Pantheon azteco

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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27 min readJan 25, 2017

La guida ci lasciò all’uscita di quel surreale tunnel roccioso. Ai nostri piedi c’era una discesa ripida, davanti ai nostri occhi il deserto del Chihuahua. Ci disse che sarebbe tornato a prenderci alle 6 del pomeriggio, sempre lì.

«Come lo troviamo?», chiedemmo.

«Se lo cercate, non lo trovate. Quando siete pronti, vi trova lui».

Eravamo in Messico, dove gli invasori di Alpha Centauri ci avevano lasciato, alla ricerca di peyote. Se proprio dovevamo raccontare le storie dei migliori calciatori messicani, tanto valeva farlo con tutti i chakra aperti.

Quando quelli arrivarono, un paio di ore dopo, noi eravamo già sul loro pianeta, pensa che strana la vita. E iniziammo a raccontare.

***

Episodio 9 — I messicani

Luis Hernández

La cosa più bella, almeno per me, era quel senso di verosimiglianza. Cioè tu accendevi la Playstation, mettevi il “dischetto” e giocavi con calciatori virtuali che erano alter ego associabili al calciatore reale. La mia prima esperienza di questo tipo fu Gianluca Vialli, su Fifa 98. Senza capelli. Un colpo al cuore. Poi toccò a lui, Luis Hernández, con Iss Pro. Capelli lunghi, biondi. Praticamente uguale. Almeno allora, almeno per me. Per me che ne avevo sentito parlare prima e durante i Mondiali del 1998. I miei Mondiali, nel senso che furono i miei primi. Luis Hernández venne raccontato come una specie di fenomeno senza pari, un attaccante incredibile, una specie di cecchino infallibile. Era stato il capocannoniere della Copa America del 1997, quella di Ronaldo. Tanto bastava. In effetti, era bravo sul serio: veloce, opportunista sotto porta, ma pure dotato dal punto di vista tecnico. Segnò quattro gol, in Francia. Quello con la Germania, davvero bello, ho scoperto di ricordarlo ancora dopo averlo rivisto su Youtube. Controllo in area, dribbling sul difensore, forse troppi tocchi con il destro. Poi il tiro che batte Köpke — quanto lo odiavo, Köpke — e l’esultanza a braccia aperte e un numero e un nome giganti sulla schiena di una maglia tatuata di disegni aztechi. Bellissimo, era un gol ma sembrava il rovesciamento dell’ordine precostituito. Un’illusione, niente da fare: alla fine, erano gli ottavi, vinsero i tedeschi. Hernández, praticamente, non lo vidi mai più. Mi aspettavo venisse in Europa, magari in Spagna. Per riprenderlo a Fifa, ovviamente, ma anche per vederlo segnare in un contesto meno etereo della Coppa del Mondo. Non arrivò mai, dovetti attendere i Mondiali del 2002, ancora i Mondiali, per ritrovare un contatto con lui. Nel Messico, però, c’era Borgetti titolare: una disdetta. Non ho mai dimenticato Hernández, neanche i messicani ci sono riusciti. Nessuno come lui, soprattutto nel 1997 e nel 1998 (14 gol con la Tricolor in un anno solare). Tutto il resto è stata la mia Playstation. Quindi tanta roba, senza alcun dubbio.

Hugo Sánchez

Ve l’hanno spiegato quel vecchio adagio del saggio che indica la luna e dello stolto che guarda il dito? Ecco: Hugo Sánchez viene principalmente ricordato dagli appassionati di calcio per i cerchi in aria disegnati con le capriole ogni volta che esultava dopo un gol, un omaggio alla sorella ginnasta, eppure (quasi) a tutti sfugge l’essenziale della sua carriera. Sì, proprio i gol. Tanti, tantissimi: col Real Madrid andò a segno la bellezza di 164 volte e si laureò Pichichi per quattro stagioni di fila — né Messi né Cristiano Ronaldo sono riusciti a fare altrettanto, anche se il portoghese ha almeno eguagliato il suo record di reti dal dischetto — meritandosi il (banalissimo!) soprannome di “Hugol”. Ha tentato con minor fortuna la carriera di allenatore, fino alla nomina di ct della nazionale messicana. Lontano dal campo di calcio è un odontotecnico, tanto che una nota marca di dentifrici lo ingaggiò per uno spot televisivo data la sua smisurata popolarità in patria e in Spagna. Leggenda narra che sia stato l’inventore del colpo dello scorpione, mai “brevettato” in partita.

Rafa Marquez

“El Gran Capitan”, questo è Rafa Marquez, uno che difendeva da solo insieme a Puyol in una squadra in cui c’erano Deco, Eto’o, Ronaldinho, Henry, Ibrahimovic, Villa e Messi, possibilmente contemporaneamente. Presente Rafa Marquez? Quello bello come un modello e cattivo come un villain con una solida motivazione, con l’esperienza tatuata addosso già dalla nascita. Dai, oh, Rafa Marquez! Quello che ha esordito in nazionale a 18 e a 20 giocava con quel Monaco splendido che vinse il campionato con Barthez, Sagnol, Riise, Lamouchi, Giuly, Gallardo (!), Marco Simone e Trezeguet. Oh, alieni, ecco, quello. L’avete riconosciuto, no? Ovvio, certo, scusate, non volevo offendere. Ecco, vi do una notizia: probabilmente sarà, prima o poi, sulle banconote da 500 pesos. Di più, voci di corridoio dicono che entro 10 anni gli verrà intitolato il palazzo del governo. Poi un mio amico messicano mi ha detto che il Messico cambierà il suo nome ufficiale in “La nazione un tempo conosciuta come Messico, quella di Rafa Marquez”. Uno così vi è necessario su Alpha Centauri, è chiaro. Tutti d’accordo no? Ok, bene, andata. Grazie!

Guillermo Ochoa

In genere nelle opere di finzione accade che un personaggio dalle qualità assolutamente nella media, anzi con quel tantino di difetto di fiducia in se stesso, si trovi nella condizione straordinaria di elevare le proprie capacità fino al punto da modificare la realtà attorno a lui. In quel tipo di fiction l’artificio viene sfruttato per fare sì che il lettore/spettatore, generalmente un povero stronzo nella media, si immedesimi nel protagonista, e magari ne tragga un briciolo di ispirazione (quel tanto che basta ad infondergli l’entusiasmo necessario a sganciare banconote in cambio della fiction stessa). Quando il ruolo del personaggio di finzione toccò a Guillermo Ochoa, portiere normale dal cuore evidentemente grande, tutto il mondo si girò a guardare. Le sue parate straordinarie nel mondiale brasiliano contro Olanda e padroni di casa non bastarono a regalare al Messico il sogno della qualificazione, ma furono sufficienti a infondergli il coraggio di non rinnovare con l’Ajaccio (suo club all’epoca) e di svincolarsi in attesa di una chiamata eccellente. Quella chiamata si fece attendere per qualche settimana, facendogli trattenere il fiato. D’altronde è nella finzione che l’ascesa del protagonista ex-ordinario si rivela davvero irresistibile. Nella realtà devi sperare che qualcuno dal cuore altrettanto generoso ti trovi simpatico e si faccia vivo. In quel caso fu il Malaga a dargli la chance della vita, ma in due anni Guillermo vide il campo solo una decina di volte. Vai a capire il karma. Oggi vorrei sedermi con Ochoa e chiedergli cosa ha imparato, anzi, cosa esattamente gli ha insegnato il fatto di essere il miglior portiere del mondo solo per un paio di giorni, e poi riabituarsi a poche e relative soddisfazioni. Oltre al fatto di avermi spinto a volergli un bene dell’anima, e ad essere convinto che in realtà, nel suo cuore, può ancora volare come in quella manciata di giorni.

Gerardo Torrado

Quella del 2002 è stata forse la Nazionale Italiana più forte e completa in decenni, con livelli di tecnica, grita e fiato perfettamente distribuiti. Sfortunatamente non si trattava di una squadra che poteva vantare condizioni psicofisiche, di gioco e soprattutto di fiducia che fossero riteute ottimali. Quando il Messico bloccò quell’Italia sull’1 a 1, l’allenatore azzurro Giovanii Trapattoni esaltò in conferenza stampa le qualità di Gerardo Torrado, medianaccio difesivo dal gioco ispido come quel cuoio capelluto che gli era valso il soprannome di Pecora. Il Trap, che di randellatori se ne intendeva, lo definì il centrocampista più completo che avesse visto in molti anni. Che entusiasta, il Trap. Torrado invece, discreto passatore e marcatore incarognito, ha avuto anche le sue oneste chance in Liga, prima di tornare in patria dove giustamente venne riaccolto come ciò che era solo in proporzione: un profeta minimalista della metà campo.

“Chicharito” Hernández

Mi era antipatico, Chicharito Hernández. Faceva la riserva al Real Madrid e al Manchester United, felice di questa condizione. Poi ho avuto modo di scriverne, di conoscerlo. Di colmare la mia ignoranza nei suoi confronti — che poi, generalmente, è sempre e solo l’ignoranza a condurre verso la cattiva considerazione di altri esseri umani. Ho scoperto un calciatore di quelli che piacciono a me, e agli allenatori: moderno, funzionale, uno di quelli che sono attaccanti eppure “si sacrificano per la squadra”. Una frase fatta, che però diventa realistica se fai la punta nella squadra che ha esasperato il concetto — già esasperato di suo — del Gegenpressing. L’altra cosa che ho scoperto, e che mi ha fatto palpitare per Hernández, è questa: è innamorato del gioco, nel senso più semplice del termine. Una volta disse: «Voglio essere un bravo ragazzo, dare una buona immagine di me e lasciare un mio segno nel mondo del calcio». Ci sta riuscendo: per i messicani, secondo cui si è evoluto da wonderkid a monumento assoluto (è praticamente il miglior realizzatore di sempre della Tricolor, gli manca un gol per superare Borgetti). Ci sta riuscendo anche in Europa, dove il percorso assoluto non si è ancora compiuto ma intanto Chicharito ha indovinato la piazza giusta. A Leverkusen, 26 gol nella scorsa stagione. Ma solo 7 in quella in corso. È in flessione, forse è questo (la testa, intesa come continuità) il suo limite. Sì, senza forse: tecnicamente, sarebbe perfetto o quasi. Quantomeno completo: corsa, tecnica, capacità di tiro. Da quando lavora con Schmidt, anche una certa intelligenza tattica. Ha 29 anni da compiere, una storia da ricordare alle spalle e un futuro da scrivere. Difficile non volergli bene, dopotutto.

Ramón Ramírez Ceceña

Giocatore concreto, gioioso, lavoratore e che ha voluto portare il massimo risultato con il minimo sforzo. Un luogo comune latino vivente, in pratica. In patria ha giocato per tutta la carriera, tranne i due anni prima del ritiro dove è volato in America (Trump non era ancora lì a minacciare muri) e probabilmente ha raccolto molto meno di quello che poteva a causa di un infortunio che gli ha tolto mobilità nel comparto tibia e perone, rotti in una partita agli inizi degli anni ’90. Il suo numero 7 è leggendario in Messico, ha giocato per 20 anni da professionista guadagnandosi il rispetto di tutti. Un vero veterano silenzioso.

Manuel Negrete

Uomo Pumas de la UNAM, da sempre e per sempre, tanto da averci esordito e poi giocato altre due volte. Negrete ha vinto il Pallone d’Oro messicano nel 1985, ha giocato in Europa (a Lisbona e Gijon) e ha militato per nove anni nella sua nazionale. Tuttavia, la sua carriera — anzi, la sua figura — è legata a uno storico gol, l’acrobatica, quasi sovrumana sforbiciata contro la Bulgaria nel Mondiale casalingo del 1986. Una rete talmente iconica che c’è voluto Maradona per oscurarla nei ricordi di quella Coppa del Mondo di trent’anni fa.

Cuauhtémoc Blanco

Cuauhtémoc Blanco ha indossato la casacca verde della Nazionale messicana per quasi vent’anni, per un totale di una dozzina di competizioni affrontate e persino un titolo da capocannoniere della Confederations Cup, nel 1999- Seconda punta dal fisico tozzo e dal piede sopraffino, inventore della cuauhtemiña (ovvero quel movimento con cui ti liberi del marcatore saltando con la palla tra i piedi), rigorista implacabile e passatore talvolta immaginifico, grazie alla sua speciale visione del campo, viene giustamente considerato uno dei migliori calciatori che il Messico abbia mai avuto. E allora, quando mi trovai a dover fare lezione a un gruppo di studenti liceali provenienti dalla capitale messicana, presupposi che il solo fatto di pronunziare il suo nome mi avrebbe garantito credito illimitato nei loro confronti. Col cazzo, lo detestarono, reagirono con una serie di suoni gutturali tipici di quando tocchi un tasto della politica di un altro Paese di cui credi di sapere tutto solo perché conosci i nomi dei calciatori. A quanto pare, appesi gli scarpini al chiodo, Blanco è entrato in politica, con il partito socialdemocratico, è diventato sindaco di Cuernavaca ma, al termine di una lunga lotta da parte dell’opposizione, ha subito un processo volto all’impeachment, in quanto non solo lo accusavano di non partecipare alle riunioni comunali e di non prendere direttamente le decisioni amministrative, ma addirittura di non essere nemmeno in grado di provare la sua residenza a Cuernavaca. Forse un giorno avrò il coraggio di informarmi nel dettaglio su cos’altro abbia combinato Cuauhtémoc da politico, lo farò però quando avrò imparato a scindere l’amore per il calciatore dalla potenziale delusione di quando scopri che magari fuori dal campo è, alla peggio, uno stronzo.

Benjamín Galindo

Non si può durare quasi un quarto di secolo sui campi di calcio se non si ha qualche conoscenza in più degli altri: sarà per questo che il soprannome di Galindo è stato El Maestro, che ha smesso di giocare solo a 41 anni. Legato al Guadalajara (con cui ha giocato e che ha allenato), l’ex centrocampista ha disputato un solo Mondiale. Poco per chi ha militato 14 anni con la nazionale messicana e ha giocato 700 partite in Liga MX. Oggi vive in panchina e ha da poco lasciato un esperimento calcistico alquanto bislacco: il Corinthians FC of San Antonio. San Antonio, Texas.

Carlos Salcido

Forse uno degli eroi meno celebrati del calcio messicano, perché i suoi pregi rappresentavano difetti mediatici: poco appariscente, duttile, silenzioso. Tre Mondiali disputati, un esordio tardivo in nazionale (a soli 24 anni), ma soprattutto una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Londra in veste di veterano. Nonostante una lunga e importante parentesi al PSV di Eindhoven, uno dei leitmotiv della sua carriera è stato l’amore dei tifosi del Guadalajara, con cui ha aperto e probabilmente chiuderà la sua carriera.

Jared Borgetti

C’è un momento, nella vita di un ragazzino alle prime esperienze con le giovanili della squadra del suo paese/città, in cui si riceve un segnale, un segno del destino. È quello che ti dà la spinta per continuare a rincorrere il pallone con più grinta, con più rabbia, con più determinazione. Perché in quel pallone, cominci a vederci il tuo futuro, la gloria che porta anche il tuo nome. Per Jared Francisco Borgetti Echavarría il futuro diventa chiarissimo ad un certo punto, in modo inatteso. Un tecnico alle prime armi ma già rispettato come un veterano, ha selezionato il suo nome dopo aver analizzato undicimila profili di giovani promesse del calcio mondiale. Quel tecnico è stato chiamato ad allenare l’Atlas di Guadalajara. Ma il suo progetto comprende la ristrutturazione di tutto il mondo che ruota attorno alla squadra, a partire dai giovanissimi, per finire alla prima squadra. Jared, quindi viene acquistato per una manciata di pesos, per esplicita richiesta di quel giovane ed eccentrico allenatore. 21 reti in 63 partite, nei primi tre anni da professionista gli valgono la chiamata del Santos Laguna. I biancoverdi rappresentano ben tre città: Torreón, Gómez Palacio e Lerdo che assieme formano la Comarca Lagunera. In Messico, come in tutta l’America Latina, il calcio viene vissuto in maniera viscerale, fa parte del DNA delle città, è legato alla vita di ogni singolo abitante. Giocare per una qualsiasi squadra significa onorare la camisèta, onorare la ghente y la ciudad. Giocare per una squadra che di città ne rappresenti contemporaneamente tre, in Messico, non è esattamente una cosa semplice. Ma Jared è un predestinato, è stato scelto tra undicimila profili analizzati accuratamente, anche se è troppo alto e troppo magro. Dal 1996 al 2004, segna 189 goal in 295 partite, contribuendo letteralmente all’ingresso del Santos Laguna nella storia del calcio messicano. Diventa indiscutibilmente, el nueve de la trì, il rapace d’area della nazionale messicana. Ancora oggi, detiene il record di goal segnati con la maglia della tricolòr. Per noi italiani, Borgetti è l’italo-messicano che segnò a Buffon di testa, in avvitamento, da posizione impossibile, all’assurdo Mondiale del 2002, in Corea del Sud. Ah, dimenticavo. L’allenatore che lo selezionò, nel 1995, tra undicimila profili analizzati, era un tale Marcelo “El Loco” Bielsa.

Jorge Campos

Sono nato nel 1984 e fino ai 22 anni facevo il portiere controvoglia: quando giocavo seriamente avevo i guanti e lasciavo pezzi di pelle sui campi in pozzolana ma quando giocavo con gli amici i guanti sparivano e facevo tanti gol. E’ necessario altro per spiegare quanto Jorge Campos abbia cambiato la mia vita? E non solo la mia, ha cambiato la vita di tutti i portieri del mondo, noi, quelli coi guanti e i pantaloncini imbottiti, che andavamo a cercarci le magliette più strane nei negozi di sport e se non c’erano con le maniche lunghe non ci interessava, purchè fossero colorate. Jorge Campos è stato il capocannoniere della sua squadra da portiere: un tempo tra i pali, la squadra in difficoltà, entrava il secondo portiere al posto di un giocatore di movimento e lui se ne andava in attacco. Quell’anno fece 17 gol. Tutto bellissimo finchè la storia dell’“arquero” non incontrò quella del pessimo, brutto e cattivo Joseph Blatter. Lo svizzero andò contro il regolamento del fùtbol e ammonì i messicani al mondiale del ’94: Campos può giocare solo in porta. Perché? Perché lo dice Blatter, punto. Ma la sua sete di sangue non si ferma qui perchè al mondiale del ’98 impedisce al nostro Jorge persino di utilizzare le sue maglie colorate. E allora Joseph, fai una cosa: prendi una mazza da baseball, vai allo zoo, trova un cucciolo di foca e picchialo a sangue, no? Tanto hai fatto 30…

Luìs Garcia Postigo

Se andate a sfogliare gli almanacchi del calcio spagnolo v’imbatterete in una miriade di Luis García. In Messico no: ce n’è stato uno soltanto ed è considerato tra i migliori centravanti di discendenza azteca. Diploma in ragioneria e laurea mai conseguita in economia e commercio, sapeva effettivamente parlare con i numeri — quelli dei suoi gol, principalmente: alla prima stagione in Europa con la maglia dell’Atlético Madrid ne totalizzò ben 17 in 29 gare. Nessun altro messicano, neppure la leggenda Hugo Sánchez, aveva saputo fare meglio al debutto in Liga. In nazionale García toccò l’apice con la doppietta all’Irlanda agli umidissimi Mondiali di Usa 94 e con il titolo di capocannoniere alla Copa América l’anno seguente: sarà pure stato uno scricciolo di un metro e settanta, ma aveva un destro poderoso e vedeva benissimo la porta. E pensare che fino a 17 anni si dilettava come portiere, ma avrebbe presto scoperto che in attacco ci si divertiva di più. Continua imperterrito a estasiare i calciofili messicani commentando le partite (reali) per Tv Azteca e (virtuali) per la versione di Pro Evolution Soccer destinata al mercato latinoamericano.

Pável Pardo

El comandante o el jefe; questi sono i soprannomi che Pável Pardo si è guadagnato allo Stoccarda, dove è stato uno dei leader nonché, a 32 anni, uno dei giocatori più anziani in rosa. Ma dove, soprattutto, il centrocampista messicano classe ’76 ha vinto una storica Bundesliga, durante la stagione 2006/07. Il campionato conquistato in Germania, dove Pardo è approdato dopo il Mondiale 2006 assieme al connazionale Ricardo Osorio, è sicuramente un remarkable achievement, ma pensare alla carriera di questo giocatore e guardare solo a questo alloro sarebbe un errore figlio di una lettura della storia limitante ed eurocentrica.

Pardo è secondo nella classifica dei giocatori con più caps con la maglia della nazionale messicana (148, secondo solo a Claudio Suárez) ed è stato una leggenda del Club América, dove ha giocato un totale di dieci stagioni, sette prima dell’esperienza in Germania, tre dopo il suo ritorno. È stato un perno del centrocampo del Messico prima e dopo l’esperienza di La Volpe sulla panchina de El Tri, e in seguito ha sempre rivolto molti elogi all’allenatore argentino. Ma soprattutto, Pardo è uno di quei giocatori che ha saputo farsi apprezzare anche invecchiando, continuando a migliorare e ad essere determinante, sfruttando le proprie capacità di lettura del gioco, l’esperienza, la saggezza tipica dei leader, e quella professionalità e dedizione che l’hanno sempre contraddistinto. Ha chiuso i conti andando a insegnare un po’ di calcio in MLS, ai Chicago Fire, e conta anche una presenza su Tripadvisor, in questa foto scattata al ristorante Il Ponte Vecchio, a Sunny Isles Beach, in Florida.

Ricardo Osorio Mendoza

Osorio viene da un’altra epoca, anche se giocava fino all’anno scorso. Innanzitutto, Osorio era un terzino marcatore come ormai non se ne vedono più perché il calcio richiede un terzino di spinta alla Facchetti (paradossale), mentre Osorio è uno di quei vecchi terzini arcigni bravissimi a difendere ed in grado di giocare ovunque in difesa. Poi perché viene da un’epoca stranissima, il primo decennio del 2000 dove rispetto ad oggi sembra passato tanto tempo anche se non ci è passato. Per tanti 20enni la Bundensliga vinta da Osorio con quello Stoccarda magico di Mario Gomez e Cacau, aveva Gekas capocannoniere, un Borussia M’gladbach retrocesso, un Bayern che stentava e per moltissimi la Bundes di quel periodo aveva la meravigliosa voce di Ettore Grassi perché si tornava da scuola, si accendeva Studio Sport per poi vedere Dragon Ball e ci si godeva quel campionato che sembrava buono, ma non troppo.

È cambiato tutto, ma Osorio l’anno scorso giocava ancora, nel campionato che più se l’è goduto, quello Messicano ovviamente. La Volpe lo teneva in una considerazione notevole, Armin Veh lo adorava, come tutti gli allenatori che lo hanno avuto. Osorio capiva il calcio.

Enrique Borja

Enrique Borja Garcia era un opportunista dentro l’area di rigore ed era il classico delantero poco raffinato ma abile a risolvere il gioco. La sua attitudine verso il gol lo ha portato a diventare il sesto marcatore messicano di sempre, e la sua carriera divisa tra America e Pumas, ad assurgere al ruolo di idolo del calcio messicano in generale. Sembrava che la sua presenza nella formazione di partenza della selezione azteca in Coppa del Mondo del 1970 fosse in dubbio, e invece no. Il solito destino di chi sa solo buttarla dentro, ma sa farlo bene.

Con grande senso del tempo e della distanza nella zona, mente rapida e quel senso innato dell’olfatto posseduta dai grandi marcatori, veniva non a caso chiamato il “Cyrano dell’Impossibile”, per il sua grande naso e l’improbabilità di molti dei suoi obiettivi. Può essere considerato il giocatore che ha preso il testimone da Horacio Casarin come attaccante messicano più importante, e chi lo ha visto giocare sa cosa ha significato il suo nome per il popolo pallonaro del Messico.

Giovani Dos Santos

Sogni. Tutta la notte, tutte le notti. Sogni forte quando tuo padre — Gerardo dos Santos — viene a rimboccarti le coperte e a raccontarti le storie per farti addormentare. I sogni che fai sono anche più belli e fantasiosi quando papà Gerardo, la notte prima, viene a raccontare le sue storie di calcio vissuto negli anni 80, in giro per i campi mitologici del Brasile pre-Joga Bonito. Quando suona la sveglia sul comodino e gli occhi si aprono lentamente, senti ancora chiaro il sapore dei sogni che riesci ancora ad assaporare. Ma sei sveglio e la realtà chiede di essere vissuta, tanto quanto il sogno. Sei nato a Monterrey ma ora sei a Barcellona, sei un Canterano del Barça, sei Giovani Alex dos Santos Ramírez e sei uno dei talenti più attesi d’Europa e del mondo. Al campo d’allenamento, ti aspetta Frank Rijkaard, con lui le cose vanno come devono andare, come sono già accadute nei sogni che ogni notte continui a fare. Sei stato protagonista con la Cantera, hai esordito in prima squadra e in Champions League, hai realizzato i primi goal da professionista, qualcuno anche pesante. Sono i primi anni 2000, il Sole splende alto nel cielo della Catalunya. Però, sei giovane. Troppo per riuscire a dribblare gli ostacoli che la vita ti oppone. Il talento ti sta portando lontano dalla confort zone che è la tua famiglia, la tua terra, papá Gerardo con le sue storie e, la sera, ti senti maledettamente solo se l’allenatore ti lascia per troppo tempo sul banquillo. Allora cambi aria, vai in Inghilterra — Tottenham e Ipswich Town –, poi in Turchia al Galatas, prima di far ritorno al Tottenham che, proprio non si riesce a fidare di te. La verità è che non ti capisce, ti ha lasciato troppo solo. Allora, hai cominciato ad arrivare sempre più tardi agli allenamenti, sei sempre più svogliato del giorno prima, qualcuno comincia a dirti che stai mettendo su anche qualche chilo di troppo. Pensi che, forse, sia arrivato il momento di cambiare aria, che magari sia il caso di rientrare in Spagna, dove tutto stava andando per il verso giusto. Mallorca, Villareal: 24 reti in 102 partite. Stringi la testa tra le mani, non riesci proprio a capire cosa sia successo, dove sia finito il tuo talento, quello che tutti riconoscevano e per il quale ti paragonavano a Ronaldinho che, tra l’altro, era tuo compagno di squadra nella stagione 2007/2008 e che è ancora un tuo buon amico. Capisci che la verità è che ti senti solo e per combattere la solitudine il tuo talento non può aiutarti. Così parti ancora, questa volta per avvicinarti a casa, lì dove il calcio sta nascendo e dove ti idolatrano anche solo per un pallonetto sul portiere in uscita avventata. Los Angeles, «a jugar para el Galaxy y para el Mexico. Mi casa.». Non a caso, con la Trì, fa parte della Nueva Generacion Dorada Mexicana.

Jonathan dos Santos

Vaglielo a spiegare che ti non sei Giovani dos Santos, che tu sei Jonathan, il fratello piccolo e che a te nessuno aveva mai appiccicato un post-it in fronte con scritto “Il Nuovo Messi”. Vagli a spiegare che tu non parti largo per accentrarti come tuo fratello ma che preferisci essere piedi e fosforo al centro del campo, ami sguizzare tra due incontristi e provare l’assist. Ormai fare di cognome “dos Santos” è una condanna, tanto è stato grande il fallimento di Giovani. Però Jonathan, tu tutto sommato hai solo 27 anni da compiere e al momento giochi in una delle squadre più belle della Liga, in un centrocampo solido eppure fantasioso. Tu adesso sei in una squadra vera, il Villarreal con un grande progetto, la squadra che sembrava aver preso gli scarti di mezzo mondo e invece è li, a ricostruire una nuova leggenda gialla. Te lo chiedo sinceramente, Jonny (posso chiamarti Jonny?): dimentica tuo fratello, dimentica di chiamarti “dos Santos” e dimentica pure di essere uscito da quella maledetta Cantera. Farai un po’ di fatica in più ma sei ancora in tempo per cambiare la storia del tuo cognome.

Nery Castillo

Sembra strano piazzare in una formazione messicana di tutti i tempi uno che ha giocato appena 21 partite e segnato 4 gol in Nazionale. Uno che ha smesso di giocare a trent’anni, dopo una triste stagione a Vallecas con il Rayo. Ma Nery Castillo è qui per quello che avrebbe potuto rappresentare per il calcio del Tri: era stato preso dall’Olympiacos in giovane età, partendo per Donetsk dopo un’offerta-monstre da 20 milioni di euro. L’apice, per quanto breve, arriva nel 2007: è la sua estate. Dallo Shakhtar passa al Manchester City e nella Copa América fa vedere cose egregie, tra cui vari estratti dei numeri da ala pungente e implacabile, e dagli acuti impressionanti, che avrebbe potuto rappresentare per il calcio americano. Anche a causa della morte dei genitori e di una profonda depressione, Castillo non si ripeterà più a quei livelli. Un big if.

Hector Herrera

In tutto il Sud America, Messico compreso, parafrasando il più grande di tutti, il sogno più bello è “jugar e ganar el Mundiàl”. Sarà per il suo stare a due passi dal confine con gli States, sarà per il fatto di sorgere lì dove le correnti del Golfo si incrociano dando vita ad onde perfette, ma il calcio sembra essere meno importante di quanto lo sia in tutte le terre emerse, da lì fino alla Terra del Fuoco. Héctor Miguel Herrera López nasce proprio qui, tra surfisti e pescatori sportivi, tra turisti e viandanti alla ricerca di se stessi. Sulla spiaggia, Hector ci arriva percorrendo il breve rettilineo che separa la casa della sua famiglia dall’Oceano Pacifico. Lì, però, quello che gli fa compagnia, nelle lunghe giornate delle estati interminabili, è il pallone. Il pallone e basta. Molti credono che sia un predestinato, ma il giudizio, si sa, lo può dare solo il campo. Precisamente, per lui, il campo è quello del Pachuca. Però, l’epicità del calcio sudamericano sta proprio nelle storie turbolente e travagliate dal quale emergono i campioni, come fiori cresciuti in un deserto arido. Si dà il caso che al Pachuca hanno un motto: ”Antes de convertirse en un jugador profesional, el canterano debe aprender a sufrir. Debe aprender a moverse, él debe ganar experiencia”, letteralmente “Prima di diventare un calciatore vero, il canterano deve imparare a soffrire. Deve imparare a girovagare, deve farsi le ossa”. E così sia. Hector va in terza divisione al Venados de la Magdalena Conteraras, prima, all’Arroceros de Cuautla, poi. Successivamente sale di categoria, en la secunda, al Tampico Madero. Quando rientra al Pachuca, sembra che la sua carriera stia per finire lì dove sarebbe dovuta cominciare. Fino a quando, nel 2011, sulla panchina del Pachuca non si siede Efrain Flores.
Efran è quello che ha proseguito il lavoro del “loco” Bielsa, sulla panchina dell’Atlas, dal ’94 al ’97, uno che in Messico viene ringraziato ancora oggi per aver creduto in giocatori che stavano per sprofondare nel dimenticatoio delle divisiòn mexicane. Proprio come Hector Herrera. Al Pachuca cominciano a chiamarlo “El Zorrillo” — la puzzola — per via del suo modo di gesticolare simile a quello di Germàn Valdez nel film “La Marca Del Zorrillo”, popolare film messicano degli anni cinquanta. Ci metterà poco a farsi chiamare “El Zorro”, la volpe. Per uno che fa indiscutibilmente parte della Nueva Generaciòn Dorada Mexicana, è un soprannome alquanto esplicativo, direi.

Antonio Carbajal

Cinque Mondiali sono 16 anni: epoche diverse, specie quando giochi a cavallo tra gli anni ’50 e ’70. Due le cose fisse in Messico in quegli anni: il regime praticamente monopartitico del Partido Revolucionario Institucional (al potere dal 1929 al 2000) ed El Tota Antonio Carbajal Rodriguez a difendere i pali del Messico. Aveva iniziato con il Club España, prima che questo scendesse in terza divisione e lui passasse al Club León. Ma soprattutto Antonio Carbajal è El Cinco Copas, l’unico che a lungo ha giocato cinque Mondiali (da Brasile ’50 a Inghilterra ’66). Raggiunto da Lothar Matthäus nel ’98, sentiremo parlare nuovamente del messicano se e quando Buffon giocasse al prossimo Mondiale, visto che sarebbe il sesto e batterebbe il record di Carbajal. E pensare che avrebbe potuto aggiungere diverse Champions, se non avesse rifiutato la corte del Real Madrid negli anni ’50…

Claudio Suárez

Attraversare quattro decenni con le stesse caratteristiche dai 20 ai 40 anni: leadership difensiva, faccia scafata di chi ne ha viste tante e carattere d’acciaio. Claudio Suárez non a caso venne soprannominato El Emperador: non ha vinto tanto, ma ha guidato la nazionale da capitano in tre Mondiali, ha vinto tre Gold Cup e soprattutto ha collezionato 177 presenze con il Messico. A oggi, solo Ahmed e Hossam Hassan con l’Egitto ne hanno raccolte di più (184 e 178). Il recente ingresso nella Hall of Fame del calcio messicano è un passaggio dovuto: un giorno Suárez sogna di allenare la nazionale, ma la sua immagine più rappresentativa è la Confederations Cup alzata nel ’99.

Carlos Vela

Nel 2005 è l’alba di una nuova era per il calcio messicano: la nazionale u17 vince il Mondiale di categoria e il mondo scopre un gruppo ricco di talento pronto a crescere per portare dove merita una nazionale troppo spesso incompiuta. La stella e capocannoniere del torneo è l’attaccante Carlos Vela che si guadagna un ingaggio con l’Arsenal. Nel 2012 la nuova generazione messicana riesce a portare a casa il primo successo internazionale vincendo l’Olimpiade di Londra. In attacco viene chiamato però un fuoriquota perché Carlos Vela rifiuta la convocazione, l’Arsenal accetta la sua cessione definitiva in Spagna. Nel 2013 la Real Sociedad raggiunge una storica qualificazione in Champions League, è una squadra ricca di talento con giocatori come Griezmann e Xabi Prieto, la stella della squadra è però Carlos Vela che chiude con 14 gol e 11 assist. È veloce di testa e di gambe, tecnico e vede la porta. Vela è esploso e ha tutto per prendersi finalmente il grande calcio. Nel 2016 Griezmann trascina l’Atletico Madrid in Finale di Champions League ed è tra i migliori attaccanti del mondo, Carlos Vela chiude un’anonima quinta stagione nella Real Sociedad con 5 gol e 4 assist. Non so se sia il carattere bizzoso, il non aver saputo superare la delusione del fallimento con l’Arsenal, l’aver subito troppo presto le aspettative di una nazione intera, o se semplicemente a Vela non interessasse misurarsi con i più forti. Quando però è stato il momento di fare il salto di qualità lui si è volontariamente boicottato. Il Messico è una storia di occasioni sprecate e del calcio messicano Carlos Vela è stato la più grande di tutte.

Andres Guardado

Il Piccolo Principe di Guadalajara” è tutto e niente. Arrivò in Europa salendo a bordo di quella che sembrava la più bella favola di quel periodo, il Super Depor reduce da vittorie e cavalcate in Champions, e ci si aspettava faville da lui e dai biancoblu. La realtà fu’ molto più drammatica, i galiziani non solo non ripeterono l’exploit ma retrocessero. Guardado, all’epoca, era un’ala tutta tecnica e velocità, un treno da prime 10 squadre del mondo. Dopo un anno in Segunda Liga, se non altro per rispetto, arrivò il suo momento: Andres, puoi andare. Chelsea? Il nuovo City degli arabi? La Juve che iniziava il suo percorso d’oro? Sceglie il Valencia del post — Emery, reduci da un terzo posto e con davanti un futuro luminoso affidato a Mauricio Pellegrino, centrale di difesa dei pipistrelli fino a qualche anno prima. Ma non decolla, Pellegrino viene cacciato a dicembre e il massimo che si riesce a fare è un quinto posto. Peggio ancora l’anno successivo dove il Valencia è protagonista di un disastro sportivo. A dicembre Andres se ne va in prestito a Leverkusen. Le cose filano lisce, c’è un diritto di riscatto, la squadra arriva quarta ma Guardado viene rimandato a Valencia. Eppure è un signor giocatore, macina quella fascia come un pazzo, salta l’uomo, crossa bene. Niente, torna a Valencia e li Esprito Santo lo manda al PSV prima in prestito e poi definitivo per un pugno di noccioline. Campionato olandese. La Serie B d’europa, in un certo senso. Guardado oggi ha 30 anni, ha vinto due Eredivisie e sta considerando ogni giorno di tornarsene nelle americhe dove la Major League lo tenta. Non ha giocato con piccole squadre ma neanche con grandissime squadre. Titolare ovunque ma mai incedibile. Ha vinto qualcosa ma niente di importante. Tutto e niente. Magari in un altra vita, Andres.

Alberto Garcia Aspe

Centrocampista modesto, ma tuttofare e con il vizio del gol (ne ha segnati un centinaio abbondante in carriera), è uno dei giocatori con il più alto numero di presenze con la nazionale messicana (109) e un idolo del calcio messicano, avendo giocato con le maglie di Pumas, Necaxa, America e Puebla.

Horacio Casarìn

Horacio Casarìn è stato il primo grande mito del calcio messicano, in un periodo in cui non c’era neanche la televisione e diventavi un idolo per quelli che ti vedevano allo stadio o, per tutti gli altri, attraverso le cronache della radio. Casarìn fu anche un simbolo, un uomo serio, razionale e modesto legato alla famiglia, in cui tutto il popolo messicano volle e seppe rispecchiarsi. Per il resto sono in pochi oggi a poter dire di averlo visto giocare, ma la cifra di più di 300 reti segnate in carriera e un paio di stagioni al Barcellona in mezzo a una lunghissima carriera tutta messicana, testimoniano il valore del calciatore, qualora non bastasse la devozione quasi religiosa che la sua terra calcistica nutre ancora nei confronti del suo ricordo.

Carlos Hermosillo

A circa 13 anni, di ritorno dal borghesissimo Centro Federale Estivo di Serramazzoni, intuii le potenzialità della comunicazione via e-mail. Niente più lettere o cartoline agli amici del mare (scusami, Enrico Brizzi, davvero), niente più interurbane da fisso a fisso, niente più (sacrosanti) rimproveri genitoriali, benché mi guardassi bene dallo spauracchio del 144. Niente più amarezze, soprattutto: se avevi un animo gentile, il progressivo affievolirsi di quei contatti era — sempre — un colpo al cuore. Optai per un dominio.it dal nome accattivante, deciso a crearmi un indirizzo di tutto rispetto. Dopo vari tentativi, tutti insoddisfacenti e troppo sofisticati (p.es. “Oscar Tramor”, l’antico alter ego di Manu Chao, o “Thelamonius”, contemporaneo tributo a Monk e al mio eroe preferito), mi trovai spalle al muro. Così, d’istinto, mi rifugiai nel pallone, e scrissi: “hermosillo” (password: “savicevic”, a dirla tutta). Salvai le credenziali, e mi sentii un po’ più adulto.

Fino al 2012, anno di nuovi pseudonimi, sono stato per tutti hermosillo@undominiodalnomeaccattivante.it. Ciò significa che per tre lustri, nell’interregno cronologico in cui la dipendenza calcistica doveva ancora conoscere le nuove politiche di tolleranza, mi sono trovato costretto a giustificare questa scelta in molti modi. Tre i casi più eclatanti: 1) un mio amico, notoriamente sagace, rispose ad un mia mail di saluto deridendomi, perché avevo tutta l’aria di darmi delle arie ricorrendo a vezzeggiativi in spagnolo: “tutto bene”, mi disse, “ma quanta vanità!”; 2) il Professore di Latino con cui mi laureai sostenne, per circa un mese, che a seguito dell’incontro in cui avevamo concordato la tesi non gli avessi più scritto. Dunque, al primo ricevimento utile, tornai nel suo studio, portando con me copia delle mail. Il motivo per cui uscii comunque a testa bassa, fu che al suo prorompente “AAAAAAH! MA ALLORA TU SEI HERMOSILLO!!!” erano presenti diversi suoi colleghi, luminari dell’Ottocento attaccati al rigore tedesco: su tutti Mariotti Italo, fratello del più celebre Scevola; 3) alla fine rinnegai me stesso, e iniziai a bluffare. Mi venne in mente di vendere in giro la leggenda (debole, e mal studiata) secondo cui, in realtà, mi ispiravo alla cittadina di Hermosillo, per cui nutrivo un debole da sempre. Hermosillo: cioè quelli che mentre il Messico si ribellava, giuravano fedeltà alla madrepatria. Potevo, senz’altro, gestirmela meglio.

Non so ancora come successe, né perché: direi — quasi vent’anni dopo — che quel nickname fu l’ennesima scoria del mondiale americano, in cui mi appassionai a una certa punta messicana con il 7. Ammetto: più delle sue giocate, che ho rivissuto consciamente solo a posteriori e grazie all’orribile Kick Off ’98, mi piacque il suo nome. Ora hermosillo non esiste più, ma ogni tanto, tra una cosa e l’altra, mi viene in mente che potrei farlo resuscitare. Dicendo, finalmente, le cose come stanno.

La Linea Difensiva della Terra, in questo episodio, è stata composta da Simone Vacatello, Gabriele Anello, Alfonso Fasano, Valerio Savaiano, Saverio Nappo, Leonardo Ciccarelli, Simone Pierotti, Daniele Morrone, Elena Chiara Mitrani, Alessandro Fabi.

La copertina è di Fabio Imperiale.

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