovvero quello che è più forte di tutti quelli su e più forte di tutti quelli giù che troverete in qualsiasi compendio. Ovvero quello che sta al pallone come il pallone stesso, e infatti quando il pallone stava tra i suoi piedi era difficile trovare uno solo che lo avesse visto perderne il controllo, a meno che non fosse fallo o gol, che detta così sembra tautologia e invece ti giuro, era Pelé.

RAÌ

Trequartista/Seconda punta

Provateci voi, a giocare sulla trequarti se siete alti un metro e 90. Devi chiamarti Socrates, o quantomeno essere suo fratello. Proprio nel senso letterale e genetico del termine. Raimundo Souza Vieira de Oliveira, infatti, detto Raì, se non avesse avuto l’accento sulla i sarebbe stato un polo televisivo, se avesse avuto la y sarebbe stato un acchiappafantasmi, ma grazie all’accento è stato uno dei dieci più atipici del calcio brasiliano. Lontano dalle ribalte politiche e storiche del fratellone perché comunque aveva undici anni meno di lui (e peraltro bandiera non del Corinthians ma del rivale Sao Paulo) si è sorbito tutta la plastica e il crollo degli ideali degli anni ’90, ma almeno ha avuto la decenza di farlo a Parigi, dove a Saint Germain la Sorbona è a due passi. Fratello d’arte ma anche di talento, segnava di tacco al volo prima dei Mancini perché, siccome era piazzato, lo facevano giocare anche punta. Tra l’altro lui ha vinto un mondiale e il fratello no.

RIVALDO

Seconda punta

Piede assoluto, movenze che sono un’arma impropria. Chiarisce fin da subito di non essere un giocoliere da strada: la sua sagoma è asciutta, il suo trotto risponde agli impulsi di un intelletto visionario, il suo cinismo lo porta prima al Depor, poi tra i grandi. Bastassero gli apici e i gesti rappresentativi, una certa rovesciata al Valencia e un certo trionfo asiatico sarebbero elementi sufficienti a mettere tutti a tacere. Avremmo poi, per gradire, una Copa America da protagonista e una Champions con il Milan.

Bene, ma non mancano le zone d’ombra. Prima che arrivasse alla presidenza del Mogi Mirim e iniziasse a elemosinare ingaggi per Rivaldinho (parabola che di gudjohnseniano ha ben poco), Rivaldo ha utilizzato gli ultimi anni da “pro” in qualità di mangiastipendi, sciupando la possibilità di chiudere in modo dignitoso. In sostanza: passi per la Grecia, meno per Uzbekistan e Angola.

RIVELINO

Trequartista/Seconda punta

Roberto Rivelino nasce a San Paolo del Brasile il primo gennaio del 1946 (guardate che tocco di geometria e armonia: il primo giorno del primo anno senza guerra). San Paolo del Brasile — da non confondere con San Paolo di Jesi (AN), ma è onestamente raro che questa confusione abbia luogo -, San Paolo del Brasile, dicevamo, è una grande città posta nel continente sudamericano, quindi molto lontano verso ovest, a una ragionevole latitudine meridionale, quindi molto lontano verso sud. Io, e introduco questo parallelismo non per immodestia ma perché questo pezzo lo sto scrivendo io, sono cresciuto ad Arcevia (AN), non lontano da San Paolo di Jesi ma assai distante da San Paolo del Brasile; ciononostante, giocando a calcio sulla superficie in cemento del nostro giardino comunale o trincerandomi in sala giochi nei freddi mesi invernali, negli anni Ottanta e Novanta ebbi a conoscere il nome e la fama di Rivelino, all’epoca già ritiratosi da ogni competizione. Soprattutto conobbi e mi divenne quasi familiare il suo poderoso tiro di sinistro, che ancora per molti anni non avrei visto se non in pallidi spezzoni di lontani mondiali passati. Era tanto potente, quel sinistro, da giungere inaspettato da San Paolo del Brasile fin sull’Appennino marchigiano, facendosi rispettare anche colassù e divenendo proverbiale e magico tra gente che effettivamente non l’aveva mai visto, ma che pure sognava di tirare come Rivelino o temeva di ricevere sul cavallo della tuta — all’epoca ancora felpata e dotata di toppe — un pallone calciato alla Rivelino. Più tardi non vidi, perché almeno inizialmente non ci fu, un altro tiro di Rivelino in un famoso Brasile-Zaire; ma di quel video e di quella vicenda, apparentemente ridicola e divertente e in realtà tragica, non voglio dir nulla. Rivelino non è una barzelletta, è una cosa serissima, seria come un tiro talmente forte che attraversa il mondo e i decenni e arriva in piazza nel tuo paese, e tu sai che quel pallone l’ha calciato lui.

ROBERTO CARLOS

Terzino sinistro

Roberto Carlos da Silva, sui campi d’allenamento, sui voli intercontinentali, sui bus che accompagnavano allo stadio, sorrideva e faceva sorridere. In campo no, ricordo il suo sguardo vitreo e nero, fermo, cristallizzato. Col sinistro accarezzava il pallone con una delicatezza che ricordava le mani di una madre che asciuga le lacrime di suo figlio, tornato dagli allenamenti con le ginocchia sbucciate. Faceva roteare il pallone leggero a mezz’aria. Una volta diede un colpetto sotto il pallone e questo salì in aria, librando per qualche secondo. La sfera cominciò a scendere, perpendicolare al suolo. Lo seguivamo con lo sguardo, fermi sul nostro rettangolo di campo bruciato che sembrava un’isola lontana centinaia di chilometri dalla realtà. Un attimo prima che il pallone toccasse il terreno, Roberto mise il suo piede sulla traiettoria, sollevato da terra di qualche incalcolabile millimetro, dove anche la luce, sembrava non passare e la colpì con le dita del piede sinistro, disegnando una mezzaluna perfetta nell’aria. “La senti questa gioia? — disse — Questo è il Brasile”.

ROBERTO DINAMITE

Centravanti

Leggenda del Vasco da Gama di cui è il recordman non solo di presenze ma anche di gol, è oggi anche presidente della società. Quando indossava gli scarpini era un attaccante alto ma completo, capace di metterla dentro un po’ in tutti i modi. Nella sua unica, sfortunata stagione europea, con la maglia del Barcellona, perse la finale di Supercoppa Uefa contro il Nottingham Forest.

ROBINHO

Seconda punta

Funambolo o giocoliere a tempo perso? Spina nel fianco per le difese avversarie o fenomeno da spiaggia? Con Robson de Souza Santos, detto Robinho, non si è mai potuto sapere con esattezza. L’unico modo per provare a farsi un’idea era metterlo in campo, e vedere che aria tirava. Pelè disse che quando lo vide giocare la prima volta, il suo tocco di palla e il suo dribbling lo fecero quasi piangere. E infatti Robinho, nei giorni sì, lo chiamavi Pelezinho, nei giorni no, con i nomi delle madonne. Se rinasce, per andare sul sicuro, lo chiamiamo l’Altalena.

ROGERIO CENI

Portiere

Rogerio, Ceni? No grazie, stasera devo giocare . La vita del portiere del San Paolo è sempre stata un grande malinteso. Più di mille partite con la maglia del Tricolor Paulista e di lui si ricordano i 103 gol messi a segno. Una carriera passata in Brasile tra video sbiaditi di punizioni segnate e fotografie di esultanze dopo un rigore. Quanto a parate, non pervenute, o almeno non se ne ha traccia. Ai CT brasiliani questo ossimoro di portiere goleador non è mai andato molto a genio, probabilmente perché poco inclini alla sua gag ventennale. Ai Mondiali del 2002 e del 2006 ha fatto da comprimario, tenendo il suo ormai collaudato show di ‘goleirador’ solo per le partitelle del giovedì. Però il calcio è proselitismo e Rogerio Ceni ne ha sempre fatto tanto.

ROMARIO

Attaccante

Romário de Souza Faria, meglio conosciuto come Romario, è chiaramente uno di quelli che meno vorresti avere come avversario. Romario saltava tutti, con quell’atteggiamento di chi sta giocando alla spiaggia colle ciabatte della Fila, che ti salta coi sombreri e corre sulle punte perchè la sabbia scotta. Una volta ho visto un’azione dove ha saltato 4 avversari con 4 sombreri, è arrivato davanti al portiere che si aspettava un sombrero, lui ha finto un sombrero, il portiere si è tuffato come cadendo nel mare e poi lui ha comunque segnato col sombrero. Fa anche la mossa dell’ombrellone, anche questa tipica della spiaggia, che consiste nel ruotare il corpo in una direzione e muovere un piede come per fare la buca -appunto- dell’ombrellone, e poi con un colpo di ciabatta Fila si fa strisciare il pallone sotto la sabbia per arrivare a tu per tu col portiere; poi comunque si, segna col sombrero.

RONALDINHO

Per salvare Ronaldinho dall’oblio basterebbero solo i tre anni di Milan, giocati praticamente da fermo, da vispa ombra dello splendido Gaucho di Parigi e Barcellona. E invece è bello raccontare di quella volta in cui, vestendo la maglia blaugrana col numero 10, fece alzare in piedi più di 80mila madridisti. Dove il calcio e — soprattutto — la politica dividevano, Ronaldinho era capace di unire. Lo faceva con una delle sue finte a elastico, con uno scavetto per servire un compagno, con un no look da playmaker Nba. Con quella danza tutta fuochi d’artificio e col suo sorriso sghembo, le sue finte da menino da rua, la sensazione di essere in grado di fare qualsiasi cosa volesse, quando lo voleva, tutte le volte che lo voleva. Come quel giorno in cui si mise in testa di far segnare la prima rete in campionato a un ragazzino argentino che aveva scelto come suo erede e gli disse: «Tu mettiti sulla linea dei difensori, ché io ti mando in porta». Entrato a tre minuti dalla fine, il ragazzino eseguì, ricevette il filtrante di Dinho, segnò. Ma lo fece in fuorigioco e la rete fu annullata. Dinho gli si avvicinò, lo consolò, gli disse: «Lo rifacciamo uguale». E mantenne la promessa un minuto dopo, prendendosi quel ragazzino sulle spalle e portandolo in trionfo davanti al Camp Nou, per il primo di una lunga serie di gol che avrebbero portato il piccoletto argentino a diventare il più grande marcatore nella storia del Barça, e della Liga. Mentre iniziava il suo tramonto, e forse ancora non ne era pienamente consapevole, Ronaldinho aveva contribuito a far sorgere una nuova stella. Un’altra magia, un altro regalo al calcio.

RONALDO

Fenomeno

Luiz Nazario da Lima, detto Ronaldo. Sì, *prima* di Ronaldo. Sì, *meglio* di Ronaldo. Come posso spiegarvelo? Forse con un controsenso: ricordo che a un certo punto Luiz Nazario da Lima detto Ronaldo giocava in serie A, in una squadra nerazzurra cui in quel periodo buttava maluccio. Erano passati virtualmente pochi anni da quando giocava scalzo in una favelas e lo prendevano in giro per i dentoni. Nel mentre facciamo finta che non è successo niente, facciamo che vi dico che fecero una domanda all’allenatore della squadra contro cui avrebbe giocato, e che gli chiesero “state preparando una gabbia per Ronaldo?” e lui non rispose. Sorrise. Perché non si poteva fare una gabbia, per Luiz. Luiz era una tempesta, un’allegoria, una pietra, una speranza di vita, la fine di un cammino. Uno dei più forti attaccanti di tutti i tempi. Fu fermato dalle ginocchia, dalle iniezioni, da una misteriosa epilessia. Fu fermato dal suo secolo. Ma voi guardatelo e riguardatelo, che quando lo vedete correre e dribblare e segnare in tutti modi nei filmati, non potrete mai credere che Luiz non continuerà a correre per sempre.

Dino SANI

Centrocampista

Mezz’ala destra dalla grande visione di gioco e dalla spiccata attitudine offensiva, era l’esatto opposto di un individualista. Dialogava in brasiliano fluente con i suoi compagni grazie ai suoi passaggi precisi, e intrecciava trame di centrocampo che impedivano agli avversari di conquistare il pallone. Dino Sani è stato Campione del Mondo nel 1958 con il Brasile, Campione d’Italia nel ’62 e d’Europa, nel ’63 con la maglia del Milan guidato da Nereo Rocco. Dopo soli tre anni in Italia e un rifiuto di indossare la maglia azzurra, tornò a casa. Non avrebbe mai potuto affrontare il suo Brasile.

SAVIO

Esterno destro

Savio, ala, capello tendente al lungo, spesso cotonato ma inumidito dal sudore, attaccatura abbastanza alta sulla fronte, una rosa nella parte anteriore destra. Lo sanno tutti quelli che tra il ’96 e il ’97 lo hanno avuto come esterno a Pc Calcio. Viso pulito, lineamenti simmetrici, con una lieve incrinatura della mandibola verso destra. Via dal Real Madrid il capello comincia ad allungarsi e la faccia a sporcarsi. I lineamenti si intristiscono, e la barba, cresciuta da poco, diventa meno curata.

SÓCRATES

Dottore in medicina

Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira si è fatto ammirare come calciatore, come ompagno e come educatore. Questo da sempre. Perché nel meraviglioso contesto che fu la democrazia corinthiana nessuno veniva lasciato indietro, tantomeno i tifosi. A un certo tipo di appassionati però più che i messaggi politici nel dazebao interessavano i risultati, e quando non arrivavano si facevano sentire. Dopo una cocente sconfitta assaltarono la squadra, per esempio. La partita dopo il Dottore fece tripletta e non accennò neanche ad un’esultanza. Non perché non fosse felice, ma perché non doveva esserlo il pubblico. Perché quella tripletta contava relativamente, al Corinthians. La torcia andava educata al concetto che il calcio è importante quando si gioca a calcio, ma quando ci gioca Socrates è un’altra storia.

Claudio TAFFAREL

Portiere

Gentile consorzio alieno, spettabile direttorio extraterrestre, lo so che costui non sembra quasi un calciatore. Ha una testa strana, sembra una spia della Stasi, eppure giuro: è un brasiliano. Si chiama Claudio Taffarel, e sì, lo so che neanche il cognome è brasiliano, infatti qualcuno di noi gli voleva bene perché aveva questo nome romano e questo cognome un po’ polentone valligiano, e infatti se andate a vedere i nonni erano di vicino Treviso. Lo so, mi perdo, vi confondo, ma sentite qui: io me lo ricordo da quando ero bambino, di lui si diceva che fosse più bravo coi piedi che con le mani, e voi direte “è un calciatore, sei un idiota, adesso ti vaporizziamo”. Sì, ma no. Era un portiere. Ed era il portiere che ipnotizzò Roberto Baggio, che fuorviò Franco Baresi, che inchiavicò Massaro, che giocò nel Parma, che giocò ovunque, che parò un po’ ovunque, nonostante le mani. Il portiere che sollevò la Coppa del Mondo davanti alle mie lacrime di bambino, che, be’, tifavo per quelli blu. Ma sembrava un angioletto, un brutto angioletto, ed era tanto contento, ed era un po’ italiano. E se l’ho perdonato io, cortese commissione aliena, dovreste farlo anche voi.

THIAGO SILVA

Difensore centrale

Ogni tanto, in questa grama esistenza, il caos ci assegna una certezza, una sicurezza, una stabilità scevra da ‘se’ e ‘ma’. Alla tradizione difensiva brasiliana il caos ha regalato Thiago Silva, come refugium peccatorum. Cresciuto nel Milan verdeoro con a fianco Alessandro Nesta, che gli ha insegnato come si fanno le cose — marcare, coprire, le diagonali, salire, aprire un mutuo, fare il letto, l’amore –, Thiago Silva è diventato l’emblema del difensore marmoreo, su cui puoi contare. Quello che non ti dà nemmeno la seccatura di stare lì a elencare cosa sa fare e cosa non sa fare. Thiago Silva è l’opposto di David Luiz: non si distrae, non guarda fuori dal finestrino sul pullman, non ha in testa quel motivetto che non si toglie più, ha sempre lo stesso taglio di capelli, non batte le punizioni matte, si porta la squadra sulle spalle. Per questo messi vicini vicini nella difesa del Brasile facevano così tanto bella figura. Infatti, appena divisi, tac, prendi sette gol dalla Germania. Con Thiago non sarebbe accaduto mai, in nessuno degli infiniti mondi paralleli, tranne quello in cui, col nome Jacob Silberbauer, fa l’attaccante per la Germania.

TOSTÃO

Attaccante

Eduardo Gonçalves de Andrade detto Tostão, “la monetina”, a 6 anni segnò 47 gol in una partita sola tra bambini delle elementari. Viene quindi da pensare che si guadagnò il soprannome facendo vincere la merenda gratis a tutti i compagni. Era un centravanti di 1 metro e 70 centimetri con la vista periferica: vedeva così bene i compagni di reparto, era così incline al dialogo, che ci volle una pallonata sull’occhio per farlo smettere, sul serio. Un progressivo distacco della retina lo costrinse a ritirarsi a 27 anni. Dopodiché, giustamente, si laureò in medicina ed esercitò la professione. Al momento del suo ritiro, però, aveva segnato 366 reti in 435 gare.

VAVÀ

Attaccante

Edvaldo Izídio Neto, ai tempi, era un centravanti di professione, quindi era alto 1 metro e 74. Per tutta la partita non faceva molto, se non fare gol. In tutti i modi, di piede, di testa, di rapina, in velocità. Segnava, si metteva lì e aspettava il momento giusto. Chiaro, lo faceva con Pelè a fianco e Didì alle spalle, ma ogni Pelè e ogni Didì hanno bisogno di un Vavà.

Mario ZAGALLO

Mediano

Al Museo del calcio di São Paulo una serie di pannelli ripercorre la storia del Brasile ai Mondiali. Se si prova a contare quale nome ricorre più spesso, non si trovano più ricorrenze di Pelé, Zico, Romario o Ronaldo, ma di Mario Zagallo, il meno brasiliano tra i brasiliani, il più pragmatico dei canarinhos, la nemesi interna perfetta allo stereotipo del futebol bailado. Da giocatore, Zagallo non concedeva nulla allo spettacolo, ogni suo gesto era finalizzato al passaggio o alla conclusione. Nessun movimento superfluo, nessuna concessione al joga bonito. Eppure i brasiliani hanno dovuto attendere lui per vincere il loro primo Mondiale, nel 1958, otto anni dopo lo choc del Maracanaço. E nel 1962 lui era ancora in campo, per il secondo successo consecutivo. Nel 1970, Pelé guidava il Brasile alla conquista definitiva della Copa Rimet, con una vittoria per 4–1 nella finale contro l’Italia. Zagallo? Aveva smesso di giocare dopo la mancata convocazione per Inghilterra 66 (andate a vedere come finì per il Brasile), ma solo per sedersi in panchina e guidare la nazionale da direttore tecnico. Nel 1994, dopo 24 anni di astinenza, la Federcalcio brasiliana si affidò a Carlos Alberto Parreira, ma per non lasciare nulla al caso, gli mise accanto Zagallo. Finì con un rigore sparato alle stelle da Roberto Baggio e Carlos Dunga ad alzare la Coppa del Mondo

ZÉ MARIA

Terzino destro

Zé Maria, Atleta di Cristo e terzino versatile, giunto all’apice del suo calcio da giovanissimo, venne fermato solamente da un grave infortunio. E’ solito affermare che lo superò pregando in questo modo: “Signore, Tu conosci le mie lacrime. Vengo davanti a Te perché so che Tu mi darai la forza necessaria”. Proprio per questo la sua carriera da allenatore comincia con il Don Bosco Perugia, squadra dell’oratorio salesiano. Ma Dio continua a giocargli brutti scherzi: nel 2015, alla sua prima esperienza da allenatore col patentino, viene esonerato due volte in una settimana da tale Angelo Massone, proprietario di uno sconosciuto club romeno. Così si rifugia recitando Matteo 11:28 “Venite a ME, voi tutti che siete stanchi e travagliati ed IO darò riposo alle anime vostre!” Siete avvertiti.

ZÉ ROBERTO

Jolly di centrocampo

La vita è strana, treccine. A 22 anni il Real Madrid ti porta via dal Brasile e la vita cambia. L’Europa, le competizioni importanti, un prospetto sicuro, la possibilità di vincere la Champions League. D’altronde non ti manca nulla, salti il marcatore come lui se fosse un pasto e tu uno a dieta, e sei veloce come il cavallo che soffia nella tempesta che corre. E poi puoi giocare ovunque, basta che ti mettano sulla fascia. Un anno dopo, però, un allenatore tedesco ti rispedisce in Brasile a metà stagione, e perdi l’unica occasione della tua vita di alzare la Coppa. Ironia della sorte è in Germania che ti vogliono un anno dopo. Ed è lì che giocherai per più di dieci anni, provando a rivincere quel trofeo senza mai riuscirci, ma vincendo tutto il resto, e migliorando tanto. È lì che farai ammattire l’avversario in tutti i ruoli del centrocampo, non importa neanche più che ti mettano per forza sulla fascia. Ti adatti, non ti fai incastrare. E impari a crossare, e migliori la tua tecnica, anno dopo anno, e ti diverti tanto che, pur di smettere a 40 anni, riporti le treccine a casa.

ZICO

Trequartista/Seconda punta

Dicevamo, di “numeri dieci” il Brasile ne ha avuti tanti ma, dal calcio più remoto fino a quello contemporaneo, la maglia dell’artista è passata spesso per le spalle di centravanti d’area o seconde punte implacabili, dieci travestiti da Pelè a Ronaldo. Tuttavia, se c’è stato un calciatore che possa vantare il diritto divino di indossarla il suo nome è Artur Antunes Coimbra, anche se tutti sanno che il ricciolo Artur, quando indossa scarpini e suda in verdeoro, prende il nome di Zico. Queste due sillabe in Brasile significano Flamengo e quasi 400 gol, in mezzo c’è stata l’Udinese ‘83-’85 che ha striato in bianconero verticale le strisce orizzontali dei rossoneri. Che poi uno non se lo spiega ancora come ci fosse capitato a Udine un genio elegante capace di trascinare una squadra solo muovendo l’interno destro, di accarezzare una palla che rotola e i sentimenti di chi la segue con gli occhi sul verde del prato, ma forse la storia è una missione, portare il sole e l’arte in un posto dove non te l’immagini. E un genio non se lo chiede, arriva prende il pennello, lo mette sul destro del piede. E Udine sulla tela, d’improvviso diventa Rio.

ZITO

Mediano

Zito era il classico medianaccio che non si fida a portare palla. Gioca una partita perché il titolare s’è svegliato male, non sai mai se schierarlo alla seconda perché c’è gente molto più forte che ti guarda brutto. Alla terza è titolare e in finale segna pure. E alla fine vince due mondiali.

ZIZINHO

Trequartista/Attaccante

Questo è uno dei giocatori che vi farà fare il giro più lungo, con la vostra macchina del tempo. Al tempo nostro, infatti, di Tomás Soares da Silva detto Zizinho, sono arrivati solo il nome, la gloria e il fatto che fosse il migliore tra i presenti al dramma del Maracanazo. Pelè ha detto di lui che era il giocatore più completo che avesse visto giocare in Brasile. Ha detto che giocava in avanti, a centrocampo, che sapeva segnare, crossare, dribblare, addirittura marcare. La Gazzetta dello Sport, durante i Mondiali del ’50, lo paragonò persino a Leonardo da Vinci. Quando tornerete dalla sua linea temporale, perciò, raccontateci cosa ci siamo persi.

***

E mentre gli alieni si sfregano quelle falangi di luce che hanno al posto delle mani, ci sentiamo in colpa per aver privato il nostro calcio di un centinaio di questi giocatori, ma almeno ora il Brasile è salvo, ce lo confermano telepaticamente.

Tenetevi pronti, ci dicono. Quando torneremo, vi toccherà convincerci a risparmiare un Paese più piccolo. Ridono, sanno bene che noi non saremo mai pronti.

(continua…)

La linea difensiva della Terra, in questo episodio, è stata composta da: Simone Vacatello, Adriano D’Esposito, Tommaso Giancarli, Flavio Iannelli, Alessandro Fabi, Emanuele Atturo, Marco D’Ottavi, Gabriele Lippi, Antonio Paesano, Simone Nebbia, Fabio Imperiale, Marco Juric, Mattia Pianezzi, Matteo Serra, Sebastiano Ianizzotto, Massimiliano Chirico, Saverio Nappo, Alessandro Colombini, Damiano Cason.

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