Per conquistare quello scherzo di terra che il loro cuore doveva coltivare

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
Published in
130 min readNov 15, 2016

Copertina di Fabio Imperiale

Come la difenderesti casa tua da un attacco alieno? Come fai a essere sicuro che non sfrutteresti quei raggi deatomizzanti per limare qua e là quelle che hai sempre pensato fossero le imperfezioni nella sua concezione architettonica, foss’anche del solo arredamento?

Non avendo mai avuto le risposte, quando gli invasori di Proxima Centauri ci chiesero di difendere lo Stivale dei Santi, Poeti e Navigatori, ci trovammo con il collo immerso nell’imbarazzo tipico di chi non vuole fare il patriottico solo davanti al pallone, ma che poi comunque finisce per farlo.

Allora decidemmo di farlo con lo stile che ci contraddistingueva, quello degli spocchiosi e saccenti, quello di chi te la fa pesare anche se sei tu l’alieno col nullificatore in mano, brutto come i sensi di colpa. Così gli sarebbe passata la voglia di associarci alla retorica nazional popolare.

Episodio 5 — Gli italiani

Demetrio ALBERTINI

Era soprannominato il “metronomo”, colui che detta il tempo alla squadra, per via del suo incessante lavoro nel ricevere il pallone arrivato dalla linea difensiva e farlo arrivare a quella offensiva con i tempi giusti. Un lavoro silenzioso che ha portato al successo il più grande Milan della storia e due volte ad un passo dalla gloria la Nazionale. Ma io ritengo che Albertini non avesse bisogno di un soprannome, già il suo nome diceva tutto: “Di Demetra”, dea nutrice dell’agricoltura. Già dal nome si poteva intuirne il futuro in campo, perché Demetrio ha dedicato la sua carriera a rendere gloria alla sua Dea protettrice nutrendo il proprio raccolto, quello che su di un campo di calcio chiamiamo gioco. Prendere i semi arrivati dalla linea difensiva, pulirli, seminarli e farli sbocciare in quella offensiva con il passaggio preciso in tempi ed esecuzione. Vedendo le sue partite si può comprendere il lavoro di attenzione maniacale che riservava al proprio raccolto, quanto la devozione alla sua protettrice fosse la sua raison d’être. Sapendo bene che per avere un bel raccolto ci vuole tempo lui si impegnava con calma nel fare al meglio il suo lavoro: nell’avere un controllo sempre preciso e tipologie di passaggio diverse a seconda del compagno da servire.

Enrico ALBERTOSI

Più spericolato di Zoff e meno matto di Sepp Maier, ma solo se pensate che Steven Seagal sia uno tranquillo, Ricky Albertosi è stato uno dei più grandi portieri italiani sia per qualità tecniche che per risultati sportivi. Lui e Zoff hanno inventato il dualismo tra numeri 1 in Nazionale in netto anticipo su Benji Price e Ed Warner. Mascella volitiva e temperamento da guardaboschi delle saghe nordiche, Albertosi ha avuto una carriera lunga che lo ha portato a coprire praticamente tutti i momenti storici del calcio italiano a cavallo tra gli anni ’60 e gli ’80. Dieci anni alla Fiorentina di cui cinque da riserva di Sarti, che poi andò all’Inter a iniziare la formazione più filastroccata di tutti i tempi e gli permise di esprimersi ai massimi livelli, sei anni al Cagliari dove, oltre a vincere lo storico Scudetto con Riva e co., vive da protagonista la partita del secolo contro la Germania e ancora prima vince gli unici Europei che l’Italia abbia vinto finora. Per non farsi mancare niente, si concede altri sei anni al Milan, dove vince lo Scudetto della Stella e infine viene squalificato nell’ambito dello scandalo calcioscommesse. Perché it’s better to burn out than to fade away.

Alessandro ALTOBELLI

Spillo, secco, longilineo, scattante, scattoso, pungente, efficace, quando veniva estratto, la parte colpita rimaneva dolorante. Scuola italiana attaccanti anni ’80, prototipo classico, ma con un savoir faire centroitalico a vivacizzare la più impettita maglia nerazzurra.

Amedeo AMADEI

Amedeo non ha ancora quindici anni e va in bicicletta tutti i giorni per consegnare il pane del forno di famiglia, a Frascati. Un giorno però quella bicicletta compie una deviazione inaspettata, va più lontano di quanto fosse mai andata e lo porta in città, quella grande, la Capitale.

Il ragazzino vuole giocare a pallone, vuole farlo nella squadra del suo cuore e supera il provino decisivo. Gioca da attaccante, sa fare sia la punta che l’ala, la sua furia agonistica e la sua fame di gol lo portano a esordire in Serie A a 15 anni e 9 mesi, record di voglia di giocare tra i grandi, uguagliato solo da Pietro Pellegri nel dicembre 2016.

Di lì a sei anni la prescia darà i suoi frutti e farà di lui il condottiero della prima Roma tricolore della storia, un titolo festeggiato molto in sordina, per via della guerra in corso. Il premio per la vittoria sarà di quindicimila lire, cifra esorbitante che Amedeo, una volta a casa, lancia in aria per vedere se poi torna davvero giù.

In quegli anni saranno memorabili le sue sfide con i ragazzi del Grande Torino, avversari in campo, compagni in Nazionale. Amedeo sarà l’ultimo a vincere un campionato prima del grande ciclo di cinque scudetti granata.

Quando una Roma in gravi difficoltà economiche lo cederà all’Inter, qualche anno più tardi, farà richiesta esplicita di non essere schierato contro la sua ex squadra. Nel ’52 poi segna da azzurro il gol del pareggio in un epico Italia-Inghilterra, e il gesto gli vale l’elezione, a furor di popolo, a consigliere comunale in Campidoglio.

E questo è tutto ciò che c’è da dire su Amedeo Amadei, a parte il fatto che da giovane somigliava vagamente a mio nonno, altro grande romanista. Anche il tono delle loro voci era molto simile e di conseguenza, anche se a posteriori, gli ho sempre voluto più bene di quanto sarebbe stato comprensibile volergliene.

Pietro ANASTASI

Petruzzo, da Catania a Varese e poi a Torino, a metà degli anni ’60. Figlio del Sud emigrato in direzione delle Alpi, ma con speranze nettamente più solide di una valigia di cartone. Petruzzo lo avrebbero chiamato il Pelè Bianco, non tanto per la tecnica o la classe — il suo palleggio infatti era peculiare e poco ortodosso -, ma per la velocità e l’inventiva nel fare gol. Era mobile, Anastasi, imprevedibile, provava ad anticipare il pallone. Anastasi è stato il prototipo dell’attaccante che si spendeva tanto per il resto della squadra. Paradossale che il suo istinto così prepotente nel dominarne i movimenti lo portasse a essere così generoso con i compagni. Stupiva tutti perché lo vedevano centravanti, ma centravanti ci ha giocato poco, Petruzzo era uomo d’area, e come tale sorprese il pubblico, lo spiazzò. Sarà stato anche il suo giocare insieme a Bettega, che era il suo esatto contrario. Lui siculo, tozzo e con pochi fronzoli, l’altro torinese, slanciato e austero, in effetti a guardarli insieme sembrava di assistere all’antenato di un episodio pilota di Miami Vice.

Carlo ANCELOTTI

Corri Carletto, corri. Centrocampista tuttofare, tuttocampo, tuttocuore. Tanto silenzioso in campo quanto roboante nel macinare gioco. Polmoni e gambe della Roma scudettata e tuttavia sfortunata di Liedholm e in seguito vecchio saggio dal pensiero e dall’intervento ordinato nel Milan folle di Sacchi. Il filo conduttore che dà continuità al prima e al dopo della sua esperienza calcistica, l’ingrediente extra di tutta questa sapiente quantità è il suo gol al Real Madrid in Coppa dei Campioni, in maglia rossonera. Un bolide silente che guardava lontano. Nel tiro di Carletto, infatti, c’era tutta la potenza di un avvertimento, come una traiettoria pronta a disegnare il suo futuro da allenatore di soli campioni, e protagonista di soli successi.

Giancarlo ANTOGNONI

L’Unico Dieci. O almeno, il più sfortunato di sempre. Rischiò di lasciarci le penne, in quel 22 novembre 1981, quando il portiere del Genoa Martina quasi lo uccise, travolgendolo suo malgrado in un’uscita disperata e colpendolo in testa. Un impatto tremendo, che ferma il cuore del capitano della Fiorentina per 25 secondi, finché il pronto intervento del massaggiatore Raveggi e il massaggio cardiaco del medico genoano Gatto lo convincono a battere ancora. Dopo una lunga degenza “Antonio” rientra, con la squadra ancora in corsa per lo scudetto, scudetto che però svanisce all’ultima giornata, con la Fiorentina fermata sullo 0–0 a Cagliari con un gol annullato a Graziani e la Juventus vincente “di rigore” a Catanzaro.

Poco tempo dopo ci pensa il polacco Matysik, che lo stende nella semifinale mundial vinta dagli azzurri. E così mentre Tardelli urla in campo, lui è zoppo in tribuna stampa. Antognoni è campione del mondo senza aver giocato la finale. E pure senza aver mai timbrato il cartellino, dato che gli viene annullata una rete regolare nel mitico 3–2 contro il Brasile, quella che avrebbe chiuso anticipatamente i conti. E quando il doriano Pellegrini gli ruppe tibia e perone nel febbraio ‘84? La viola, imbattuta da tre mesi, alla prima senza Antognoni in campo cade a Udine e chiude al terzo posto, dopo un girone di ritorno tribolato. Il capitano rientra dopo 21 mesi, e la saudade di Socrates non ha colmato la sua assenza. E la lista sarebbe ancora lunga.

Eppure, nonostante queste sue sfortune, spettabili signori alieni, si parla di uno dei più forti 10 italiani di sempre. Era “il ragazzo che gioca guardando le stelle”, verso casa vostra, perché con il pallone tra i piedi teneva sempre a testa alta, guardando i compagni per confezionar loro assist fatati. O più prosaicamente, era “ENEL”, perché quando toccava il pallone si accendeva la luce in campo. O più retoricamente, era il “David di Michelangelo che gioca a pallone”. Infatti, signori alieni, se guardate bene potrete notare come all’ombra della Signoria svetti una statua che ogni tanto si mette la maglia viola numero 10.

Roberto BAGGIO

Roberto Baggio è un vecchio pezzo che, anche quando è amplificato male, suona le note esatte che vuoi sentire. Roberto Baggio è l’opera di un poeta che odia e ama se stesso e cerca la redenzione attraverso le proprie parole. È un gol a giro, sotto al sette, dove il portiere proprio non può arrivare, tracciato con un goniometro a sua volta puntato da un satellite. Roberto Baggio è il Maradona italiano, per l’immaginario che riesce ad accendere oltre ogni linea temporale, per la neutralità del sussulto che ti nasce in petto solo a scandirne nome e cognome. Roberto Baggio sono gli anni ’80 e ’90, il calcio italiano sul tetto del mondo. Roberto Baggio è il Brescia di Mazzone e il gol a Van der Sar al Delle Alpi; il gol tra Stam e Peruzzi in leggero pallonetto, all’Olimpico di Roma, è il gol al San Paolo, il giorno dello scudetto biancoazzurro. Roberto Baggio è la nostra immaginazione, e il senso del dovere, è il corso degli eventi, lo spirito e il Santo. È il tempo che fugge, le rughe che appaiono, i capelli bianchi, la voce che si abbassa. Roberto Baggio siamo noi, quando i nostri sogni si sono avverati.

Dino BAGGIO

Da voi ci sono gli omonimi? Cioè quelli che si chiamano allo stesso modo? No perché da noi a volte ci si confonde, poi se sei nato nella stessa epoca, fai lo stesso mestiere, beh insomma diventa dura. E allora ve lo dovete immaginare Dino Baggio, di professione mediano (ma giuro di averlo visto fare l’ala destra), dire tutti i giorni a qualcuno “no, non siamo parenti”, riferito a quell’altro lì che aveva il codino e lo stesso cognome. Ma aveva vinto un Pallone d’Oro, diversamente. Eppure questo altro Baggio, che in Nazionale faceva gongolare il Bruno Pizzul paterno con il suo classico “Dino per Roberto, Roberto per Dino”, aveva numeri da calciatore completo, capace di rompere e impostare, di fare gol e servirne. Quei due gol a Usa ’94, il primo scacciacrisi alla Norvegia e quel mig lanciato a Zubizarreta contro la Spagna, nessuno se li dimentica. Ah infatti avete trovato scritto che quello fu il Mondiale di Baggio? No, ma intendono quell’altro, quello col codino. No, non sono parenti.

Mario BALOTELLI

Per quanto abbia un’idiosincrasia per i soprannomi, Super Mario è il nomignolo, il vezzeggiativo che trovo più appropriato al mondo. La vita di Balotelli è davvero un fottuto videogioco, non uno qualsiasi, ma proprio il best seller Nintendo. Da Balotelli ci aspettiamo sempre dia tanto, più del dovuto, che salvi la principessa, senza avere mai troppo in cambio. Il suo cammino è cosparso di soldi, bonus e soprattutto malus, con stampa e tifosi che assumono sempre più spesso le sembianze di Bowser. Ora che a Nizza va tutto bene, tra funghetti e stelline, i nostri occhi sono 100% focused su di lui, al primo Mamma Mia staccheremo il NES (o il mini NES) e ci concentreremo sul rivale Sonic, maledicendo a denti stretti quel buono di un idraulico.

Franco BARESI

Ha vinto tutto e anche quando ha perso comunque segnato forse la singola prestazione migliore della storia in una finale (al Mondiale a 36 anni tornato in tempi record da un infortunio al ginocchio). Ma di Baresi voglio esaltare l’influenza avuta nella storia del calcio, perché tra tanti altri difensori vincenti e tanti autori di partite leggendarie In Italia abbiamo avuto in lui anche un giocatore grado di cambiare il modo stesso di concepire un ruolo. Quel braccio alzato ad indicare al guardalinee la presenza di un fuorigioco è la prima immagine che viene in mente pensando a Franco Baresi ed è anche l’immagine di come quello che sarebbe potuto diventare uno dei migliori liberi della storia ha in realtà contribuito ad estinguerne il ruolo in modo definitivo. Perché quel braccio alzato stava a significare che la trappola del fuorigioco aveva funzionato alla perfezione, e per farlo la difesa doveva essersi mossa in sincronia lungo la stesa linea. Quindi il libero, quell’uomo che aveva attraversato il tempo viaggiando staccato dalla linea difensiva era diventato un peso alla strategia vincente. Rimanevano le caratteristiche base di ogni grande difensore, ma venivano impiegate sempre pensando proattivamente: le letture per permettere anticipi in avanti, le cavalcate a spezzare le linee una volta visto un buco o i lanci millimetrici per l’uomo libero davanti. Per essere proattivi, per difendersi attaccando, la squadra aveva bisogno non di un giocatore che proteggesse la difesa, ma di un regista che guidi in avanti la linea e detti i tempi e gli spazi al reparto. Franco Baresi è stato il primo e il più grande regista di reparto. In questo, più ancora che nei titoli vinti ha fatto la storia del gioco.

Andrea BARZAGLI, Leonardo BONUCCI e Giorgio CHIELLINI

Barzagli-Bonucci-Chiellini: Atos-Porthos-Aramis. Qui-Quo-Qua. La Nina-la Pinta-la Santa Maria. Moggi-Giraudo-Bettega. Lupin-Jigen-Goemon. Timmy-Tommy-Jimmy. Morandi-Ruggeri-Tozzi. Sterzo-Turbo-Pistone. Fante-Cavallo-Re. Bim-Bum-Bam. Shredder-Bebop-Rocksteady, Kim-Jong-Un. Una cosa sola. Un universo delicato e complesso. Un risultato molto maggiore della somma tra le parti. Da quando si sono incontrati Andrea, Leonardo e Giorgio tengono assieme un concetto, significano sicurezza, promettono impermeabilità, sorreggono un progetto. Tre maestosi interpreti dell’arte del proteggere che mettono i propri doni a difesa delle mancanze del dirimpettaio. Barzagli è quello con la storia più diversa, quello che ha fatto e disfatto più valigie, quello che ha vinto un Mondiale da giovane bella speranza e poi ha girato il mondo: è attore, legge le battute e interviene nel suo momento, sempre con la faccia giusta, sempre con la stessa, ha la carezza decisa del nonno di Heidi. Ci spaccherebbe i tronchi, ma sai che è amore. Bonucci è pittore: pennella, rifinisce, ricama, ricopre, scontorna. Come tutti quelli abituati a interagire col legno, non conosce le buone maniere, è un po’ fissato, lo ami solo se sta dalla tua parte. Chiellini è scultore, scalpella di ginocchia e gomiti, scolpisce e colpisce, addomestica rocce ostili, spezza e arrotonda. Lo nomini per ultimo anche se era juventino anche da prima degli altri, perché è bruttino e quando lo guardi sorridere mentre percuote le persone ti mette ansia anche se stai dalla sua parte. Tre grandi difensori, un’enorme, spaziale difesa.

Andrea BELOTTI

Fissiamo in eterno questo momento: il Torino di Mihajlovic con Barreca, Baselli Benassi, Belotti. Dalla difesa al centrocampo, una evoluzione di nomi che sembra quasi impercettibile e trova in quella mano alzata a cresta e poggiata in testa il suo termine ultimo. Andrea, così giovane e bello da sembrare un marmo greco, un eroe multiforme che attraversa i colori e le maglie.
Andrea è giovanissimo e nel suo sangue corre la spavalderia di un piede sempre premuto sull’accelleratore, di una vita da passare in campo senza mai risparmiarsi e la descrizione di quanta bellezza artistica brilla dalle movenze di Belotti potrebbe durare in eterno. Il finale brusco di questa storia è che vinciamo gli Europei nel 2020 e lui segna 16 reti nelle fasi finali. Bisogna solo aspettare.

Antonio BENARRIVO

Pirata della fascia, stantuffo instancabile, colonna del Parma che si prese gli anni ’90 interi, anche con i cambi di panchina successivi. Apprezzato anche in Nazionale per la sua capacità di adattarsi al sibillino eppure magniloquente sistema sacchiano, Antonio Benarrivo sembra un nome sepolto nella nostalgia della sua epoca, ma in realtà è la dimostrazione vivente di quanto buono fosse il livello del calcio italiano in quei giorni. Fuori dal giro di Milan, Juve e delle altre grandi, a Parma crescevano giocatori dal profilo internazionale che in Europa vincevano e convincevano, e che nonostante questo appesero gli scarpini al chiodo senza nemmeno saper pronunciare Transfermarkt.

Romeo BENETTI

Di Benetti si possono ricordare i contrasti di gioco sempre durissimi, a volte brutali, occasionalmente orribili; ma questo, per un mediano, non è una notizia. In quanto veneto Benetti è un mediano perfetto, portato com’è al lavoro, al sacrificio; da veronese ci aggiunge una vena fantasiosa, leggermente sadica, che spiega bene il personaggio, ma che non costituisce comunque una novità o una rivelazione. La longevità, o il fatto che venga dato per finito e poi ricominci a vincere una volta passato alla Juve, non sono parimenti eventi sorprendenti per un generico calciatore o per il calcio italiano preso nel suo insieme storico. Allora perché ricordare Benetti? Per mio zio, per diversi miei zii e parenti di diverso grado, per gli zii, i padri, i conoscenti di noi tutti che abbiamo fatto in tempo a essere bambini in un’Italia di un certo tipo, piena di gente coi baffi alla Benetti. I baffi di Benetti, che pure devono essere stati normali e banali, adesso sono un ricordo, una testimonianza, un reperto storico. Il migliore tra noi, anzi, se è già nato e se bazzica questi lidi, dovrebbe scrivere un romanzo a partire dai baffi di Benetti, dai suoi capelli biondi (ma di un biondo antico e veneto; da contadino, non da modello), la migliore madeleine di sempre.

Domenico BERARDI

Attaccante largo, un sinistro che fa paura. Gli hanno sempre detto di esser forte, ma indisciplinato. Lui migliora tecnicamente eppure sembra non andare bene; migliora tatticamente e comunque non va bene. Ha il suo miglior inizio stagione in carriera e si fa male, in più gli dicono che è un predestinato ma in nazionale non è ancora il suo tempo. Nonostante a neanche 23 anni avesse già 40 gol in A alle spalle, più di Totti e Del Piero alla sua età. Signori alieni, non siete voi a dover cercare lui, ma il contrario: vi sta cercando da un pezzo, mentre canticchia un motivetto di Eugenio Finardi.

«Extra-terrestre, vienimi a cercare, voglio un pianeta su cui ricominciare».

Beppe BERGOMI

Capitano dell’Inter negli anni più difficili e perciò più belli, baluardo di un’altalena emotiva fatta pallone che rotola, per venti, lunghi, eppure mai bastevoli, anni. Incubo di chi temeva la marcatura a uomo così come di chi pensava non fosse un problema, terzino destro se serviva, stopper se avevate la passione per gli anglicismi, arcigno anche senza volerlo, se ti ipnotizzava con quelle sopracciglia folte che invece volevano solo fare all’amore l’una con l’altra. Nel portafogli tengo una foto di Bergomi con i baffoni nerissimi, diciottenne già vecchio, campione del mondo in Spagna, nell’82: ovunque proteggi.

Federico BERNARDESCHI

Ci sono momenti, cicli, linee temporali ristrette, in cui i Paesi restano orfani di fantasia, può capitare, nulla di grave. Con il tramonto degli eroi del 2006 sono naufragate anche le speranze di vedere i ragazzi della generazione successiva dominare l’Europa, nonostante una squadra disposta magistralmente dal suo allenatore e trasfromata in un concentrato magnetico di tattica e organizzazione. Ma allora dov’è finita la nostra fantasia? Uno degli eredi in linea dinastica potrebbe essere l’ultimo dei grandi 10 della Fiorentina, che in un’estate sorda di delusioni, poca fiducia e poco gioco vicino alla porta, fu anche cercato Bayern Monaco. E la speranza, si sa, è come Bruce Willis in Die Hard, al fantacalcio continuerà a prendere Bernardeschi finché avrà credito disponibile.

Fulvio BERNARDINI

In una Roma di pionieri, osti, giocatori di biliardo e figli di buona donna, Fulvio Bernardini era come un aristocratico che preferiva spendere il suo tempo in mezzo al popolo: ci si trovava meglio, lì, era più divertente. Intellettuale nel pensiero, nella favella ma soprattutto in campo, in quanto a classe e qualità del palleggio faceva scola all’argentini. Buffo che abbia iniziato dall’Inter, ma da un certo punto di vista si tratta di una stranezza che conferma la sua universalità come uomo e come giocatore. Per gli standard dell’epoca era troppo tecnico, troppo elegante per l’ideale che si aveva del centrocampista, difatti Pozzo gli negò la gioia del titolo di campione del Mondo, non convocandolo e preferendogli l’amico fraterno Attilio Ferraris, mediano sampietrino, quintessenza della Roma di cui sopra. Lo stesso che un giorno rinunciò alla fascia di Capitano giallorosso e la consegnò all’amico Fuffo, dicendogli:”a Fu’, fallo te er capitano, sei te er mejo (e poi a me me rompe li cojoni)”.

Nicola BERTI

In un universo parallelo, Nicolino Berti continua a correre in un contropiede infinito come quella sera di fine novembre di ventotto anni fa, a Monaco di Baviera. Segna, va sotto la curva e poi si ributta in contropiede, inseguito invano dalle maglie rosse del Bayern, cristallizzato in una gif come una zanzara incastonata nell’ambra.

Roberto BETTEGA

A guardarlo giocare, con quel fisico longilineo, quelle movenze eleganti e compassate, lo sguardo sgranato ma inoffensivo e quei capelli brizzolati, giè da calciatore sembrava il manager sbarbato e immerso nella colonia che durante la settimana in ufficio non ti sembra né carne né pesce e poi invece si scopriva quanto giocava bene a pallone, parecchio. E guai a fargli fallo, o niente promozione. Torinese di nascita e juventino nel sangue, con tutto ciò che questo comporta, è stato un elegante non centravanti tra i migliori della sua epoca. Diciamo non-centravanti perché nonostante fosse alto e fenomenale nel colpo di testa, era bravo soprattutto nella manovra, e man mano che la birra finì seppe anche arretrare e giocare da centrocampista offensivo.

Roberto BONINSEGNA

Ecco, se si dovesse scommettere su chi possa dare la stoccata finale agli invasori alieni in un’ipotetica resistenza, uno dei candidati più papabili sarebbe lui, Boninba, IL centravanti. Probabilmente se la giocherebbe con un Cantona, un Vieri, un Chinaglia, per lanciare l’ultima sassata micidiale al Golia alieno. Ma forse Boninba la spunterebbe lo stesso. Burbero e intrattabile come i suoi fratelli orchi d’area da rigore ma più continuo, più completo, più consapevole della sua arroganza atletica. Segnare in faccia al giocatore più forte di tutti i tempi, dopo che questi era rimasto in cielo fluttuante in a most peculiar way per mostrare al mondo dei mortali il posto che spettava agli dei, farlo per di più nella finale di un mondiale in cui non eri neanche stato convocato, beh… decisamente, in questo Independence Day, sarebbe lui il nostro Randy Quaid.

Giampiero BONIPERTI

Di tutti i calciatori dell’epoca del bianco e nero che non sembravano affatto calciatori, forse Giampiero Boniperti è stato il più forte, e al contempo quello più bianco e nero, e al contempo quello che sembrava di meno un calciatore, con quei boccoli biondi vagamente cotonati, quella boccuccia perennemente semichiusa, quei modi signorili e quello sguardo da Phil Collins di ritorno da una crociera per soli altolocati, dove non ti regalano saponette ma il loro profumo ti rimane addosso per una decina d’anni. Per non parlare di quel soprannome, Marisa, mai gradito e affibbiato dal compagno di Nazionale Benito Lorenzi, un Bruto interista, soprannominato invece Veleno, praticamente la sua antitesi. Boniperti fu il più grande cannoniere bianconero prima di Del Piero, e anche l’unico ex giocatore juventino a diventare Presidente della società, a rinnovarla mescolandone le esigenze sportive a quelle aziendali, a creare un continuum tra il modo di indossare la maglia in campo e il modo di farla indossare agli altri una volta appesi gli scarpini al chiodo. Boniperti è stato la Juventus prima di tutti, perché rispetto a chi lo aveva preceduto, ne ha impostato anche il futuro.

Beppe BRUSCOLOTTI

Forza fisica, tenacia, equilibrio. Grazie a queste doti i tifosi lo soprannominarono presto Pal ‘e fierro perché era incredibilmente Forte. Nel senso più letterario del termine perché non aveva questo fisico mostruoso, è poco più di 1.80, ma era quasi impossibile da superare e negli scontri corpo a corpo ha avuto la peggio in pochissime occasioni pur affrontando avversari fisicamente e tecnicamente più dotati visto che sotto i suoi colpi sono caduti personaggi del calibro di Riva, Graziani, Mazzola, Rivera, Platini o Pulici. Con la sua super mascella che gli appiattisce anche la voce, un timbro inconfondibile per i napoletani, ha conquistato per sempre il cuore della piazza partenopea. Capitano intramontabile, come ci tenne a dire Maradona dopo la vittoria dello scudetto: “La fascia ce l’ho io, ma il capitano è lui” o ancora, il suo celebre tracciare una linea in campo e dire all’avversario che di lì non si sarebbe passato. Bruscolotti è un personaggio di culto, oltre che essere stato un sopraffino difensore.

Gigi BUFFON

Buffon è il più forte portiere di tutti i tempi. Non c’è Yashin che tenga, non ha affrontato le sue stesse sfide. Basti pensare a tutti i portieri “rivali” che hanno provato a prendergli la scena nel corso della sua carriera: Dida, Julio Cesar, Cech, Neuer. Tutti portieri fortissimi incredibili, ma loro son passati o passeranno, Buffon resta. Ha evoluto personalmente, tessuto di realtà per tessuto di realtà, il suo modo di stare tra i pali mentre intorno a lui si trasformavano i palloni, la tattica, la difesa; non avrebbe problemi a proteggere lo spazio tra i bastioni di Orione dai raggi B, che balenano nel buio vicino alle porte di Tannhauser. Basta che gli passiate i guanti.

Giacomo BULGARELLI

Una delle cose più frustranti del calcio è che i giocatori non sono le persone che ci immaginiamo: il più fatato dei fantasisti può essere il più grezzo dei pensatori. Giacomo Bulgarelli era un’eccezione: la sua distinzione borghese, fatta di amore per le cose nobili ed eleganti, si esprimeva anche nel suo stile di gioco da mezzala pensatrice. Quando entrava in campo il capo-tifoso del Bologna lo salutava al grido “Onorevole Giacomino, salute!”, lui col ciuffo stirato a destra (ribelle ordinato) e il numero 8 dirigeva il gioco con geometrie che non cedevano né alla rigidità del semplice né all’anarchia del genio. Per questo Pasolini, che lo adorava, lo definiva “un poeta realista”. L’incontro tra Pasolini e Bulgarelli al campo dello Sterlino viene ricordato così da Sergio Citti: «Dovevate vederlo, quando Pier Paolo incontrò da vicino Bulgarelli, sembrava avesse visto Gesù…».

Nel 1964, con la fascia da capitano al braccio, ha vinto il settimo scudetto del Bologna, dedicandolo a Renato Dall’Ara morto tre giorni prima. Vinse l’Europeo del ’68 ma senza disputare neanche una partita, già malconcio per un grave infortunio al ginocchio patito due anni prima.

Tutti lo ricordano come un uomo con cui si poteva parlare di tutto, grande amante della letteratura, pioniere di un calcio che sembrava potersi emancipare dal suo conservatorismo asfissiante. Quando gli chiedevano se il successo lo aveva cambiato in meglio o in peggio rispondeva «Se mi ha cambiato, sicuramente in peggio». Giacomo Bulgarelli è stato un eroe borghese, il primo e l’ultimo della sua stirpe.

Tarcisio BURGNICH

È il 17 giugno 1970, a Città del Messico si sta per giocare quella che resterà negli annali come la partita del secolo. Tarcisio è alla sua trentottesima partita in nazionale. La Roccia ha da poco compiuto 31 anni, esattamente 6 anni prima della Liberazione dai tedeschi: « Finalmente un’Italia che le suonava ai tedeschi », dirà anni dopo. Si presenta al cospetto di Beckenbauer con un palmares di un Europeo, 4 scudetti, 2 coppe Campioni e 2 Intercontinentali. Di battaglie ne ha vinte molte, di gol ne ha segnati pochissimi, 7 su quasi 400 partite da professionista; questa sera ne segnerà un ultimo, il più epico: « Io mi sgancio poco, non solo il Facchetti, però ogni tanto qualche volatina me la faccio ». A fine gara Gianni Brera gli darà un 9+ definendolo un “grandissimo gladiatore”.

Tarcisio giocherà un ruolo fondamentale, dando sicurezza in una partita tatticamente assurda, tra le due nazionali storicamente più attaccate all’ordine tattico. In questa girandola folle, si concederà anche lui l’ebbrezza di farsi trovare in area di rigore su una punizione di Rivera, rovinosamente rimessa da Held sul piede debole dello stesso Tarcisio. I gol si susseguono, la stanchezza e il caos regnano, ma lui non si scompone e ferma un immarcabile Gerd Müller all’ultima folata tedesca, come se fosse ordinaria amministrazione. Concentrazione, anticipo, umiltà e determinazione. Veniteci sotto Sith da due soldi!

Antonio CABRINI

Antonio Cabrini, il bello e l’antidivo. Ala sinistra da ragazzo, terzino moderno da professionista, campione del mondo per la vita. Quello che non si faceva troppe domande e giocava per divertirsi. Passa quasi in secondo piano il fatto che fosse uno dei migliori esterni difensivi che il calcio italiano abbia prodotto. Buona tecnica di base, ottimo passo, ottima corsa, ottimo cross, grande capacità di diventare tutt’uno col resto della squadra, di compiere ogni movimento in modo da esaltare le qualità del gruppo. Chiaro, poi è più difficile da dimenticare uno che portava le ragazze allo stadio in anni in cui ancora il calcio veniva considerato affare da uomini. Ah, già, sono ancora quegli anni.

Fabio CANNAVARO

Il modo di difendere di Cannavaro non esiste più e probabilmente si è estinto con lui. Cannavaro difende di esplosività, di forza enorme espressa in poco tempo e in poco spazio che annulla le differenze di stazza, tecnica, velocità, creatività con l’avversario. Cannavaro difende di concentrazione, di occhi spiritati, fissi sulla palla, che sia lontana o vicina, che sia alta o a pelo d’erba, che sia mia o degli altri. Cannavaro difende di fame, di orgoglio, di viscere, di me piccoletto contro te mandrake, che poi alla fine la coppa la alzo io e tu muto. Cannavaro difende di strada e di terreno sconnesso, di pozza e pozzolana, di bosco, che per terra ci stanno i perdenti e quelle rare volte ci si sbriga a rialzarsi. Cannavaro difende di sorriso e di cuore, da bravo guaglione però col sorriso da figlio di buona donna, da capitano e simbolo, da uomo del destino, da immagine indelebile.

Fabio CAPELLO

Lo chiamavano il Geometra non perché se ne andasse in giro a fare perizie e planimetrie per conto del Comune, ma perché a centrocampo Fabio Capello era un signor ragionatore. D’altronde avrebbero potuto chiamarlo il ragioniere, ma sarebbe stato un soprannome di merda. Aveva un fisico strano, il don Fabio che in pochi ricordano, quello senza giacca e cravatta, senza occhiali e con l’espressione meno avvelenata. La mascella squadratissima e il faccione erano sempre quelli, il girovita era quello di una ballerina di danza classica però, stretto stretto, le braccia due fuscelli e le gambe enormi, gigantesche, sembrava Popeye, non fosse stato per lo sguardo da attore di fotoromanzi. Fisiognomica minacciosa a parte, Fabio Capello calciatore era un ottimo giocatore: non era veloce ma aveva un piede educato che lo rendeva un gran passatore ed era estremamente ordinato sul piano tattico. Per il resto, come gli sarebbe capitato anche da allenatore, vinse un po’ ovunque, soprattutto alla Juventus. All’epoca, però, non gli revocarono nulla. In Nazionale, poi fu l’autore del gol che consentì all’Italia di battere l’Inghilterra per la prima volta nella sua storia.

Benny CARBONE

Più Serie B che Serie A, soprattutto molta più Inghilterra, Benny Carbone ha vissuto l’esilio tattico a cui erano sottoposti tanti fantasisti italiani negli anni ’90 e, come molti italiani emigrati oltremanica, riesce a farsi valere tanto da venire nominato, nel 1999, miglior giocatore stagionale dello Sheffield Wednesday. Era un calciatore particolare, descritto benissimo da Boskov: “Benny Carbone con sue finte disorienta avversari ma anche compagni”, era una mezzapunta vera, classica, che qualcuno definirebbe nostalgica perché probabilmente oggi sarebbe spostato sull’esterno e sarebbe costretto a vivere l’incubo di dover sgroppare sulla fascia. Fortunatamente per lui, Carbone giocava negli anni ’90 ed è amato ancora oggi perché era se stesso, un disorientatore.

Amedeo CARBONI

Amedeo Carboni è stato il capitano di una Roma in camicia e jeans. Di quelle larghe a quadri gialli e blu dentro dei Levi’s un po’ rovinati sull’orlo. Proprio quelle che andavano tra il 1996 e il 1997, gli anni in cui è capitano della Roma. È la stagione di Carlos Bianchi e Carboni, al suo ultimo campionato in giallorosso, eredita la fascia da Giuseppe Giannini. Un’altra fascia, quella sinistra, è stata la sua strada statale per 7 stagioni, sempre in maniera un po’ goffa ma genuina. Lo qualificava il suo numero di maglia, il 6. Lui era uno da 6 fisso, né più né meno. Amedeo Carboni era il caffè che prendi ogni mattina, sempre uguale, buono ma quello del bar è meglio. Era piuttosto bloccato a ridosso dei centrali, copriva bene ma davanti non pungeva. Colpa (merito?) anche di Carlo Mazzone, che ne arginava le discese: “Amedè quanti gol hai fatto in carriera?”. “4 Mister”. “E allora perché te ne stai a annà in attacco?”. Amedeo, cresciuto tra i fasti della Sampdoria tra fine ’80 e inizio ’90, se ne tornava indietro a testa bassa verso Cervone e pensava quanto sarebbe stato bello tornare ad alzare un trofeo. Aretino, emigrò in Liga e al Valencia vinse tutto. Lì lo chiamavano ‘El Capo’.

Pierluigi CASIRAGHI

Pierluigi Casiraghi, nativo di Monza e capace di collezionare oltre 300 gol tra Serie A e Nazionale, è un caso di calciatore che ha prestato buona parte della propria carriera alla fisica. La caratura scientifica della sua carriera espresse il suo massimo congelando nella storia la traduzione di quanto di sé vi fosse ancorato: durante gli anni alla Lazio, l’allenatore boemo Zeman si interrogava sulla perfetta dimensione da applicare allo sforzo per ottenere il maggior risultato dal fisico dei suoi atleti; aveva in Casiraghi la qualità della sponda, il posizionamento, la gravità, la copertura della palla, il gioco aereo, ma a un certo punto ebbe un’idea straordinaria: sfruttarlo non più soltanto per la vena realizzativa e la presenza in area di rigore, ma anche come standard di peso applicato all’allenamento sulle spalle dei calciatori impegnati nei duri allenamenti tra i gradoni in pietra di Formello. Fu così che Zdenek Zeman, per aver quntificato in “casiraghi” l’attività del corpo umano sotto sforzo, ottenne una menzione speciale per il Nobel e l’attaccante il privilegio di dare il proprio nome a un’unità di misura.

Antonio CASSANO

Cosa resta di Antonio Cassano da Bari Vecchia? Cerchiamo di andare oltre il neologismo modellato sul suo carattere. Cerchiamo di andare oltre le bandierine del corner prese a calci, oltre le corna sventolate sotto il naso di arbitri e guardalinee e i vaffanculo neanche troppo sussurrati, oltre il giubbotto tamarro con cui è arrivato a Madrid, oltre i chili di troppo e l’imitazione di Carlos Latre, oltre le uscite infelici sui gay, oltre la mano messa sulle labbra per proteggersi dalle telecamere. Ecco, cerchiamo di andare oltre tutte queste cose. Se eliminiamo le cassanate resta la meraviglia primordiale del calcio, la corsa liberatoria e il talento anarchico di un ragazzino di diciassette anni che lascia senza fiato non solo uno stadio ma l’Italia intera. Resta anche una promessa mai mantenuta del tutto. E questo mette una tristezza irrimediabile ma, d’altronde, senza fallimento non ci sarebbe arte. E qui ce n’è sempre stata tanta.

Luciano CASTELLINI

Solo perché uno è silenzioso e, dello sport, la parte che preferisce è quella del campo, non significa che non possa essere stato un grande campione. Luciano Castellini detto il Giaguaro, dai riflessi felini e dalle repentine acrobazie nonostante il fisico tozzo e possente, è stato uno dei frutti più pregiati della scuola dei portieri italiani anni ’70. Otto anni a difendere la rete del Torino e sette al Napoli gli hanno dato quell’esperienza da Serie A hardcore che solo chi è uscito vivo da uno scontro mortale con Romeo Benetti può dire di avere. Finito di giocare, poi, si è tolto lo sfizio di allenare i migliori portieri che l’Inter, e quindi anche il mondo, abbia avuto: Zenga, Pagliuca, Toldo, Julio Cesar.

Franco CAUSIO

Franco Causio che corre sulla fascia destra, salta l’uomo con la certezza di chi è nato su un campetto di Porto Alegre, suona le maracas con la destrezza di chi è affacciato sul porto a Lecce, e con un tocco solo si gira e pesca l’attaccante in area, con le parabole greche, con i campanili bizantini, sulla testa o sul piede sabaudo. Franco Causio sguardo scavato e profondo, baricentro basso e folto baffo, Franco Causio brasiliano, Franco Causio juventino, Franco Causio salentino, dillu mundu cittadino, ma puru campione.

Pierluigi CERA

Veneto tutto d’un pezzo, avrebbe dovuto essere altrove, invece divenne una leggenda in Sardegna. Ha vinto da capitano uno storico Scudetto con il Cagliari e ha legato la sua carriera ai sardi, nonostante abbia avuto due stint lunghi con l’Hellas Verona (sette stagioni) e con il Cesena (sei). Scopigno lo trasformò da mediano a libero, divenendo così un riferimento anche per la Nazionale di Valcareggi. Ma il bello del calcio espresso da Cera lo portò a giocare fino Chicago, nel ’67: il suo Cagliari viene chiamato per giocare in America e rinominato per l’occasione, molto poco isolanamente, Chicago Mustangs. I Cagliari Mustangs sfiorano i play-off della poco fortunata United Soccer Association, all’epoca separata dalla nascente NASL. Poco male, in fondo meglio re di un’isola per sempre che campioni continentali una volta sola.

Sergio CERVATO

Terzino sinistro con il vizio del gol (ben 51 in carriera, molti su rigore e con punizioni mancine al veleno) formava insieme al compagno in viola Magnini la più forte coppia di terzini italiani degli anni ’50. E non fate i vaghi signori alieni, anche lui come Magnini vi ha visto nell’ottobre del ’54 a Firenze. Capitano della Fiorentina del primo scudetto, dove gioca dal ’48 al ’59, era uno che “le aveva tutte addosso”: privo del pollice della mano destra, perso nei campi (di grano) da ragazzino, era spesso tormentato da problemi muscolari, nonché dal cosiddetto “piede gelato”, embolia al piede che già aveva colpito tra gli altri Giuseppe Meazza. Eppure nonostante tutti questi acciacchi fu perno della Viola, oltreché della nazionale azzurra, per 11 anni che rimangono scolpiti nella storia calcistica di Firenze, dell’Italia ma per il seguito anche in quella della Juventus. Infatti Cervato (contro la sua volontà) passo alla Juventus nel ’59, trasferimento di un “patto tra gentiluomini” dei presidenti Befani (che forse ne avrebbe pure fatto a meno di rispettarlo) e Agnelli, e di errate valutazioni tecniche sulle sue condizioni da parte dei dirigenti fiorentini, che lo ritenevano ormai non più in grado di giocare a certi livelli. Cervato invece spostato da terzino a centromediano gioca altri due anni a grandi livelli, vincendo altri due scudetti con due coppe Italia in bianconero, per finire poi (di nuovo) scartato prematuramente e chiudere la carriera dopo altre quattro stagioni alla Spal, con due salvezze prestigiose, una finale persa di Coppa Italia (contro in Napoli, ottenuta battendo proprio la Juventus in semifinale) e altre 91 presenze all’attivo, fino all’ultimo infortunio che ne chiude la carriera a 36 anni.

Luciano CHIARUGI

Quando al tuo nome aggiungono un -ismo, qualcosa devi aver combinato nella tua vita o carriera, qualche livello di eccellenza devi averlo raggiunto. Sfortunatamente, per Luciano Chiarugi l’eccellenza che gli valse un -ismo si consumò nella spiccata tendenza a lasciarsi cadere in area, a simulare al primo contatto con il marcatore. Non che ne avesse avuto così bisogno, dato che si trattava di un’ala sinistra in grado di giocare anche a destra, dalla corsa imponente, dal dribbling ubriacante e dal tiro devastante. Quello che aveva in più, rispetto al tipico funambolo da fascia, era la capacità di accentrarsi e soprattutto la forza fisica. Tutte queste caratteristiche di imprevedibilità, unite alla settecentesca chioma fulva, riccia e senza frangetta, gli valsero l’eloquente soprannome di Cavallo Pazzo, sull’onda del quale vinse uno scudetto nella sua Firenze, si godette quattro anni al Milan (anche se lì vinse poco) e per il resto visse felice, contento e a briglia sciolta giocando fino a 38 anni nelle serie minori.

Enrico CHIESA

Enrico Chiesa non aveva l’aria da calciatore. Piuttosto sembrava uno di quei pescatori silenziosi di Genova, uno di quelli con il lupetto sotto per riscaldarsi dall’umidità e dalla vita. “E aveva un solco lungo il viso — li cantava De Andrè — come una specie di sorriso”. Un sorriso amaro era invece quello di Anfield Road. Il 14 giugno 1996 ad Anfield Road l’Italia giocava contro la Republlica Ceca. Gol di Nedved, illusione di Chiesa, gol di Bejbl: 2–1 per i futuri vicecampioni d’Europa. Una delle pochissime delusioni per uno che ha segnato tanto e vinto molto, con le magliette di Sampdoria, Parma, Fiorentina e Figline Valdarno. “Chiesa mi somiglia nella velocità dell’esecuzione e nella potenza del tiro. C’è una cosa che mi piace di lui: è un introverso, come lo ero io. Parla poco, ma ha le idee chiare”. Parole di Gigi Riva, non uno qualunque. Unico rimpianto: la rottura dei legamenti nel 2001 blocca sul più bello il suo calcio sussultante, sottovalutato e malinconico.
“Due occhi enormi di paura eran gli specchi di un’avventura”. Li chiamava così, De Andrè.

Giorgio CHINAGLIA

“Gioca Giorgione? Deve giocare, sennò spacchiamo tutto. Viva Giorgione”

(da “Azzurro tenebra” di Giovanni Arpino)

Tanto idolatrato dai tifosi delle sue squadre quanto odiato dagli avversari, Giorgio Chinaglia è stato negli anni Settanta uno dei più temibili centravanti vecchio stampo. Difficile condensare in poche righe la sua vita: emigrato in tenera età in Galles, dove il padre cercò fortuna, si avvicinò a rugby e calcio nutrendo una predilezione per la palla rotonda. Testardo, provocatore, irascibile, se ne andò dallo Swansea sbattendo la porta: “Un giorno mi chiederete l’autografo”, bofonchiò. Il tempo fu galantuomo: sbarcato alla Lazio a fine anni Sessanta, fu capocannoniere nell’anno dello scudetto dopo la storica vittoria dell’Italia a Wembley propiziata da un suo traversone. Mandò un “vaffa” al ct azzurro Valcareggi in mondovisione per averlo sostituito durante i Mondiali del 1974 e non fu uomo da convenevoli nemmeno con un certo Pelé quando se lo ritrovò in squadra ai New York Cosmos. Si cimentò come cantante in “(I’m) Football Crazy” e con l’umiltà che spesso lo contraddistinse solfeggiò: “Yes I’m the best, I’m the best in all the world…”. Candidato — e trombato — alle elezioni europee e regionali, è morto da latitante in Florida, con un mandato d’arresto per riciclaggio. La salma è stata però riportata in Italia per essere sepolta al fianco di Tommaso Maestrelli, che negli anni della Lazio fu per lui una sorta di padre ancor più che un allenatore.

Giampiero COMBI

Combi è il primo e l’ultimo. Primo in quanto portiere, numero uno, vincitore di cinque scudetti (e si ritirò a trentadue anni), fuoriclasse assoluto; primo capo e simbolo di una difesa italiana impenetrabile e proverbiale, tanto da venir tramutata in filastrocca: Combi-Rosetta-Caligaris; primo in quanto capostipite della razza dei portieri pazzi e scriteriati, che si gettavano tra le gambe degli attaccanti, volavano da un palo quadrato all’altro a deviare quei palloni durissimi, si rompevano ogni tre per due (una volta, in uno scontro con Caligaris, si rompe un braccio e si lede la tromba d’Eustachio; per due giorni rimane tra la vita e la morte, incosciente, con il sangue che gli esce da un orecchio. Poi si riprende, e non si sa come recupera la forma e l’equilibrio che un incidente del genere dovrebbe distruggere); è il primo a fissare nel tempo, sul cronometro, il segno della sua grandezza, in un’imbattibilità che durerà novant’anni. È il primo atleta: si allena dieci, dodici ore al giorno, inventa esercizi che si ripetono ancora oggi, e dal basso del suo metro e settantaquattro, o settantuno secondo altre fonti, diventa il miglior portiere della Serie A, e un degno rivale di Zamora e Planicka. Ed è il primo portiere italiano a vincere, da protagonista assoluto, un mondiale, nonostante si fosse già ritirato dal calcio, prima che un altro atroce infortunio del titolare Ceresoli e le preghiere di Pozzo lo richiamassero all’ordine. Ma è anche l’ultimo. L’ultimo dilettante, per esempio, lui figlio di industriali del liquore: solo quando i suoi vogliono spedirlo negli Stati Uniti a lavorare per la filiale locale (a far che? C’è il proibizionismo! Forse Combi ha rischiato la galera? Forse poteva apparire in C’era una volta in America?) parla con i dirigenti della Juventus, che gli assegnano uno stipendio e una Fiat 501. L’ultimo borghese: con i suoi pantaloni di fustagno, le sue linee sartoriali, il suo sommo disprezzo per le superstizioni dei compagni, e il suo starsene appoggiato al palo per tutto il tempo che la Juve rimane in attacco. Il che, anche all’epoca, significa quasi tutta la partita. L’ultimo signore: quando si stanca smette e basta, non vuole comportarsi “come quegli attori che ogni anno organizzano una serata d’addio” (parole sue). E quando torna alla Juventus, negli anni Cinquanta, ci tiene a far sapere che lo fa a titolo gratuito: non vuole si pensi che sta corteggiando gli Agnelli per tornaconto personale. Dopo di lui, e a ragion veduta (il calcio diventa affare dei poveri), nessuno rinuncerà più né ad anni di carriera né a qualche stipendio. A carriera finita compera un bar, che diviene raduno degli sportivi torinesi. C’è nel locale anche una statua del piccolo immenso portiere, lanciato in presa alta. Dove sarà finita adesso, a sessant’anni dalla morte di Combi, quella statua? Dov’è il primo e l’ultimo dei campioni italiani? Io credo che sia il caso di continuare a cercarlo.

Antonio CONTE

Tutto ciò che Antonio Conte rappresenta in questa linea temporale come allenatore, ovvero la petulante ricerca del risultato a costo dell’inquinamento acustico, l’ossessione per la vittoria, la capacità di tirare fuori dai propri giocatori tutto quello che non pensavano mai di poter dare, compreso il proverbiale sangue dalle rape, la distruzione del gioco dell’avversario tramite subissamento emotivo e atletico, l’assenza di particolari fronzoli tecnico-tattici contrapposta a un livello di intensità maniacale, vagamente esasperante… ecco, tutte queste cose Antonio Conte le metteva in pratica da giocatore. Non sapeva fare niente meglio degli altri in particolare, ma faceva tutto fino quasi a farti passare la voglia di farlo tu. Solo che quando sei uno solo in mezzo ad altri dieci si nota di meno, quando stai in panchina e urli agli altri di fare lo stesso, è anche giusto che ti si noti di più. E tra l’altro bravo perché, lo ammetto, hai tenuto il punto.

Bruno CONTI

Bruno Conti è un trucco segreto, la formula per trasformare un nome comune e un cognome diffuso in una frase sola di senso compiuto. È contagioso, come il titolo di una canzone, che in radio hanno solo annunciato e tu già non riesci a stare più fermo. Perché Bruno Conti è una danza sulla fascia, un lungo caschetto di capelli castani col numero 7 sulle spalle. E tra tutti i 7 che hai visto e vedrai trovamene uno che per ruolo deve fare avanti e indietro su una linea retta eppure riesce a non farti vedere mai la stessa cosa. Bruno Conti è un boomerang, e infatti vedrai che torna. Perché Bruno Conti è imprevedibilità e sacrificio, è il più veloce della tribù e non ti lascia da solo. Bruno Conti è un incantatore di giganti: ha un guinzaglio legato sul sinistro, e con quello li porta a spasso. Bruno Conti è il migliore al mondo, da quell’estate che non è più finita. Bruno Conti è un’ala pronta al decollo e il difetto è che non ce n’è un’altra uguale. Fossero state due, e chi scendeva più a terra.

Daniele CONTI

Daniele che segna contro la Roma e corre, le braccia piegate a 90 gradi e i pugni chiusi, la bocca spalancata, passando di fianco a papà Bruno. Daniele che riceve un pallone ribattuto al limite dall’area, lo controlla, si gira con una torsione del busto ai limiti del possibile, e calcia d’esterno mandandola nell’angolino alla sinistra di Julio Sergio. Daniele che al 95' minuto di un interminabile Cagliari-Napoli devia di nuca un pallone calciato in area da Pasquale Foggia, batte Gianello, ribalta una partita che sembrava persa e dà il via a una delle più incredibili rimonte-salvezza della storia rossoblu.

Daniele che segna al 90' il 4–3 col Torino e abbraccia il figlio Bruno, alla sua prima da raccattapalle. Daniele che segna il 2–1 col Torino (sì, ancora il Torino, e ancora negli ultimi minuti di gioco) e corre incontro al figlio Manuel, il più grande, facendo commuovere nonno Bruno.

Daniele, che da bambino sognava la maglia della Roma come il papà, e da grande ha imparato ad amare Cagliari come pochi altri prima, diventando il giocatore con più presenze nella storia del club. Prendendosi una rivincita dopo l’altra: contro chi lo fischiava e ne ha fatto un simbolo, contro chi l’aveva scartato e avrebbe pagato l’errore a suon di gol, contro chi non l’ha mai chiamato in Nazionale, anche se lui se lo meritava, e anche se a lui non è mai pesato. Perché, diceva Daniele, «è il Cagliari la mia Nazionale».

Mario CORSO

La foglia morta. Un epiteto che ha segnato la storia del calcio, a partire da Didì. Il piede sinistro di Dio, dal veronese e non da Rio, prendeva quella sua gobba rincorsa dal messaggio ambivalente : la fastidiosa spocchia di un borghese annoiato, l’estrema tristezza di chi necessita di quel gesto per essere accettato in un contesto a lui avulso. Insomma, le sue punizioni erano la metafora perfetta del modello contemporaneo di artista. Non a caso Chicco highlander Mentana lo ha definito un “genio normale”, sintesi perfetta di un artista impiegatizio.

Estro da vendere, cambio di passo micidiale, collocazione in campo ambigua, potenzialità enormi, pupillo del parùn Moratti. Un piede solo, quello giusto. Nell’immaginario collettivo interista è rimasto impresso, tanto da riviverne la reincarnazione in Alvaro Recoba, che effettivamente rispetterebbe punto per punto la descrizione del nostro Mariolino.

Billy COSTACURTA

Il valore di Alessandro Costacurta detto Billy, stopper, sta nell’incapacità di poter immaginare la squadra più forte del mondo senza di lui. Billy ha il sorriso di un assicuratore che è partito facendo il ragioniere ma poi ha capito che tutta la vita su una scrivania sarebbe stata una palla. Billy ha la smorfia tipica di chi sa di essere capitato nell’azienda giusta al momento giusto, ma anche di avere tutte le carte in regola per rimanerci a lungo. Ma sì, da qui non mi schioda nessuno, nemmeno la consapevolezza che là fuori ci siano assicuratori migliori di me. Quando si farà la lista dei migliori assicuratori di sempre, e inseriranno i più bravi a piazzare le polizze, dovranno inserirmi per forza perché sarò quello con la bacheca più ricca di polizze, perché sono versatile e non scendo a compromessi, vado dritto per la mia strada, punto solo all’interesse dell’azienda, che è la migliore al mondo. E a quel punto le domande saranno le solite: ma quando si conteranno i successi, quanto sarà merito suo e quanto dei grandi assicuratori che aveva di fianco? E allora qualcuno ti rigirerà la domanda inversa: ma quanto devi essere bravo per fare l’assicuratore, fin oltre l’età pensionabile, in mezzo a tutta quella gente più brava di te?

Francesco “Ciccio” COZZA

2 giugno 2003, festa della Repubblica, ma non è ancora detto che oggi ci sarà qualcosa da festeggiare. Sei a Bergamo, a 1297 chilometri da casa, e sotto di un gol. Se non vinci, sei di nuovo in B. Sei un numero 10, anche se questa è una di quelle stagioni bislacche in cui indossi il 35, e il pallone deve entrare in porta, anche se non ci entra da numero 10. E allora chiedi un 1–2 in area, di mezzo c’è Bonazzoli, ti mette il pallone a terra e ti libera lo spazio. Taibi esce dai pali, tu lo anticipi, la palla rimbalza sulla gamba del portiere e finisce alle sue spalle. Ti rialzi solo quando la vedi dentro. Diranno che è un gol fortunoso, da opportunista e non da 10, ma è come se l’avessi messo dentro col pensiero. Nel secondo tempo provi a imbeccare Diana e Bonazzoli in ogni modo, con palloni telecomandati che trafiggono alle spalle la difesa orobica, trattieni il fiato ogni volta. Esplodi solo quando Bonazzoli, con il bonus karmico che le tue giocate gli hanno concesso durante tutta la partita, trova da solo la strada per il gol dell’1 a 2. Parte del pubblico che ti dava del terrone lascia lo stadio prima del fischio finale.

Era questa, la tua finale di Champions League. Il destino che ti aveva regalato un pallone toccato da Van Basten a 18 anni e che altri avevano interpretato per te, prima troppo bene e poi troppo male, ti ha dato una sola partita della vita, questa, e tu l’hai decisa ispirando i tuoi compagni con un atteggiamento da campione. Per ogni Nemo costretto a fare il profeta all’estero, c’è un Ciccio Cozza a cui viene data l’occasione di essere importante per una platea di pochi, e di farli sentire meno soli nella loro terra aspra, bella, selvaggia e difficile.

Questo mi ha insegnato Francesco Cozza: non importa quanto tu sappia di essere bravo, importa solo che giochi come sai, come se fosse l’unica cosa da fare, anche quando sai che non c’è nessuno che ti ricompenserà portandoti al Bernabeu o all’Old Trafford, o a un ritiro di Coverciano. Sei un grande giocatore quando fai qualcosa per gli altri come se lo dovessi a te stesso. A quel punto non c’è differenza tra un gol in finale di Champions e un gol in uno spareggio per rimanere in Serie A.

Antonello CUCCUREDDU

Negli anni in cui il numero delle maglie non veniva assegnato in base al nome, ma in base al ruolo ricoperto in campo, c’erano comunque una quindicina di giocatori per rosa, esclusi i ragazzi, a dare comunque un senso di continuità, di abitudine all’occhio del tifoso, desideroso di riconoscere al volo i propri beniamini. L’incubo assoluto di questo senso di comodità visiva fu, nella stagione 1975–76, Antonello Cuccureddu da Alghero, jolly tuttocampo della Juventus, che indossò ben sette diversi numeri di maglia, con altrettanti ruoli ricoperti: il n. 2 (contro Napoli, Roma, Bologna, Sampdoria e Perugia), il n. 3 (Verona, Como, Fiorentina, Cagliari e Cesena), il n. 4 (Fiorentina), il n. 7 (Como), il n. 8 (Verona), il n. 10 (Inter e Ascoli) e il n. 11 (Torino). Questo accadde non perché fosse uno spaccone o un indeciso, ma perché davvero Cuccureddu era un giocatore duttilisismo, capace di ricoprire più ruoli: mezzala, mediano, terzino, laterale di centrocampo, addirittura poteva talvolta sopperire all’inferiorità numerica in fase offensiva, dato il suo destro teso, forte e preciso da fuori area. In particolare nel 1975–76 non gli servì a molto, dato che lo scudetto lo vinse il Torino, ma più di 300 presenze in 11 anni di Juventus, per un totale di sei scudetti vinti, lo aiutarono a consolarsi, col senno di poi.

Renato CURI

Con i suoi movimenti brevi e il suo tocco di palla rapido e pulito, Renato Curi ci ha tirato un brutto scherzo, disabituandoci all’idea di un tempo che fosse inverso al suo, di un attimo interminabile, il più lungo e atroce, quello in cui il suo cuore si fermava in campo, contro la stessa Juventus alla quale un suo gol era costata lo scudetto che sarebbe andato al Torino. Tuttavia, quando il cuore di Renato smise di battere, iniziò a farlo più forte quello di tutta Perugia, e di tutti quelli che hanno amato, e amano tutt’oggi il sorriso caloroso di un ragazzo di 24 anni con due baffi da uomo. Noi lo sappiamo, perché anche il nostro batte più veloce.

Vincenzo D’AMICO

Una volta — e una volta sola — mi è capitato di giocare a pallone con Vincenzo D’Amico. In realtà giocava a pallone solo lui, noialtri correvamo avanti e indietro giocando a Fifa nella nostra testa. Non era il D’Amico degli anni da calciatore, ovviamente, e nemmeno quello degli anni di poco successivi al suo ritiro, era il Vincenzo già oltre i cinquant’anni, una versione decisamente extralarge e canuta di quello che scendeva in campo con la maglia della Lazio. Ecco, trent’anni dopo il suo ritiro posso dire che si tratta esattamente del tipo di giocatore cinquantenne che nessuno vorrebbe trovarsi davanti a calcetto, quello che ti fa correre a vuoto e tira da dove gli pare, e anzi si vede che spesso non tira per non umiliarti. Guascone, alla mano, dalla risata contagiosa, è ancora adesso un enfant terrible intrappolato nel corpo di un ex calciatore. Quando si guarda indietro alla sua carriera si sottolinea sempre quanto sia stato incostante sul campo e quanto di più avrebbe potuto fare col suo talento. E le ragioni ci sono tutte, era un sontuoso funambolo, audace, abilissimo nello stretto e dotato di un piede fatato. Tuttavia, se deludere le aspettative nel calcio di oggi è un rischio quasi da mettere in contro per un atleta (data la maggiore intensità e la maggiore pressione psicologica ed economica sulle sue spalle), farlo trenta/quarant’anni fa, con un talento come quello di Vincenzo, era quasi un atto rivoluzionario, una firma d’artista.

Nando DE NAPOLI

De Napoli è un simbolo più che un uomo. Calciatore straordinario, certo, uno che abbinava grinta, fiato e piedi buoni, uno dei motivi per cui il Napoli di Maradona non era solo “Il Napoli di Maradona”. Berlusconi lo comprò da Ferlaino solo per toglierlo alla concorrenza si dice, ed in effetti l’avventura in rossonero non è stata eccellente per De Napoli ma ripetiamo: De Napoli è un simbolo. E’ l’Irpinia post terremoto, è l’avellinese coerente che gioca nel Napoli tifando Avellino. E’ il rivale amato dal popolo partenopeo, è l’uomo serio, il soldato del mister. Non a caso il suo soprannome era Rambo, non solo per una somiglianza leggera con Sylvester Stallone. Ci vorrebbero più De Napoli nel calcio moderno, ecco tutto.

Daniele DE ROSSI

Come tutte le strade che portano verso il mare, Daniele De Rossi è uno di quelli che non puoi raccontare come racconti gli altri. Le statistiche non lo hanno mai aiutato, per ruolo e caratteristiche: nessun telecronista ha voglia di urlarti il numero dei palloni recuperati e non andrà mai a cercare i suoi contrasti per conteggiarli. Forse è vero che ci sono tante utilità nel calcio che non rientrano nel mondo conosciuto perché non quantificabili in cifre. De Rossi sfugge all’analisi tattica entry-level. Per fortuna, davvero. È una fortuna perché non puoi svilire con un numero ciò che nemmeno le parole e le frasi e i discorsi e i libri sanno descrivere con sincera completezza. Non possiamo dire che Daniele De Rossi è un grande calciatore, sarebbe folle pretendere di guidare il cervello verso la soddisfazione con questa banale definizione. Daniele De Rossi è quell’amico che ti viene a prendere alle 3 di notte se sei troppo ubriaco. Ti viene a prendere e poi ti porta a casa sua, col divano imbandito e una bacinella vicino al cuscino. Daniele De Rossi è quell’amico che si fidanza sempre con quelle sbagliate, ma solo perché è innamorato di una sola, quella che dimenticherà solo dopo l’ultimo respiro. Daniele De Rossi è quell’amico che ha fatto diverse cazzate. Ma più lo guardi e più pensi che le abbia fatte solo per stupirti con la bellezza dell’espiazione, la profondità del voler rimediare. Daniele De Rossi è quell’amico che conosci da una vita ma che sa sempre rinnovarsi, dentro di sé e nei rapporti. Daniele De Rossi è quell’amico pieno di soldi e pieno di comoscenti poco eleganti e molto stronzi che gliene fanno una colpa. Daniele De Rossi è la carriera dei sogni di un bambino, il bambino che eravamo e il bambino che ancora ci dà i migliori consigli, nascosto tra le nostre maturità. Daniele De Rossi è un grande calciatore, anche.

Giancarlo DE SISTI

Immaginate un Andres Iniesta veloce come un atleta normale degli anni ’60, anzi, immaginatelo con una corsa media, neanche troppo accentuata, e senza gli eventuali fronzoli o rischi che ogni tanto si è concesso. Ora, dato che corre anche meno, come potrete immaginare questo Iniesta al rallenty non entra in porta col pallone, no, non sia mai, lui lo passa molto prima. E questo è quello che è stato Giancarlo De Sisti, detto Picchio, per il calcio italiano. Uno dei più grandi passatori mai visti sui campi di Serie A. Assist sicuri, pochi svolazzi, tanta concretezza, ordine, metodo, regia minimale ma con un controllo del pallone da fuoriclasse, con la cura formale di un numero 10. Partito dalla sua Roma, approda alla Fiorentina e ci rimane 9 anni, vincendo anche uno scudetto, prima di tornare a casa, in una compagine giallorossa con meno pretese di quelle che avrebbe avuto di lì a qualche anno, ma in cui il posto di bandiera gli spettava di diritto.

Alessandro DEL PIERO

Tra la piuma e il tuono, tra l’attimo e l’eterno, raccontare Alessandro Del Piero vuol dire essere disposti a rovistare tra gli spazi intermedi senza dimenticare però quelli infiniti. Alex ha avuto il compito ingrato di prendere il calcio di Roberto Baggio e portarlo nel nuovo millennio sfiorandone la sintesi senza però raggiungerla mai. Ha portato la croce di chi non era il più creativo di tutti ne il più prolifico, è stato un equivoco quando il mondo idolatrava le certezze. Questo gli ha fatto perdere qualche giro, qualche certezza, l’ha fatto cadere qualche volta di troppo, ha permesso ad altri di prendersi quello che poteva essere suo.

Eppure spogliato da tutti i suoi dubbi, Alessandro Del Piero è stato un esperienza meravigliosa. Etereo quando si trattava di infilare parabole all’incrocio, grave quando c’era bisogno di prendersi la sua squadra sulle spalle, vederlo giocare era come vedere un animale raro nel suo habitat naturale. Ha rappresentato una certa idea di calcio — che era la sua di idea — e per vent’anni si è sforzato di portarla avanti con la stessa maglia, con la stessa faccia ogni giorno, con l’enorme consapevolezza di essere Alessandro Del Piero, mai il migliore eppure sempre il migliore.

Marco DELVECCHIO

Marco Delvecchio E per fortuna che voi non ce l’avete Google, signori dell’iperspazio, perché è ricco di informazioni almeno quanto delle distorsioni che le riducono ogni volta a gossip; vedete, Google reagisce a certi stimoli del divenire, cosa che gli umani hanno definito nella coesistenza con la tecnologia e che voi, presumo, avete degnamente sublimato. No dico perché a leggere oggi di Marco Delvecchio penserete sia un ballerino fedifrago, mentre invece è stato uno dei maggiori attaccanti degli ultimi decenni: imprendibile sulla fascia, dove fu adattato contro la natura del suo fisico longilineo, puntuale quando è stato chiamato a tornare al centro dell’attacco, a prendere posizione e fare gol importanti. Uno, quello se lo ricordano tutti, quell’Italia-Francia in finale di Euro 2000, tacco di Totti, cross di Pessotto, e questo qui che spunta in mezzo a dare l’idea di essere pesante come una prima punta, leggero come una seconda, capace di progressione di corsa in copertura da esterno. Dai basta cercare su Google e lo trovate su. Cosa? Ah voi non ce l’avete? Vabbè alieni ma un po’ evolvetevi però.

Agostino DI BARTOLOMEI

Di Agostino mi manca la serietà, perché quando ti pagano per divertirti è quanto di più sincero si possa donare a chi su di te fa affidamento; la tecnica, perché è necessario esserne padroni, se si vuole essere padroni del gioco; il tratto sul foglio, perché per far viaggiare il pallone e metterlo esattamente dove deve stare, bisogna saperne immaginare le traiettorie come se fossero disegni; il modo in cui piazza il pallone a terra, con la cura e la dedizione di chi non diresti mai che sta per calciarlo dritto in porta come un aereo che buca le nuvole al decollo. Ma soprattutto di Agostino Di Bartolomei mi mancano le braccia alzate con un’altra maglia addosso, in un pomeriggio in cui mi ha spezzato il cuore, e lo sai perché? Perché, dopo che mi ha dato così tanto, sapere che non sono riuscito a restituirgli altrettanto mi fa pensare che probabilmente era lui ad avere ragione quel giorno. Perché quando deludo qualcuno che ho tanto amato, non facendogli capire quanto l’ho amato a mia volta, voglio che me lo faccia notare con uno schiaffo, non con il silenzio. E soprattutto perché è meglio saperlo da un’altra parte, e nutrire la speranza di parlarsi ancora, di restituirgli i suoi colori, piuttosto che avere la certezza di non potergli più chiedere scusa, e di non averlo più al mio fianco, con la sua fascia di Capitano. Quella che non ho mai immaginato lontana dal suo braccio.

Angelo DI LIVIO

Angelo Di Livio è stato un soldato della fascia, che fosse il caso di fare l’ala o il terzino. Lo chiamavano proprio Soldatino per il modo legnoso in cui correva, ma sotto sotto il vero motivo era l’applicazione militare con cui interpretava il calcio. Raccontano le cronache che dopo un’intervista in cui Conte disse che vinceva ma non si divertiva, Di Livio gli fece trovare in spogliatoio un foglio con scritto “se vuoi divertirti vai all’una park”. Tralasciando la grammatica è una frase che esaurisce bene Angelo Di Livio, uno che è arrivato nel calcio che conta a 27 anni eppure è stato in grado di prendersi tutto giocando da campione in mezzo a tanti campioni veri.

Era così tanto un soldato che aveva anche una sua mossa speciale che chiamava la frenata, faceva sempre quella, ma ci ha saltato migliaia di avversari. Era una mossa piuttosto semplice, arrivava sul fondo e invece di crossare si spostava il pallone indietro col tacco disorientando l’avversario. E niente, questo è tutto quello che ho da dire sul Soldato Di Livio.

Totò DI NATALE

Mica di Natale ce l’ha il fisico per fare la prima punta. Di Natale è piccolo, scattante, intelligente e abilissimo con i piedi, ha il sorriso sprezzante, sornione e sicuro di chi non abbozza per quieto vivere, solo perché sei più alto o più popolare, è un gioiello di seconda punta sulla carta; ma a lui segnare piace. È bellissimo quando infila la palla in rete, a giro, di precisione, deviandola sottomisura, di rapina, persino di testa. Di Natale è stato una grandissima prima punta, capace di segnare in ogni modo, dalla faccia simpatica e fedele alla propria squadra, che manca tanto al nostro campionato, soprattutto quando la domenica si guarda la diretta da Udine e non c’è uno con la numero 10 che ha segnato un gran gol da attaccante vero. Soprattutto quando guardi la classifica marcatori e non ce lo trovi più; ci avevi fatto l’abitudine a vederlo lì, in testa a gente molto più quotata, molto più giovane e con addosso maglie assai più blasonate.

Marco DI VAIO

A causa di Marco Di Vaio, un giorno non lontano, ci guarderemo indietro e ci interrogheremo, e dovremo trovare delle risposte concrete a quelle domande. Come te lo spieghi che Marco Di Vaio abbia fatto meglio in provincia che nelle grandi città? Com’è possibile che un attaccante veloce, concreto, costante, con ottima tecnica, bravo a saltare l’uomo e a puntare la rete abbia dovuto girare così tanto, consacrandosi solo per brevi tratti in cima alla classifica (lo scudetto del 2003 con la Juventus e due discrete stagioni in bianconero non gli garantirono la conferma) e guadagnandosi la fama di goleador con la valigia? Saranno stati gli eventi, la casualità; sarà stato a causa dei tanti, fortissimi attaccanti stranieri in Serie A in quegli anni, del fascino esterofilo che faceva passare in secondo piano quei talenti di casa che, per assenza di sponsor o perché più fortunati, venivano considerati maggiormente adatti alla maglia della Nazionale? Non se lo sono mai spiegati neanche Alessandro Nesta e Francesco Totti, suoi amici dai tempi in cui ci si incontrava sui campetti romani da bambini. Loro l’hanno sempre detto ai quattro venti che Di Vaio avrebbe meritato molto di più, per quanto era forte. Fatto sta che, ovunque sia andato, si è portato appresso valanghe di gol: 269 in tutto, e anche un buon bottino di trofei, tra coppe nazionali e internazionali, in poco meno di vent’anni di attività.

Angelo DOMENGHINI

Non è facile fare l’ala. Si deve correre tantissimo, saltare l’uomo, subire tanti calci, e il più delle volte si finisce per passare la palla a un compagno che si prenderà tutta la gloria. Ma è anche bellissimo fare l’ala, uno dei ruoli più poetici e bohémien che esistano nel calcio. Angelo Domenghini è stato una grande ala, non una qualunque, uno che dribblava e crossava, sì, ma segnava pure tanto. Lo ha fatto vestendo la maglia dell’Inter, del Cagliari, della Roma e della Nazionale. Vincendo tre scudetti, una Coppa dei Campioni, due Intercontinentali, un Europeo con tanto di gol decisivo per l’1–1 nella prima finale con la Jugoslavia, e sfiorando il Mondiale. L’ha fatto dimostrando che per vincere un campionato è meglio avere un’ala destra come Domenghini che un centravanti come Boninsegna. Soprattutto se in squadra hai già Gigi Riva. Domingo correva, dribblava e crossava, segnava e faceva segnare, e le squadre in cui giocava vincevano.

Roberto DONADONI

“In attesa che gli stranieri si ambientino, il Milan va in vantaggio con Donadoni, che è italiano, ma ha piedi di origine controllata”. Questa è presa da un servizio di Novantesimo Minuto, per un gol chissà contro chi, con un tiro a palombella da fuori area. E sembra tutta qui la carriera di Roberto Donadoni, primo acquisto del Milan di Berlusconi nel 1986: arrivarono i Van Basten e i Gullit a strapparsi copertine, c’era Maradona e non c’è altro da dire, ma poi nel silenzio di un’emulazione emotiva, quando la palla finiva tra i piedi, dalle nostre parti i bambini si mettevano il turbo di Donadoni, quel dribbling stretto e letale, la padronanza dello stretto e del controllo in velocità. Lo rivedo Donadoni che arriva sul fondo, ha scartato tutti, ma no, non c’è niente da fare, perché crossare se c’è ancora spazio, allora prende e volta verso dentro l’area, il difensore non se l’aspetta, ma non gli sta dietro e quello corre che non finisce più. Prima di tornare a vincersi l’ultimo scudetto da riserva storica al Milan, finì in America prima di molti, ai Metrostars di New York; una volta lo vidi correre verso la porta per tirare uno shootout, su un campo con le righe di football, riadattato per il soccer. Ma con sopra uno che parlava italiano. La lingua di chi sa giocare a calcio.

Cristiano DONI

Al momento di sfogliare il catalogo degli oggetti disponibili, più di una domanda si alza sulle esultanze. Chi il ciuccio, chi la mano all’orecchio, chi il «guardami bene». Però qualcuno non capisce quella mano sotto al mento di Cristiano Doni. Forse è dovuto a una carriera irta di difficoltà, più auto-procurate che scese dal cielo. Di fronte a quelle tecniche, ha reagito più che bene, altrimenti non avrebbe disputato un Mondiale da giocatore dell’Atalanta, in quella che forse è la squadra con il maggior talento che l’Italia abbia mai portato a una Coppa del Mondo. «Per me questa maglia è speciale, come il costume che trasformava Clark Kent in Superman», disse Doni. L’avessi indossata più a lungo, forse, non saresti inciampato dove sei inciampato, costringendoci a stare qui a non parlare solo e soltanto di quei due piedi da riscrittore di geometrie in salsa liberty.

Gianluigi DONNARUMMA

Quando la maggior parte dei suoi colleghi aveva già esordito tra i professionisti (Buffon addirittura già in Nazionale) il buon Gigio Donnarumma faceva i suoi primi respiri. Nella linea temporale dalla quale vi scriviamo è incredibilmente giovane, ed è straordinario, quasi indisponente il suo talento. Probabilmente mai si è vista una tale mole di sapienza calcistica in un ragazzo così giovane perché il portiere del Milan non è solo dotatissimo dal punto di vista tecnico ed atletico, ma è una persona matura, è “calmo, freddo, distaccato… tipo Zoff”. Le indicazioni date da Giacomino a Giovanni in “Chiedimi se sono felice” si rispecchiano perfettamente nel prodigio di Castellammare di Stabia, un ragazzo costantemente sotto età e sovradimensionato, uno che a 17 anni è in grado di portare sulle sue spalle un fardello enorme come la difesa della porta della Scala del Calcio. Gli alieni sono impressionati da questo ragazzo, perché pensano sia uno di loro.

Giacinto FACCHETTI

fluidificante [flui-di-fi-càn-te] agg., s.

  • agg. Che scioglie, che rende fluido
  • s.m. Nel sign. dell’agg.
  • Nel calcio, difensore laterale dedito alla manovra offensiva, dotato tecnicamente; che ha l’abilità di saltare l’uomo e di proporsi con tiri o cross dalle fasce.

Per un ruolo così (terzino fluidificante eh, non il lemma del dizionario) ti aspetti uno agile, bassetto, tutto scattante. E invece il primo a rinnovare questa posizione nel pallone è stato un cristone biondo e sbarbato alto 188 centimetri, praticamente un colosso per l’epoca, dallo sguardo di ghiaccio e dal carisma magnetico. Giacinto Facchetti, che da ragazzo aveva iniziato da attaccante, che Helenio Herrera mise a giocare a sinistra anche se il suo piede era il destro. Giacinto era un Capitano. Lo vedevi da come batteva la mano sul petto di Rivera quando questi entrava in campo al posto del suo compagno di squadra Mazzola. Facchetti era un uomo di sport, qualsiasi cosa accadesse, il gioco doveva avere tutta la serietà di cui lui era capace, tutta la sua lealtà. Per il modo in cui è stato in campo, per tutto il tempo in cui c’è stato, Giacinto Facchetti è e sarà un esempio; non credere a chiunque ti dirà diversamente.

Giuseppe FAVALLI

Longevo, polivalente, reattivo, basso profilo. Sottovalutato, ma non da chi l’ha conosciuto davvero.

Ciro FERRARA

Ciro è tutto quello che è stato e che poteva essere ma che poteva anche non essere. Uno dei difensori più forti della sua generazione, che non doveva neanche giocare al calcio. Ciro ha avuto una brutta malattia, la sindrome di Osgood-Schlatter, una malattia alle ossa che colpisce i ragazzi in età preadolescenziale e costringe gli sfortunati alla sedia a rotelle. La crioterapia, grandi dosi di farmaci e fisioterapie continue faranno diventare Ferrara il gran terzino che è stato. Il gol in finale di Coppa Uefa e le lacrime per aver portato a Napoli un titolo europeo prestigioso, la gioia da condividere con i suoi concittadini. Doveva essere l’erede di Maradona con la fascia di capitano, ma la crisi lo ha portato alla Juventus, dove ha vinto tutto ciò che c’era da vincere. Oggi è odiato ed amato in Campania, oggi è amato in Piemonte. La cosa certa, è che Ciruzzo è stato un difensore irripetibile, un terzino completissimo ed un calciatore che ha saputo adattarsi ai cambiamenti del calcio, restando ai vertici anche quando la Serie A era una sorta di NBA del calcio, quando era richiesto marcare Ronaldo, Baggio, Totti, o prima ancora, Platini e Van Basten.

Stefano FIORE

Stefano Fiore, calabro, sbocciato a centrocampo. Per abbellirlo, per decorarlo, per disegnare nuove fantasie, perché il verde è bello ma che smetta di essere monotono. Stefano Fiore, al centro del campo, ma niente che stranisca l’occhio, niente che scomodi lo sguardo, che sia sulla fascia o che sia sulla trequarti, l’importante è che sia armonia.

Alessandro FLORENZI

Il gol da 55 metri al Barcellona, in Champions League, il 16 settembre 2015, non è la cosa migliore o la più rappresentativa di Alessandro Florenzi. Non lo è perché Alessandro Florenzi è costanza e non (solo) episodio. Non lo è perché Alessandro Florenzi è corsa e non (solo) colpo. Non lo è perché Alessandro Florenzi è uomo, non star. Solo chi non lo conosceva, dopo quel giorno all’Olimpico, lo ha frainteso. Chi ha apprezzato la sua crescita umana e professionale, dallo Scudetto Primavera in poi, sa benissimo che se proprio un gol va cucito intorno ad Alessandro Florenzi si tratta di quello con il Genoa, campionato 2014/2015. Al 93' la Roma suda, soffre e rischia di subire il pareggio, lui pressa Tino Costa e gli ruba la palla, coast to coast di 60 metri e destro sotto la traversa, con conseguente corsa sotto la Sud. Riguardatelo, poi chiudete gli occhi. Quella sensazione lì è Alessandro Florenzi.

Romano FOGLI

Troppo simile al popolo per essere definito un illuminista e troppo dotato per essere rinchiuso nel termine mediano, Romano Fogli ragionava, impostava e non tirava indietro la gamba. Tre anni a Torino, dieci a Bologna di cui uno scudettato, due a Milano in tempo utile per vincere Coppa dei Campioni e Intercontinentale, e quattro anni a Catania da consapevole dispensatore di calcio a fine carriera, Romano Fogli ha rappresentato quanto di meglio il calcio italiano ha saputo offrire a centrocampo a cavallo tra gli anni ’50 e i ‘70.

Giuseppe GALDERISI

Giuseppe Galderisi ha vinto anche abbastanza, ha dimostrato anche parecchio (giovanissimo e già efficace, lo ha allontanato dalla Juve solo l’arrivo di Paolo Rossi e Platini, per dire), si è reso protagonista centrale di una enorme impresa mai davvero riconosciuta dal calcio italiano, ossia lo scudetto dell’Hellas; eppure resta negli annali e nella percezione comune come una figura secondaria, se non peggio. Un po’ per quel Mondiale 1986, che è un po’ il 2010 di un’altra generazione; un po’, forse, per il suo essere incongruo, poco scenografico, basso, dai tratti caricaturali, pesantemente meridionale in un calcio ancora nordista. Fatto sta che di Nanu Galderisi resta l’immagine di un mediocre che ha fallito le prove della maturità — in una Nazionale al tracollo e in un Milan imbarazzante, a dire il vero — e non quell’altra faccia, quella, che pure sarebbe legittimo, dell’idolo di uno scudetto incredibile. Ma va bene così, in fondo: anche i mediocri, i bassini, anche chi sbaglia le occasioni ha diritto di essere ricordato e di restare. E in fondo l’ultima impresa di Nanu, la salvezza in A di un Padova assurdo e spettacolare, rientra a pieno titolo nella carriera straordinaria di un uomo (considerato) piccolo piccolo.

Gennaro GATTUSO

Avete presente il momento in cui Gennaro Gattuso ha deciso di ritirarsi dall’attività agonistica smettendo di giocare a calcio? No? Bravi, perché questo momento non esiste. A Sion è passato dal centrocampo con la fascia di capitano al braccio alla panchina, da un mese all’altro, senza mai smettere e ricominciare ed è stato proprio questo bug (che a dire il vero nel calcio succede molto raramente) a riconsegnarci un personaggio la cui portata storica è stata moltiplicata e resa immortale.
Gattuso ha vinto tanto in carriera, ha vinto tutto e ha fatto di necessità virtù rendendosi indispensabile grazie al suo essere sanguigno e passionale, in campo e fuori. Gennaro ha avuto dal campo forse molto più di ciò che meritava ma se c’è una cosa che lo ha davvero premiato è stata la letteratura sportiva che lo ha incastonato in una dimensione eterna fatta di aneddotti così numerosi, inconsistenti e puerili da generare una dimensione parallela in cui a Glasgow si coltivano peperoncini calabresi mentre Gattuso, ancora visibilmente ubriaco dal post-Mondiale, zappa la terra usando Andrea Pirlo come attrezzo.

Claudio GENTILE

Vent’anni, finale unica di Coppa Intercontinentale contro il funesto Independiente e volano schiaffi, morali più che letterali. Dalla panchina Vycpalek urla al ragazzo: “Ragazzo, se non ti svegli ne esci distrutto”. In quel momento preciso, Claudio si sveglia, tutto cambia. Claudio Gentile è un uomo che ha vissuto per tutta la carriera di esagerazioni. Nato in Libia da genitori italiani e viene soprannominato Gheddafi, marca Zico e Maradona, usa le maniere forti, e gli viene affibbiata l’etichetta del killer per tutta la carriera. In realtà è proprio nelle lamentele di Maradona e, soprattutto, nell’immagine del dieci strappato sulla maglia di Zico, che si esalta l’essenza calcistica di Gentile: la fantasia veniva minacciata, frustrata, aggredita con tutta la dedizione possibile, ma nessuno si faceva male. La fantasia non se l’aspettava, era abituata a molta più libertà, non aveva mai visto niente di così rude da metterle paura in quel modo. Eppure nessuno si faceva male. Crudo, Gentile, ma corretto. Ti spintonava, ti innervosiva, ti pizzicava, ma ti lasciava intero. Una sola espulsione in carriera, per fallo di mano. Non era neanche stopper come talvolta crede chi non l’ha visto giocare, bensì un terzino basso, destro, un marcatore stretto, proiettato sull’avversario più forte: l’ideale per un gioco difensivo. E infatti.

Giuseppe GIANNINI

Da piccolo volevo essere da grande come Giuseppe Giannini; bello, coi capelli lunghi, elegante, rinascimentale, moro. Faceva i passaggi corti con magnanimità, quelli lunghi con saggezza; severo nel tirare i rigori e giusto nel difendere i compagni; nessun amico gli rese servigio e nessun nemico gli recò offesa, che egli non abbia ripagato in pieno. Purtroppo il suo principato decennale, instabile per la pessima situazione economica, non arrivò mai alle eccellenze precedenti o successive; come tutti i romanisti fu segnato da grandi e cocenti sconfitte nazionali e internazionali; e quando fu il momento di abdicare, e consegnare i gradi del comando al suo erede, nel giorno del suo triste addio comunque pieno di dolci ricordi, i barbari invasero lo stadio e lo misero a ferro e fuoco, ed egli ormai stanco fu costretto a ripiegare, lasciando l’Olimpico alla mercè dei vandali. E allora capii che forse non volevo essere esattamente come Giannini, però grazie, come se avessi accettato.

Alberto GILARDINO

Il problema di Gilardino è che probabilmente non gliel’ha mai detto nessuno, che è Gilardino; e lui, essendo uno che viene dalla provincia, di suo non se n’è mai reso conto. O non ha osato pensarci. Eppure a volte dev’essergli balenato in testa, quel lampo: “Ma io che segno di testa, di piede, che tengo palla, che faccio salire la squadra, che ho tecnica, ho carisma, sono corretto, trascino i compagni, la metto d’astuzia, la infilo di forza, so girarmi, so aspettarla: non sarà che sono un grande attaccante?”. Ma poi no, la modestia di un uomo nato a Biella deve averlo obbligato a scacciare quest’idea. Chissà se Gilardino è cattolico, e se vive con disagio la propria grandezza; questo per dire i guasti del cattolicesimo sulla psiche degli italiani. La carriera di Gilardino sono in sostanza due costanti: lui che segna; lui che delude. In mezzo a queste due rette che non si possono toccare né geometricamente né logicamente scorre, come un fiume placido, la vita calcistica di Gilardino, più di 180 gol in serie A (giocando per lo più in squadre medie o mediocri). Gila parte piano: a Piacenza e Verona gioca poco, segna poco, delude un pochino. Dopo la prima stagione a Parma risulta che abbia un’ottantina di presenze in A, certo con tanti spezzoni, e solo una decina di gol. La stagione 2003/04, di conseguenza, la stagione in cui esplode e segna in continuazione, viene vista come un’anomalia: prima o poi, si pensa, anzi molto presto, Gila tornerà alla sua dimensione solita di mezza delusione. Per questo non viene neanche convocato, lui miglior marcatore italiano del campionato, ad Euro 2004; si inaugura dunque in quell’occasione la bella e razionale abitudine di non convocare mai Gilardino in Nazionale, con la sola eccezione del Mondiale 2006 e di quello del 2010. D’altronde perché convocare uno che ha avuto una stagione fortunata? Si dice così da dodici anni; e prima o poi qualcuno, se non altro dopo il ritiro del Gila, si vanterà di aver avuto ragione. Forse sono i capelli. È vero che segna, per carità, è anche un atleta e un professionista esemplare, ma quei capelli? Vi paiono credibili? Ed ecco che Gila spacca Italia-Germania in semifinale mondiale e non gioca un minuto in finale, sicuramente per evitare che uno con quei capelli appaia in mondovisione, e poi che figura facciamo coi mauritani? Si fatica a ricordare un centravanti completo ed efficace come Gilardino; certo non nella sua generazione, ma ce ne sono pochi anche se diamo un’occhiata di insieme a tutta la storia del calcio italiano. E si fatica ad immaginare, per dire, uno che potesse arrivare in doppia cifra nel Palermo 2015/’16. Arriverà presto il giorno in cui i detrattori di Gilardino potranno dichiarare conclusa la sua striscia fortunata, durata al momento tredici anni e centottanta gol in A. Magari, un po’ più in là, giungerà anche il momento della riabilitazione del Gila, dei suoi capelli, dei suoi innumerevoli gol, della sua intelligenza tattica, dei suoi movimenti che in Italia non fa nessun altro da un po’. Gilardino, cui è sempre mancato qualcosa: Gilardino, che alla prima presenza in viola segna all’ultimo minuto contro la Juve, difendendo palla e girandosi da quel grande centravanti che è. E cosa ottiene: un pareggio! In fondo in quel pareggio c’è tutto Gilardino, e mannaggia alla provincia e al cattolicesimo italico.

Bruno GIORDANO

Uno scugnizzo di Roma, un pischello di Trastevere. Dice che lo hanno salvato un prete e una parrocchia ma la verità è che lo hanno salvato il pallone e il campo della parrocchia. Mentre Roma inghiottiva molti suoi amici, lui si prendeva un posto nella memoria della Roma laziale, segnando 108 goal in 254 partite con la maglia bianco-celeste. Poi venne la stagione 85–86. “Quando mi feci male mi mandò un telegramma da Barcellona. Mi volle con tutte le forze al Napoli, diceva che ci assomigliavamo. Venivamo da due quartieri simili, da due condizioni sociali simili. Eravamo due scugnizzi, a Napoli, senza essere napoletani”. Bruno Giordano, parlando del suo passato. Quel telegramma glielo mandò Diego Armando Maradona, lo voleva nella squadra che stava costruendo per fare la sua rivoluzione, per attaccare il potere, a modo suo. Bruno, in maglia azzurra segna e fa segnare. Soprattutto vince, uno Scudetto e una Coppa Italia nella stessa stagione, la 86–87. Era l’elemento che collegava il Ma al Ca, quando c’era Carnevale e quando c’era Careca. Attaccava la profondità, aggrediva il pallone, annichiliva l’avversario ancor prima del contrasto. La veemenza con cui calciava il pallone non eliminava assolutamente la precisione. Segnò il goal con cui il Napoli ribaltò il vantaggio di Laudrup, all’Olimpico di Torino, contro la Juventus capolista. Molti dicono che quel gol spalancò al Napoli le porte del Paradiso. Sarebbero stati anni bellissimi, a partire da quel goal al settantaquattresimo del secondo tempo, il 9 novembre del 1986.

Sebastian GIOVINCO

Il cherubino più bello di tutti, così piccolo da trovarsi a suo agio in un fazzoletto di terreno, in un taschino, nei minuscoli spazi lasciate dalle muscolose cosce dei difensori. Tanto coccolato, tanto benvoluto da tutti, al primo accenno timido di possibile cessione sembrava che l’Italia intera avrebbe fatto la fila anche solo per poggiarselo sulla spalla e permettergli di scagliare quelle piccole frecce che tanto amava. La storia è andata diversamente, come il peggior Lucifero di sempre, Sebastian è stato relegato all’inferno a stelle e strisce, ricacciato con forza nelle Americhe, nella porzione di Mondo dove i gol hanno un peso specifico minore rispetto al Vecchio Continente, laddove lo sguardo lungo del Commissario Tecnico della Nazionale non riesce proprio ad arrivare. Esiliato per sempre, condannato a godersi da solo la sua spericolata motoretta, versando lacrime per la tanto amata Italia.

Giuliano GIULIANI

Immaginate che infanzia possa aver avuto da ragazzino, questo portiere nato a Roma e trasferitosi presto ad Arezzo, con un nome così. Fortunatamente c’era il campo a cancellare gli sfottò.

Era un Giaguaro quel Giuliani che ha curiosamente condiviso il percorso con un altro grande (e sottovalutato) portiere degli anni ’80, Garella. Giuliani è il portiere che ha sostituito Garella sia al Verona, sia al Napoli, sia all’Udinese. Un’altra storia triste però: Giuliani morì nel ’96 dopo aver contratto l’AIDS, in un periodo nel quale questa malattia era sinonimo di morte certa, in un periodo in cui le persone si vergognavano di averla contratta perché significava avere a che fare con ambienti o situazioni che venivano considerate tabù. Le malelingue e il mondo del pallone uccisero Giuliani abbandonandolo al suo destino e ancora oggi il suo nome rimane nascosto come il rimosso che non si vuole affrontare.

Il GRANDE TORINO

Valerio Bacigalupo, portiere giovane e coraggioso, usciva tanto dai pali, più di quanto si vedesse fare normalmente all’epoca: uno sweeper keeper ante litteram; Aldo Ballarin, duttile cursore considerato il terzino destro più forte dell’epoca; Mario Rigamonti, forte difensore bresciano, insuperabile sia in campo che alla guida della sua motocicletta; Virgilio Maroso, un terzino sinistro con i piedi da numero 10, già all’epoca arrivava sul fondo e crossava, prima degli altri, era il più giovane della squadra e faceva impazzire gli avversari con le sue incredibili doti di palleggio; Eusebio Castigliano, uno dei primi, rocciosi mediani difensivi a fare della forte conclusione dalle retrovie un marchio di fabbrica; Giuseppe Grezar, triestino, uno dei più esperti e maturi della squadra, era un mediano elegante che usciva palla al piede dalle situazioni più difficili; Ezio Loik, mezzala fiumana, otto polmoni, soprannominato l’Elefante per via delle sue movenze lente ma imponenti, faceva su e giù per tutto il campo e costruiva la manovra granata; Guglielmo Gabetto, il cannoniere implacabile, ceduto dalla Juventus che a 25 anni lo riteneva già vecchio, realizzava gol all’apparenza impossibili con i suoi guizzi acrobatici e istintivi; Romeo Menti, vicentino trapiantato a Firenze, quintessenza dell’ala destra; Franco Ossola, letale ala sinistra e spina nel fianco di tutti gli avversari; e infine Valentino Mazzola, giocatore irripetibile: mezzala sinistra che aveva racchiusi in sé tutti i pregi del centrocampista e tutti quelli dell’attaccante. Numero 10 prima che se ne decretassero i crismi, goleador, capo carismatico e primo tra tutti gli altri. Nel suo gesto di rimboccarsi le maniche, ogni qual volta il gioco sembrava ristagnare, e di richiamare la squadra all’ordine fino a vincere la partita in un quarto d’ora o poco più, c’è tutta volontà che serve a un Paese per uscire dalla sua pagina più brutale, per restituire al gioco il tempo che gli era stato sottratto, e alle gambe qualcosa per cui correre. Nella fine tragica del Grande Torino, invece, nell’epilogo mozzato di un gruppo di uomini che fu costruito con calma e costanza, fino all’ultima riserva, non c’è nessun senso, nessuna lettura, nessuna consolazione. Il gioco, il 5 maggio del 1949 riprese e continua ancora oggi in ogni altro luogo, ma se la sua fine avesse un indirizzo, sarebbe la collina di Superga.

Ciccio GRAZIANI

Ci sono gli attaccanti per il gol, gli attaccanti per se stessi e gli attaccanti per i fotografi. Ciccio Graziani era un attaccante per la squadra. Un senso del sacrificio e della spinta indefesso, quasi religioso, se non avesse avuto quell’andatura dinoccolata a rendere ogni suo sforzo meno epico e più neorealista. L’unica cosa che non bisognava mai fargli fare era tirare i calci di rigore. Davanti a quelli non si tirava mai indietro, e però senza successo. In coppia con Pulici al Torino, poi, trovò sul campo una di quelle combinazioni astrali che sarebbe bello trovare sempre nella vita. Dopodiché, quanti centravanti conoscete che abbiano parato diversi tiri a un Pallone d’oro? Nel 76–77 infatti Ciccio sostituì il Giaguaro Castellini infortunato nella sfida di ritorno contro il Borussia Moenchengladbach e negò la gioia del gol ad Alan Simonsen con uno scatto felino. Il Toro non passò il turno, ma quantomeno quella sera non uscì sconfitto. La grandezza di Ciccio Graziani sta tutta qui, nella sua refrattarietà a ogni protagonismo: fu più facile parare tutto l’unica volta in cui giocò in porta che segnare un rigore nell’arco di tutta una carriera.

Ricciotti GREATTI

Ricciotti sta lì, nel cerchio di centrocampo, col suo portamento elegante e quel nome preso in prestito da uno dei figli di Giuseppe Garibaldi. Ricciotti recupera palla e la smista ai compagni, la riceve ancora e la passa di nuovo, la riceve un’altra volta e verticalizza. Sa già dove metterla, a chi darla. Il più delle volte quel ricamo ha un destinatario ben preciso, gioca con la maglia numero 11 si chiama Gigi Riva, viaggia a una velocità di corsa e tiro superiore a qualsiasi difensore. Ricciotti lo sa, lo conosce da quando era un ragazzino, e quando gli passa la palla, di solito, finisce bene.
Ricciotti Greatti, nato a Basiliano in provincia di Udine, svezzato in Serie A dalla Fiorentina, è un altro di quegli eroi dell’unico scudetto mai visto in Sardegna a non aver più lasciato Cagliari. E senza i suoi piedi, probabilmente, non avremmo mai raccontato la stessa storia.

Fabio GROSSO

Se dici Fabio Grosso dici Germania e dici 2006. Se volessimo dare adito a quelle idee un po’ bislacche che affermano che ogni vita umana ha un picco e tutto il resto è in ricerca di quel picco, con Fabio Grosso, terzino solo polmoni, saremmo in grande difficoltà: quel picco è nel gol alla Germania o nel rigore finale alla Francia? Io ho un chiaro vincitore della Picco Cup: quel gesto tecnico del tiro a giro col mancino che non gli appartiene, quella corsa impazzita e lui che ride e piange insieme, celebra il suo gol e insieme lo nega: “No, non sono io questo, non è successo”. E invece è successo Fabio. Ancora ti ringraziamo per questo.

Dario HÜBNER

Quando si scorrono i capocannonieri della Serie A e si fa riferimento solo a quelli italiani, a un certo punto si incontra quello che su Proxima Centauri si chiama un glitch. Dario Hübner è stato infatti l’unico a farsi proclamare capocannoniere in tutte le categorie professionistiche del calcio italiano, una vera macchina da gol. Un totem, un bisonte al galoppo tra la bassa e l’alta Padania. Figlio di Muggia dalle origini tedesche, ha giocato appena cinque stagioni in A delle 23 in carriera, tenendo però una media-gol da 0.52 reti per annata. Ha una media di un gol ogni due partite in B, battuta solo da chi ci giocava negli anni ’30 e ’40. Solo per questo su Proxima Centauri gli andrebbe dedicata almeno una strada.

Ciro IMMOBILE

La carriera di Ciro il Grande dal salotto di Torre Annunziata allo SkyBox dell’Olimpico di Roma è un disegno grande come una fetta di Europa meridionale che rappresenta la paura.
La paura di tutta la gavetta trangugiata con forza, potente come la paura di esser finalmente diventato grande a Torino ma coi colori granata addosso.
La fottuta paura della Germania e di qualunque posto che non sia casa, “la musichetta della Champions” come diceva Inzaghi e i 4 gol in 6 partite. La paura di sbagliare, riprovarci e poi sbagliare meglio come insegna la filosofia spicciola dei giorni nostri, e da tutta questa paura Ciro ne è uscito ancora più grande, più prolifico, più uomo, più acrobata, più ariete, più goleador completo.

Lorenzo INSIGNE

Quanta musica c’è nel suo nome? Da pronunciare tutto unito, LorenzInsigne, oppure da accompagnare con il suo soprannome, il Magnifico o Tarantella, a seconda dei punti di vista.
Insigne è il giocatore che nessuno di noi vorrebbe essere perché provateci a vivere una vita essendo paragonato prima a Cassano, poi a Maradona, poi a rispondere che non è un bad boy, questa non è vita.
Provateci voi a esser di Napoli, giocare nel Napoli davanti agli amici di tutti i giorni e sentirvi dire che soffrite troppo la pressione e il clima della città. Come se temessi le mura di casa mia da un giorno all’altro. Fortuna che Lorenzo cambia il colore ai capelli e gioca a fare il sordomuto, con la stampa e con le critiche. Fortuna.

Filippo INZAGHI

C’era questa specie di linea che saliva e scendeva. Alcuni lo chiamavano “filo”. Al di là del filo c’era la morte. Alcuni la chiamavano “trappola”. Se riuscivi a vivere costantemente appeso a quel filo, allora eri Il Re.
Inzaghi era (ed è) Il Re di quella terra di nessuno, quel “filo del fuorigioco” con cui giocava, se lo passava tra le dita, sulle labbra, saltellava avanti, poi indietro, poi improvvisamente di nuovo avanti e via, da solo, lui e il portiere, quel poveraccio di cui non aveva alcuna pietà.

C’era solo il gol nella sua vita. Viveva su quel filo, rischiando, perchè non sapeva fare altro. Probabilmente non sapeva nemmeno palleggiare. Eppure aveva bisogno del gol e allora, come un arciere cura il suo arco per aumentare la possibilità di centrare il bersaglio, lui curava quello che non era neanche un fondamentale, quel saper leggere, vedere il filo in attesa di spezzarlo e poi correre, correre gridando, correre gridando e agitando le braccia in completa trance.
Non era mai esistito prima e non esisterà mai più uno come Filippo Inzaghi.

Armando IZZO

Le vele tatuate sulla gamba; il chiacchiericcio sulla vicinanza ai clan e le combine di Serie B; i boss che a 15 anni gli dicono “Armà và jucà o’pallon”. Armando Izzo viene da Scampia e non se ne vergogna, è lottatore nella vita e calciatore per non poter altro inventarsi. È arrivato dall’’estrema periferia nord della città alla Nazionale, passando dalle giovanili del Napoli, per la Triestina e per il Partenio di Avellino. Dai monti irpini al ponente di Genova, Armando tiene il fisico e la testa, una bella famiglia e tiene figli. Qualcuno lo prende in giro per l’inglese che latita, per l’italiano stentato, ma Izzo è pasoliniano per provenienza e vissuto. “Armà ma sti alien’ che vann truvann?”.

Antonio JULIANO

Juliano Antonio, detto Totonno, di San Giovanni a Teduccio, nasce nel 1942. Con la società partenopea giocherà 394 volte, molte delle quali con la fascia da capitano, e sarà l’emblema di una Napoli che non è solo casino e macerie. Juliano era un centrocampista dal piede delicato, in grado di mettere ordine e dettare i tempi di gioco come pochi a quel tempo. Era un leader nato ed è per questo che a 23 anni gli viene affidata la fascia di capitano di una squadra in netta ascesa che arriverà dietro il Milan di Rocco, dietro la Juve ma che visse la sua avventura più grande nel 1976 quando in una squadra fortissima con Savoldi, Braglia, Burgnich, Bruscolotti, Montefusco, che riuscì a vincere la Coppa Italia. Il primo trofeo dell’Era Ferlaino. Gioca 3 mondiali (prende parte anche alla famosa finale del ’70 a Città del Messico, il punto massimo dell’arte di Pelè) e diventa cavaliere per volere di Saragat. E’ un napoletano atipico, nonostante l’accento fortissimo. E’ riservato, schivo, è un Uomo di Libertà in un corpo di un Uomo d’Amore, ed è grazie a questo connubio che è ancora oggi amato in città (oltre che per il fatto che da dirigente ha acquistato Krol ed un tale argentino riccioluto che ha fatto benino a Napoli).

Gianluigi LENTINI

Noi George Best non ce l’avevamo mai avuto. Ma se fosse stato italiano, avrebbe giocato nel Torino. Perché una volta c’era Gigi Meroni, l’unico che ci si poteva avvicinare per numeri, difetti e temperamento, e per tanta, tanta classe; Meroni morì male, per la strada, in un incidente. Invece Gianluigi Lentini uscì miracolato da una Porsche gialla che mi ricordo accartocciata sui giornali; e non era arte contemporanea, quella. Lo era semmai quel che sapeva fare in campo, dribbling in progressione, tiro potente, visione di gioco che dalla fascia penetrava la diagonale verso la porta: Lentini è stata la più grande promessa del calcio italiano, o meglio, la più grande tra quelle non mantenute. Ma del suo tocco di palla, sparito quando per la cifra allora record di 20 miliardi (ma qualcuno ne giura 10 di più fuori busta) passò dal Torino al Milan, voi non potrete fare a meno. A proposito ma da voi, alieni, i capelloni pieni di talento se lo mettevano l’orecchino? Da noi sì e, pur facendo i calciatori, pur finendo malamente a giocare nel Canelli o nella Saviglianese, pur finendo a gestire un ristorante a Carmagnola, li ricorderemo sempre come delle rockstar.

Attilio LOMBARDO

Popeye correva sulla stessa fascia di Caniggia, partiva più arretrato dell’argentino ma, rispetto al Pájaro, poteva contare su molta meno zavorra in testa a farlo andare come il vento. Ma soprattutto, oltre a correre, Attilio Lombardo resisteva, non finiva mai il fiato: 144 partite consecutive in serie A, cioè quattro anni e due mesi senza fermarsi mai. Il suo correre non fu mai a vuoto, è stato uno dei pochi giocatori italiani a poter contare tre scudetti con tre maglie diverse (Sampdoria, Juventus e Lazio), altrettante supercoppe nazionali con altrettante maglie e due coppe Italia. Il bottino internazionale, poi, fu di prim’ordine: compensò la finale di Coppa Campioni persa ai supplementari con la sua Sampdoria vincendo, seppur da riserva, la Champions League con la Juve e rilanciando con l’Intercontinentale qualche mese dopo, e poi due Supercoppe europee (Juventus e Lazio) e due Coppe delle Coppe (Sampdoria e Lazio). Il suo segreto fu non considerare mai l’ipotesi di fermarsi.

Cristiano LUCARELLI

A chi è cresciuto con il suo mito come me è stato insegnato che per parlare di Cristiano basta parlare dei livornesi, perché Cristiano è Livorno. A 360 gradi, proprio. Il pugno chiuso non sapendo neanche bene cosa stesse facendo, magari credendoci relativamente. E poi l’amore incondizionato, le reazioni di pancia. “Gli arbitri ci penalizzano perché siamo comunisti”, ricordo disse in un’intervista. E poi le litigate come fai solo con chi ami, come dopo i fischi dopo un pareggio che puzzava di combine con la Reggina. E poi è meglio dividersi perché ci amiamo troppo, come dicono le fie. Perché a Livorno le ragazze sono le fie. E poi il tradimento, come quello di Parma, perché a Livorno nessuno apprezza quello che ha. Cristiano però lo ricordo alla festa dei 100 anni del Livorno, con Lenny Bottai sul ring e gli Assalti Frontali sul palco. Lui credeva di essere di troppo, perché con Livorno qualcosa si era rotto. Me lo merito di stare sul palco? Rispondemmo tutti in coro, con una cantilena in suo onore che sembrava non dovesse finire mai. Cristiano, quella sera, sul palco, pianse. E io capii che, nonostante tutto, nessuno avrebbe mai potuto dividerci.

Ardico MAGNINI

Attenzione alieni: Magnini e Cervato vi hanno già visti, esattamente il 27 ottobre del 1954. Si giocava all’allora Comunale di Firenze un Fiorentina-Pistoiese, quando verso le due e mezzo del pomeriggio comparve sopra il Duomo, ben visibile dallo stadio, un oggetto non ben definito, un po’ scuro, circondato da una luce accecante. Rimase lì per una decina di minuti rilasciando “capelli d’angelo”, poi sparì. La cosa fu tempo dopo spiegata con un’esercitazione militare, e il fenomeno dovuto ai test sulle contromisure chaff, basate sulla dispersione di materiale riflettente che interferisce con i radar. Guardate che stavolta non ci ricaschiamo, lo sappiamo che siete voi, inutile fare i vaghi.

Ardico Magnini è un classe ’28, nato calcisticamente mezz’ala nella Pistoiese, poi consacratosi terzino destro in viola (brillante intuizione dei maestro Ferrero) e in azzurro. Fu una delle colonne della Fiorentina di Fulvio Bernardini, quella del primo scudetto ‘55/’56, e della non brillante né fortunata nazionale italiana del dopoguerra, quella eliminata al primo turno nel pasticciato mondiale del ’54. Ma da perno di quella viola, Magnini c’era anche nella finale di Coppa Campioni persa nel ’57 a Madrid, contro i campionissimi del Real, partita del quale Ardico conserva un prezioso ricordo: un cucchiaio d’argento, regalatogli dall’arbitro Horn, che lo aveva ha sua volta ricevuto dai dirigenti nel ricevimento del dopogara. Horn gli aveva fischiato contro il fallo da rigore che portò al vantaggio dei blancos, firmato da Di Stefano, ma quel fallo avvenne un metro fuori area e la cosa destò polemiche e sospetti. “Caro arbitro, lei l’ha fatta grossa…”

Cesare MALDINI

Immaginavo fosse difficile vincere 4 campionati e una Coppa dei Campioni da capitano, poi smettere, concepire il più forte e longevo terzino della storia, ricominciare da allenatore, vincere una Coppa Italia e una Coppa delle Coppe poi diventare CT della nazionale U21 e vincere tre europei di seguito e, nonostante tutto questo, rimanere una persona estremamente gradevole e divertente.

Allora decidemmo di parlarci. In due ore ci raccontò tante cose che per noi erano storia: la Battaglia di Santiago (“Mah, alla fine non fu nulla di strano, le abbiamo prese ma le abbiamo pure date eh”), l’infanzia di Paolo (a cui diceva sempre che “aveva un piede solo”), poi le vittorie e i grandi campioni allenati. Tutto come fosse normale. Tutto come se vivere la vita che aveva costruito fosse davvero l’unica via disponibile. Quindi, beh, poi è morto, non da tanto, e non so se eventualmente lo riportereste in vita per poi polverizzarlo. In ogni caso, tolta tutta la parte epica, non lo fate: Cesare Maldini era davvero una gran bella persona.

Paolo MALDINI

La velocità del tempo: Seduto sulla panchina interstellare di via ExoMars 41d un uomo, protetto nella sua tuta d’ardsulfuripside, si protegge dai meno 63 °C di una serata di una stagione qualsiasi, che tanto qua su Marte sono sempre tutte le stesse. Gli alieni c’hanno portato via tutto, sono rimasti giusto i ricordi e questo cellulare perla che il malconcio stringe tra le mani. Dal dispositivo protetto da una cover a poco prezzo, presa insieme alla tuta prima di partite per un viaggio che non voleva affrontare, l’uomo sente un vibrare diffuso quando lo schermo si illumina. Un’epifania. C’è Baresi che tocca palla al ragazzo dai capelli lunghi e il fisico asciutto. Mentre questo corre e corre come un matto, con l’intera squadra del Brescia a corrergli dietro come un branco di predatori farebbero con la preda. Paolo veloce, Paolo come un treno, arriva in area di rigore e tira pulito, preciso, perfetto con il sinistro. Gol. Nel momento in cui il video si conclude, la riproduzione casuale lascia partire le immagini di una notte di decadi e decadi fa, eoni, ere geologiche irriconoscibili in questa fredda notte di una stagione qualsiasi a meno 63 si vede giusto Pirlo battere una punizione mentre in area danzano uomini con le maglie scelte a contrasto — “che classe, che stile avevamo noi due, squadre senza tempo e senza paura”. Paolo impatta la sfera facendola sbattere in terra. L’uomo urla Maaaaldiniiiiii, richiando di perdere il fiato e l’elmetto che lo aiuta a respirare. Quando abbassa nuovamente gli occhi sullo schermo questo è nero. Spento. Il telefono si è spento. Ha fatto in tempo a tenere vivo il ricordo del difensore più bello di sempre, più fedele di sempre. Ora intorno è tutto scuro. Cala la notte nel freddo dei meno 63.

Franco MANCINI

Franco Mancini era un ottimo portiere, e una persona a cui tutti volevano bene. Se n’è andato a 43 anni, poche ore dopo aver terminato l’allenamento del Pescara con il suo maestro, Zdenek Zeman. Con il boemo ha condiviso tutta la carriera, a partire dal Foggia, da quella Zemanlandia che ha impressionato l’Italia degli anni ’90. Era un portiere atipico, un calciatore atipico. Innanzitutto era molto basso per il ruolo, era al di sotto del metro e ottanta, abbondantemente, ma era un felino tra i pali. Bravo con i piedi, bravo nelle uscite. Nel tempo libero leggeva libri e suonava la batteria, per alimentare la passione per la musica reggae che lo ha accompagnato per tutta la vita. Legatissimo alla sua città natale, la meravigliosa Matera, legatissimo alla sua città adottiva, la focosa Foggia, a lui dedicata la gradinata dello Stadio XXI Settembre di Matera e la Curva Nord dello Zaccheria di Foggia a simboleggiare questo rapporto con i tifosi, che lo hanno amato tutti, nessuno escluso, proprio per il coraggio di sfidare i giganti, sempre a testa alta.

Roberto MANCINI

Il Mancio si muoveva con un’eleganza ancien régime, una specie di distacco altezzoso che in una frazione di secondo assumeva la forma cieca di un istinto animale, che lo guidava qui e là, dall’inserirsi in area di rigore al trovare l’angolo giusto. Segnare, mah, era volgare. Meglio far segnare gli altri. Se proprio era necessario ok si segnava, ma a quel punto meglio segnare spettacolarmente. La cosa pazzesca nel gioco di Roberto Mancini era la naturalezza con cui eseguiva prodezze acrobatiche come una mezza rovesciata e gesti tecnici come un colpo di tacco preciso e puntuale. Tutto, in lui, aveva un che di rinascimentale: armonia, proporzione, controllo formale. Simpatia ne aveva poca, concretezza molta, classe ancora di più.

Luca MARCHEGIANI

Ho imparato ad amarlo nel suo momento peggiore. Italia-Svizzera, al Sant’Elia di Cagliari, il 14 ottobre del 1992. È come se fossi portato per natura a stare dalla parte di chi sta sul ciglio di un burrone profondissimo, in totale assenza di equilibrio. Ricordo pomeriggi interminabili passati a simulare partite non viste, su campi di gioco che erano strade strette, campi irregolari che mesi prima erano melai, o campi d’oratorio su cui giocavamo di nascosto, durante le funzioni religiose, quando non c’era nessuno a controllare. Io faccio il 10! Io sto sulla fascia! Io ho già la 7! Io faccio il centrale di difesa! Io faccio il Marchegiani! Cosa? Ogni volta mi giravo sorridendo, guardando dietro al gruppetto di ragazzini come me, conosciuto più o meno in quel momento. Era sempre lui, un ragazzino che a Luca gli somigliava parecchio. Aveva una maglia di Marchegiani, regalatagli da uno zio di Roma. A lui di giocare in avanti non importava niente. Lui giocava come Marchegiani. Le parava tutte. Le andava a prendere negli angoli alti, in volo. Anche se sarebbe caduto puntualmente facendosi del male. Lui andava a prendersi il pallone, impedendo a noi altri di segnare. Era il ’92. Noi amavamo lui, non Pagliuca, ne Peruzzi. Noi amavamo Luca Marchegiani. Sentivamo che era lui il più forte. Stavamo per crescere troppo in fretta, avremmo giocato sempre meno, per strada, nei campi, in oratorio. Sarebbe rimasto il più forte di tutti. Forse lo è ancora, nell’immaginario di chi lo ha visto giocare.

Claudio MARCHISIO

È un fatto di tempo: avere un tempo dentro la testa e nelle gambe e nei piedi che è esattamente quello della partita di ogni momento di ogni partita. Marchisio entra ed esce dal gioco senza romperne il flusso. Ci viaggia dentro, lo accompagna, lo scandisce. Non frattura mai la partita: se entra in possesso ricevendo dai suoi, con il primo controllo schiude soluzioni improvvisamente facili; se invece ruba palla agli altri, il suo primo tocco dopo quello dell’avversario è già il primo tocco di un attacco. È con i tempi giusti che muove il pallone, è con il tempo giusto che si inserisce, è con tempismo che intercetta, è perché ha i tempi che sbaglia poco, pochissimo. Ogni partita di Marchisio è un lungo, elegante, assolo di basso.

Daniele MASSARO

Allora alieni, quando ero ragazzino il calcio esisteva solo da questa parte del mondo, voglio dire, l’Oriente era una roba esotica che al limite ci andava in vacanza quello del terzo piano, o solo lo diceva per farsi bello, ma non era mai stato più a est di Teramo. Ma la passione, cari alieni, ti portava da ragazzino a svegliarti di mattina e guardare qualche mezza amichevole delle prime tournèe fuori continente delle squadre europee, a caccia di marketing, di soldi. E allora questi partivano, a volte si facevano pure prestare giocatori da altre squadre (ho visto cose che manco voi ai bastioni di Orione…), giocavano contro rappresentative mandorlate, strappavano applausi da protagonisti anche fossero stati dei comprimari. Tra di loro, quella volta, quella mattina, mancava qualcuno che si mettesse a terzino destro nel Milan di mille record; ai record aveva dato il suo contributo Daniele Massaro, detto Provvidenza, attaccante che definire di scorta è un delitto, ma ci andò lui a nascondersi in una parte di campo che non gli spettava, lontano dai riflettori della star. Ecco, quello è lo spazio dove Massaro ha saputo conquistare trofei, campionati, coppe intercontinentali, fare gol in finali di Coppa dei Campioni, giocare finali mondiali. Leggenda narra che abbia indossato, nel calcio senza numeri personali, tutti i numeri di campo dal 2 all’11. E non se li è mai giocati al Lotto. Tanto a vincere vinceva uguale.

Marco MATERAZZI

Materazzi: Dio non me ne voglia, ma la prima cosa che penso quando penso a Marco Materazzi è quel motivetto nefasto che si conclude con un entusiastico “Materazzi ha fatto gol”, che ha accompagnato — anche se sarebbe meglio dire ossessionato — me, i miei amici e chiunque avesse un’antenna e ricevesse i canali Mediaset per più di un’estate successiva a quella del 2006. Per quanto fastidiosa, però, quella suoneria, riesce a racchiudere — a grandi linee — tutta l’essenza del Materazzi che conta: nella sua carriera, il numero 23 dell’Inter è riuscito a essere fastidioso, sulla bocca di tutti, di facciata odiato ma sotto sotto apprezzato, proprio come quella dannata suoneria. A Marco, mi perdonerà se lo chiamo per nome, voglio un gran bene; valeva la pena dirlo perché probabilmente sono uno dei pochi.

Sandro MAZZOLA

Se c’è una cosa inconfutabile della figura di Sandro Mazzola, è che fu un predestinato. Il suo debutto è propiziato dalla decisione di schierare nel derby d’Italia la De Martino (la Primavera dell’epoca), per puntare i piedi contro l’accolto reclamo juventino di rigiocare la partita già assegnata a tavolino alla Beneamata. Il risultato fu di 9 a 1 per il padrone Agnelli (all’epoca — toh! — anche della Federcalcio). È la partita di addio di Boniperti e Mazzola, per l’appunto all’esordio, sarà l’unico marcatore nerazzurro. Sandro aveva 18 anni ma non era il primo segno che il Fato gli avesse consegnato. Suo padre, Valentino, fu uno dei più grandi giocatori italiani mai visti, la cui carriera fu stroncata dal tragico incidente di Superga. L’esordio di Mazzola primogenito nella nazionale juniores avvenne a Lisbona, la stessa città dalla quale papà Valentino non tornò mai. La sorte, ancora, fece sì che a segnalarlo al Mago Herrera fu Meazza, fornendogli quella bocca da fuoco che metterà in ginocchio Puskás e Di Stefano, porterà l’Inter ai vertici mondiali, inchinandosi solamente al cospetto di Cruijff e Pelé.

La sua presunzione dentro e fuori dal campo, però, ha spesso riconsegnato alla Storia i connotati della sua innata leadership come un sopruso. Gli haters del buon Sandrino possono appoggiarsi sulla leggenda dell’infinita staffetta con Rivera (dipinto come l’unico vero fuoriclasse) o, a dar adito alle peggiori malelingue, sui potenziali trofei mancati da una compagine nettamente superiore alle avversarie, tra cui le cocenti sconfitte con Celtic e Ajax in finale. La provvidenza, compagna di banco del protagonista della prima squadra pop del calcio italiano, volle che la sua ultima partita disputata fosse un derby: una finale di Coppa Italia, persa.

Giuseppe MEAZZA

Prima di essere stato uno stadio, Giuseppe Meazza è stato un grande calciatore. Il primo vero artista del calcio italiano, il primo ad anteporre il genio al pragmatismo, a mostrare agli italiani che il calcio poteva essere una cosa bella: una forma d’arte, persino. A Meazza non piacevano le giocate banali e ogni azione era l’occasione per mostrare quante cose possono essere fatte da un piede che tocca un pallone. Attraversava le difese con la leggerezza di Mercurio, preferendo tirare solo una volta che aveva mandato il portiere col culo a terra. Si diceva che Mezza segnasse “al ritmo del fox-trot”. L’architetto De Carlo lo definiva così: «Meazza era un vero creativo: non applicava mai soluzioni “tipologiche”, ma segnava gol fantasmagorici. Con movimenti imprevisti, impossibili da prevedere».

Prima di essere uno stadio, Giuseppe Meazza è stato il primo divo del calcio italiano. La sua faccia era sopra le réclame di dentifrici, spazzolini, saponi. Si diceva che preferisse il sesso con le donne agli allenamenti e la vita in balera alla vita da campo. Per questa sua virilità vitalista Meazza era soprannominato “Balilla” e idolatrato dal regime di Mussolini. È stato a lungo il miglior realizzatore della Nazionale, superato da Riva commentò sarcastico: «Bravo quel Riva, ha segnato tanti gol giocando contro Cipro e Turchia». Ritiratosi ha allenato per un periodo la primavera dell’Inter, svezzando Giacinto Facchetti e Sandro Mazzola.

Dal 1980 Giuseppe Meazza è anche lo stadio più bello d’Italia.

Gigi MERONI

Gigi Meroni è tutta l’irregolarità di una gigantesca e multiforme rivoluzione culturale quando la costringi ad adattarsi su strade quadrate, di pietra e fuliggine, in cui l’unico elemento a cui è concesso perdere il controllo è la folle corse di macchine cieche. Gigi Meroni è chi decide di parlare agli altri di sé stesso per ciò che è, e non per ciò che li rassicura. Gigi Meroni è per chi deve dormire in soffitta, e si accontenta di un tetto a spiovente se gli regali una finestra da cui guardare il cielo. Per poter dire di aver capito il gioco è necessario averlo praticato anche fuori dal campo, essere nati ignari della monotonia dei ruoli, dei compartimenti stagni. Per farsi beffa delle consuetudini è necessario essere leggeri, estranei al rancore che ne matura l’urgenza.
L’estro, come la ribellione, non è una scelta ma la sua assenza.

Fabrizio MICCOLI

Miccoli, per un certo periodo di tempo, è stato Palermo. E viceversa. Capocannoniere e giocatore con più presenze in serie A dei rosanero, cittadino onorario di Corleone, ora la città (o parte di essa) lo rinnega con disprezzo. Non è una cosa da poco dire “quel fango di Falcone” a Palermo, e si porta dietro una serie di atteggiamenti di cui in Sicilia proprio non hanno bisogno. Mi piace pensare che Miccoli quella frase, così come quel tatuaggio di Che Guevara se vuoi infantile sulla gamba sinistra (ricordo un’intervista, disse “l’ho fatto perché mi piaceva come simbolo, poi ho letto la sua storia”), l’avesse detta per fare il grosso al telefono con Mauro Lauricella, figlio del boss del quartiere Kalsa di Palermo, così come si cerca di fare i bulli quando si frequentano i bulli, anche se non è nel proprio carattere. Anche perché Miccoli, con quel destro lì, quel baricentro basso, quell’amore per il gioco e una storia quasi sudamericana alle spalle tra documenti falsi per farlo giocare fuori quota e le giovanili da futura promessa nei grandi club, di questa merda non aveva bisogno. Esiliato dalla Sicilia tutta, è tornato a giocare nel calcio minore, prima per il suo Lecce poi per il Birkirkara, squadra di Malta, per quest’ultima soprattutto come fosse un’espiazione o una punizione. Restano i suoi numeri notevoli, più o meno un gol ogni tre partite, e il ricordo di giornate in cui si accendeva e davvero sembrava il Pibe di Nardò.

Vincenzo MONTELLA

Io Vincenzo Montella non riesco a spiegarmelo. Probabilmente il miglior centravanti italiano della sua generazione ma un rapporto complicato con la Nazionale. Una statura esigua ma un colpo di testa eccezionale. Un sinistro che sapeva essere delicato e al tempo stesso potentissimo. Una fame di gol da rapace d’area ma anche un assistman coi controfiocchi. Come lo spieghi Montella? È come spiegare perchè ti sei innamorato di quella tua compagna di classe quando avevi 13 anni: come fai? Non so come spiegarvelo se non invitandovi a cercare “gol montella” su quell’orgia di refugium peccatorum che sulla Terra chiamiamo Youtube. Tra quelle decine di video con basi musicali discutibili troverete tutta la mia difficoltà nel rendere l’idea di quanto fosse forte quel piccoletto mancino con la riga in mezzo che, dopo ogni gol, apriva le braccia e volava sorridendo.

Riccardo MONTOLIVO

nel panorama del calcio italiano Montolivo è un personaggio atipico, non conforme alla idea comune di leader. Non ha il folklore di Gattuso, la spacconeria di Totti, l’esuberanza di Cannavaro. Non è un personaggio-forte come Gigi Buffon ed è sì serio come Andrea Pirlo, ma non in quel modo introverso e misterioso che rende così affascinante il centrocampista della Juve. Montolivo è una figura sobria, lontana dai cliché, una specie di finto gregario. Uno di quegli eroi incompresi ma non così tanto da diventare dei veri personaggi incompresi. In un’intervista rilasciata nel 2005, ad inizio carriera, al Guerin Sportivo, già aveva dichiarato, sospirando, «Mi hanno sempre chiesto di più».

C’è nella figura di Riccardo Montolivo e nella sua parabola umana un’inguaribile malinconia. È la malinconia di chi si è sbattuto molto e ha ricevuto poco, di chi fa tanto ma non è mai abbastanza, di chi è così serio da essere frainteso per timido. La malinconia di chi paga solo la propria incapacità di offrire epos a un universo come quello del pallone che ne ha sempre bisogno.

Domenico MORFEO

Giocare in attacco nella nazionale italiana nel decennio tra il ’96 e il 2006 era decisamente difficile. C’erano tutti i più forti, quelli che erano tra i più forti anche del mondo. Però se avevi il sinistro di Domenico Morfeo avresti dovuto almeno provarci. Ma lui non ci provò nemmeno. Troppo talento, troppa classe, troppa precisione balistica per dover anche imparare a giocare con gli altri, a stare in un “sistema di gioco”, a rincorrere l’avversario. Lui stava li, in quei quaranta metri tra il centrocampo e il dischetto dell’area avversaria, perchè quel piede, quel genio, li doveva stare. Ad aspettare un pallone appena recuperato da un rozzo compagno per trasformarlo nella più preziosa delle perle da buttare dentro.
Oppure aspettare una punizione. Che la prendesse qualcun altro, si intende. Perchè quel piedino li, quel Re Mida dei piedi, era venuto al mondo per quello.
Mimmo Morfeo, in quel decennio tra il ’96 e il 2006, in nazionale non ci ha mai giocato. Ma non credo se ne crucci poi troppo. Il suo calcio voleva essere solo bello, niente di più e niente di meno.

Roberto MUSSI

Allora, uno che di professione fa il terzino già di suo non è proprio che abbia caratteristiche estremamente frizzanti, se poi è un terzino di fascia destra i suoi exploit si limitano a buone coperture, rapide accelerazioni, diagonali salvifiche su quell’attaccante che, senza avvertire prima, si è liberato del marcatore. Ma c’è sempre un momento in cui la vocazione alla linea retta unidirezionale incontra un’ostruzione che mi piace pensare sia del cuore che dibatte la ragione: e allora alieni seguitemi, voi siete Roberto Mussi, siete al Mondiale ’94 non proprio con il posto fisso da titolare, che non avete neanche nella squadra di club, a essere precisi, ma se ormai siamo all’ultimo minuto di un ottavo di finale e state perdendo contro la sorpresa Nigeria, beh allora la linea si piega e sì, voi punterete dritto verso l’area di rigore, un rimpallo, la corsa, capelli rossi nel vento…ma poi vi ricorderete che l’epica non ha giustizia, che il cavallo è di Ulisse, le armi di Aiace, il tallone d’Achille, nulla d’altri; così allungherete la palla all’unico tra i presenti nel raggio di chilometri che sul codino porta il battesimo della storia. Esulterete insieme, ma è chiaro a tutti che l’unico a finire nei libri sarà quello col codino, finché un giorno un filologo del codice sacchiano dell’anno 22 Dopo Bearzot vi troverà trascritto sulla fascia destra. Solo allora arriverà il vostro turno per la gloria.

Alessandro NESTA

Cosa deve avere un difensore per essere considerato il migliore al mondo? Il senso della posizione, la scelta di tempo, la capacità di avanzare e arretrare all’unisono con i compagni di reparto, la forza fisica e la velocità per tenere anche il più imprendibile degli avversari. Se poi è capace di uscire palla al piede e impostare la manovra, tanto meglio. Alessandro Nesta faceva tutto questo, meglio di chiunque altro. E lo faceva con un portamento da fuoriclasse. Testa alta, sempre, sguardo sul pallone, sui compagni, sugli avversari. Alessandro Nesta, che ha vinto uno scudetto da capitano della Lazio, due Champions League col Milan e un Mondiale con la Nazionale. Alessandro Nesta che se non fosse stato per il calcio dei debiti e delle spese folli forse non avrebbe mai lasciato la sua Roma biancoceleste, Alessandro Nesta che per l’Azzurro ha sacrificato ginocchia, piedi e gambe, non una ma tre volte, a Francia 98, Corea e Giappone 2002, Germania 2006. Alessandro Nesta, che non fosse stato così fragile avrebbe avuto solo secondi migliori difensori al mondo alle sue spalle. E forse li ha avuti comunque.

Gabriele ORIALI

Johan Cruijff andava pazzo per lui, diceva che era uno degli avversari più forti che avesse mai incontrato. D’altronde era stato Cruijff ad aver detto che nel calcio pesa molto di più la quantità e la qualità del tempo in cui ti muovi per il campo senza pallone. Gabriele Oriali era uno di quei giocatori che, non avendo i piedi per poter fare come faceva Cruijff, faceva come Cruijff predicava, come si addice a ogni bravo chierichetto (con i quali aveva in comune anche il parrucchiere). Pallina da flipper, peripatetico nel senso letterale dello scorrazzare avanti e indietro e in lungo e in largo, una vita da meme per via della patetica canzone di Ligabue, un effettivo valore letterario per via sia del ruolo che del suo personale spirito di sacrificio. Dopodiché, nella nostra linea temporale è molto noto per gli alti e i bassi della sua vita da dirigente, ma noi siamo più legati al campo.

Raimundo ORSI

In realtà Raimundo Orsi nacque ad Avellaneda, esordì nell’Independiente e chiuse la carriera in Sudamerica. Però nella vita gli capitò di essere la letale ala sinistra della Juventus dei cinque scudetti consecutivi, quella di Combi-Rosetta-Caligaris. Buffo che si pensi sempre alla difesa per rappresentare una squadra titolata dai record, ma è così. Orsi però fece abbondantemente il suo, con 76 reti in 7 anni di Juventus e il gioco fu fatto. Naturalizzato come oriundo, partecipò alla spedizione Mondiale del 1934, e la vinse. Nato argentino e morto pure, si guadagnò lo status di italiano sul campo.

Gianluca PAGLIUCA

Il paradosso di essere così forte e così perdente fa di lui un interista DOGC. Se Albert Camus avesse avuto quell’istinto da pararigori, sarebbe stato anch’egli interista. Non c’è niente di più intellettualmente apprezzato dell’essere coscientemente il numero uno, ma solo in potenza e non per limiti propri, ma per colpa di Sartre o della Juventus. Riuscì ad essere protagonista anche nell’atto finale dello scippo dello scudetto del ’98, parando un rigore a Del Piero. Purtroppo per questo pezzo di Storia felsinea, il periodo nero (azzurro) caratterizzò tutta la seconda parte della sua carriera, colpendolo proprio dove faceva più male, nel suo punto di forza, i calci di rigore: USA ’94, Schalke ’97, Francia ’98. Accompagnò le lacrime dei due giocatori più belli che abbia avuto l’onore di vedere, Ronaldo e Baggio. Ma soprattutto, baciò quel palo.

Massimo PALANCA

“Il gol di Palanca vale?”

Questa era la domanda che tutti ci facevamo, da piccoli, prima di cominciare una partita in uno dei campi improvvisati che eleggevamo a stadio ufficiale del quartiere. Nel nostro caso era un campo da basket abbandonato. Tutti sapevamo cosa significasse l’accezione “gol di Palanca”: una rete firmata tirando direttamente in porta da calcio d’angolo, senza deviazioni. Ci si poneva il problema perché quasi sempre si usavano palloni di gomma tanto leggeri che pigliavano traiettorie impensabili e, solitamente, non avevamo il portiere.

Insomma, Palanca alla fine era un calciatore del Catanzaro anni ‘70/’80, con un sinistro pazzesco, un piede minuscolo e dei baffi sontuosi. Realizzò la bellezza di 13 gol direttamente da calcio d’angolo. Tanto da dare il nome ad un gesto tecnico ben definito. Come Cassina, per dire.

Christian PANUCCI

Christian Panucci sta, ed è stato, tutto nella mossa tipica che gli vedevi sempre fare in partita: il retropassaggio di testa al portiere. Attenzione, non si trattava di un retropassaggio qualsiasi. Lo stacco, il colpo, erano talmente violenti, talvolta anche a distanza ravvicinata, che fossero stati entrambi meno fieri e sicuri avresti temuto di avere di fronte, che so, Carsten Jancker o un altro di questi incornatori temibili, deciso a puntare la tua porta. Christian Panucci, grazie a Krishna, era talmente sicuro di sé quando incocciava in questi retropassaggi, che in realtà da quel brivido di timore per il possibile autogol alla fine riuscivi a trarre persino un sottile moto ondoso di piacere. D’altronde lui era pure sempre quello che in campo metteva per primo le mani in faccia agli avversari che facevano troppo i bulli. Sono io il bullo, qui, diceva. Non costringermi a metterti le mani in faccia, guarda piuttosto il mio retropassaggio, e fattelo bastare.

Ezio PASCUTTI

Povero Pascutti, ricordato per i motivi sbagliati. Siamo nel 1963 e l’Italia gioca contro l’Unione Sovietica. Il terzino che marca Pascutti entra spesso duro — è l’unico modo per fermarlo — e al 23’ Ezio reagisce male. Espulsione e sogno europeo svanito. Da Mosca torna con l’etichetta di attaccabrighe e con la fama di violento. Ma Pascutti non era affatto un violento ed anzi, non colpì mai con un pugno Dubinsky, il sopracitato terzino. Ma siamo negli anni ’60 appunto e le immagini sono merce rara, così come le controprove immediate. Era un’ottima ala, in grado di superare con facilità l’uomo nell’uno contro uno, leader vero e bandiera legata a doppio filo con la maglia del Bologna, con la quale ha convissuto per 15 anni, giocando 300 partite quasi e segnando più di 130 gol, in un Bologna magnifico campione d’Italia con Janich e Tumburus, con Bulgarelli e Nielsen, con Haller e Negri, allenati dal magnifico Fulvio Bernardini.

Eraldo PECCI

“Dovetti lasciare la mia città (Bologna), gli amici… seppi della mia cessione mentre andavo a morosa, dall’audio di una tv. Tornavo dalla nazionale militare e dovevo raggiungerla a ballare, sentii ‘Pecci al Toro’. Fu una giornata disastrosa perché poi vidi la morosa in discoteca con un altro… ero al Toro da due ore e avevo già le corna”.

In questo aneddoto retrospettivo sta tutto Eraldo Pecci, forse il più sottovalutato regista italiano di centrocampo degli anni ’70 e ’80. Erede diseredato di Bulgarelli al Bologna, all’inizio e alla fine della sua carriera, giovane prodigio con la personalità di un veterano al Torino scudettato, innesto di centrocampo di una Fiorentina arrembante, interlocutore di manovra di Maradona al Napoli, anche se per poco. In un mestiere di centrocampo che diventava sempre più muscolare e serioso, un dadaista incapace di prendere sul serio se stesso e il gioco non poteva che passare alla storia come un idolo di nicchia, ma ne è valsa la pena.

Graziano PELLÈ

Il cucchiaio è un oggetto dal design che da sempre mi affascina, è probabilmente la posata che può avere più variazioni di forme, che può lasciarti sbizzarrire di più nella creatività e nell’utilizzo. Il cucchiaio è tremendamente pieno di utilizzi e riconducibile a mille situazioni: il brodo natalizio, l’amico che non sei riuscito ad aiutare, il the con la Regina Elisabetta e quella volta che hai provato a fare il figo nella casa del padre della tua ragazza preparando l’assenzio. Ma in particolare, da spocchioso fallito quale sono, il cucchiaio da qualche mese è la miglior dimostrazione di vita: camminare spocchioso, testa alta e provocante, sistemarsi i capelli, mimare un gesto e fallire. Non provare empatia e anzi odiare Pellé dopo quel gesto, vuol dire essere dei mostri. I magnati del calcio cinese per esempio, i primi averlo capito, sono persone bellissime.

Sergio PELLISSIER

Negli ultimi quindici anni della nostra linea temporale la massima serie del calcio italiano è andata avanti facendo finta che al suo interno non ci fosse un’anomalia che, fino a un momento prima di palesarsi, non aveva conosciuto precedenti fenomenologici paralleli: questa anomalia si chiana Chievo Verona, squadra di quartiere con 360mila tifosi circa, solo una volta in Serie B dalla prima promozione. Il Chievo come metafora del ceto medio che coglie il mutamento sociale e ci si aggrappa, fino ad ascendere e a creare un nuovo status tutto per sé, di aurea mediocritas tra i grandi, decisa a sopravvivere in quella dimensione fino a diventare, negli anni, essa stessa espressione imprescindibile della Serie A moderna, a volte nel bene, a volte nel male. In questo scenario peculiare, antiromantico, realista, l’uomo simbolo di questa anomalia prende il nome e la forma di Sergio Pellissier, quindici anni al Chievo, 121 gol. Capitano e leader carismatico in campo, quintessenza del medio valore, che si aggrappa alle occasioni avute fino a crearne di nuove, e a imporre i suoi numeri. Campione tra i non campioni.

Mattia PERIN

Perché, Mattia? Perché? Con quella zazzera da reduce della Birmingham hard rock anni ’70, con quell’esultanza da compagno del liceo con cui bigiare scuola e andarsene al campetto a giocare a tedesca, e soprattutto con quei riflessi da gatto selvatico, con quella reattività da molla pronta a scattare, avremmo tutti voluto fosse amore oltre ogni diversità di pensiero, o comunque non conoscerlo proprio, il tuo pensiero, avremmo voluto rimanere a bocca aperta davanti alle tue parate e basta, sostenerti dopo ogni sventurato errore. Invece sei caduto nella trappoletta ormai arrugginita dello slogan territoriale su Twitter, di quelli che si rifanno a una storia indifendibile del Paese. Ma perché?

“Ho fatto erroneamente riferimento a fatti storici che non conoscevo appieno in tutta la loro tragica gravità. In un periodo non semplice a livello professionale, non ho avuto la lucidità per evitare di reagire a una serie di continue e gravissime provocazioni rivolte a me e alla mia famiglia. Tutto questo, ovviamente, non costituisce un alibi perché so di aver sbagliato sotto ogni aspetto e me ne assumo la responsabilità. Il dispiacere è reso ancora maggiore in quanto il mio atteggiamento non rispecchia i valori in cui credo e che cerco di perseguire”.

Mh, ok, ripartiamo da qui, ti crediamo. E adesso vola, facci sognare, saltiamo l’ora di matematica domani, ma non quella di storia.

Simone PERROTTA

Trovatevi un marito che vi guardi come Simone Perrotta guardava Francesco Totti. Perrotta è stato un onestissimo calciatore, niente da dire, ottimo corridore, buona tecnica, bravo padre e marito. Ma a un certo punto della sua carriera egli ha avuto l’immensa fortuna di trovare un partner che lo ha fatto diventare un idolo da ricordare ai nipoti davanti al fuoco d’inverno; un partner che ha dato un senso compiuto alle sue corse a perdifiato, alle sue scivolate, alle sue incursioni, al suo sfarfallonare sui campi di calcio. Totti è stato uno sposo perfetto per Perrotta, gli ha fatto mettere la testa a posto, lo ha preso per mano e lo ha portato fino all’altare del mondiale; tra i due è nata una sintonia telepatica che poche altre volte -e mai così a lungo- si è vista nella storia del football. Per farvi capire: prima di Totti, Perrotta ha disputato circa 240 partite in serie A, segnando 10 gol; insieme a Totti ne ha disputate altrettante, segnando ben 36 goal. Se andate a vedere queste 36 reti su youtube, vedrete che la metà sono tiri che Totti calcia volontariamente addosso a Perrotta e che in qualche modo finiscono in rete; oppure tiri che Totti calcia appositamente sul palo o sul portiere che poi sbattono su Perrotta ed entrano in rete. Perrotta sapeva esattamente dove avrebbe calciato Totti, senza nemmeno guardarlo; e Totti sapeva esattamente dove si sarebbe trovato Perrotta dopo aver calciato, solo annusando l’aria. Volevo chiudere dicendo che Perrotta è l’unico giocatore italiano ad avere una statua di bronzo a Manchester.

Angelo PERUZZI

“Il portiere deve essere alto, slanciato. Deve uscire e svettare tra gli avversari in area di rigore. Deve giocare fuori area, coi piedi. Non serve a niente un portiere forte solo tra i pali”.

Dicevano.
Lo dicevano loro, e mentre lo dicevano c’era questo pezzo di granito, esteticamente vicino al cubo, che in qualche modo non faceva passare una palla. Un metro e ottantuno, negli anni 2000, erano pochi anche per un centrocampista. Eppure lui, Angelo da Blera, in quei centottantuno centimetri comprimeva un’energia esplosiva che gli rendeva possibile tutto. La sua copertura della porta era contro la fisica, il suo corpo raddoppiava e per l’attaccante di turno spariva la possibilità di buttare dentro anche il pallone più semplice.

Peruzzi. Quello che sembrava non volasse mai, ma se gli guardavi i piedi che correvano veloci e facevano due, tre tocchi prima che le mani arrivassero a contatto col pallone allora ti rendevi conto che, si, quella cosa non aveva attinenza con la fisica. Almeno non quella terrestre.

Gianluca PESSOTTO

È legittimo provare antipatia per la squadra più forte e importante della tua lega, è fisiologico quando si compete. È necessario altresì ribadire che sono altrettanto legittimi gli atteggiamenti di risposta a questa antipatia palpabile, da parte degli associati alla suddetta squadra, altrettanto fisiologici. Ci sta che un attaccante o un difensore di una squadra molto tifata e vincente (e, di conseguenza, molto odiata dal resto degli avversari) assuma atteggiamenti apertamente antipatici, ascrivibili alla dialettica del “siamo soli contro tutti/ci odiano perché vinciamo”, dialettica il più delle volte patetica, ma comprensibile. Ecco, Gianluca Pessotto è stato l’antidoto, l’elisir miracoloso a questo circolo vizioso di antipatia data e ricevuta, qualsiasi atteggiamento assumesse in campo, era infatti agli antipodi dell’antipatia. Mai una protesta in campo, mai una scorrettezza o una recriminazione, semmai il contrario. Una volta lo vidi confessare all’arbitro di aver toccato la palla per ultimo, facendogli revocare l’assegnazione di un fallo laterale alla sua squadra. Sguardo profondo ed esitante, tipico di chi è troppo sensibile e intelligente per pensare che sia l’aggressione prossemica a darti un vantaggio nei confronti degli avversari. era anche terzino atipico, dal piede buono e dalla corsa breve, e dalla grande consapevolezza tattica, così brillante da non lasciare dubbi sulla sua intelligenza anche fuori dal campo.

La sua ora più luminosa fu il rigore realizzato a Roma, contro l’Ajax, la sera in cui vinse la Coppa dei Campioni. Capitò poi che l’ora più buia della Juventus sia coincisa con la sua ora più buia personale: la fine della sua carriera che si appropinquava e lo scandalo di Calciopoli appena esploso. L’impatto combinato dei due cambiamenti traumatici colpì duro la coscienza immacolata di Pessotto, mortificò il suo spirito di sacrificio e di dedizione, lo spinse sull’orlo del baratro al punto da fargli tentare il suicidio. Il fatto che sia sopravvissuto a quel tentativo non è stata solo una buona notizia per i suoi famigliari o per il valore della vita umana in generale, ma anche per il calcio, per lo sport come rispetto dell’avversario. Se ne fosse andato in quel modo, sarebbe andato via con lui tutto ciò che della Juventus ha amato e apprezzato chi la Juventus non l’ha mai amata.

Armando PICCHI

Un mito lontano, quasi difficile da toccare. Il livornese “di scoglio”, il faro e capo carismatico della difesa che portò nell’Inter di Herrera l’eredità di un nonno anarchico, un altro repubblicano (in esilio) e quella di un’intera città. Michele Crestacci in un meraviglioso spettacolo dedicato allo storico capitano racconta dell’aneddoto di quando, mentre vinceva tutto con l’Inter, ogni tanto tornava a casa sua, a Livorno. “Armandino, ma chi te lo fa fare di tornare a Milano. Non lo senti come si sta bene oggi sul mare?”. Che avrei dato per ascoltare la sua risposta.

Silvio PIOLA

Per essere sicuro al 200% che diventasse irraggiungibile fuori dal tempo, il destino fece a Piola delle gambe lunghe e un busto corto, così che arrivasse sul pallone quando agli avversari sembrava troppo lontano per l’ultimo tocco. In effetti già allora, a guardarlo in foto, sembra nonno Silvio, lo stesso di quando lo intervisteranno e lui avrà quello sguardo incredulo di chi ha lavorato per una vita in fabbrica senza mai ricevere un premio produzione, e ora che è in pensione la sua attività manifatturiera è diventata di lusso, d’elite. Il suo sorriso è quello, compiaciuto e innocente, di chi mormora, con accento lombardo, «Ma allora hai visto che ho fatto bene a darci tanto dentro». Uno sguardo così, apparentemente innocuo, bonario, ha il vantaggio della sorpresa su qualsiasi avversario, in un’epoca senza internet o televisione. Quando non lo conosci, dici: ma questo è il 9 avversario? Vabbe’, alto è alto, ma dove vuoi che vada. Quando poi lo conosci, ma lo vedi per la prima volta, dici: ah, ma è questo il 9 avversario? Vabbe’, ma allora sarà sopravvalutato. E poi esplodeva in rovesciata, in marcatura sull’avversario (!), in spaccata. Le sue spalle, relativamente strette, erano invece la punta di un iceberg possente, impazzito. Non lasciava nessun pallone al caso in area di rigore, come se sentisse già scalpitare dietro Totti, Nordahl, Meazza, Altafini, Di Natale, Baggio. Silvio Piola, con il suo aspetto da compagno di scuola sornione, che farebbe di tutto per saltare l’ora di matematica, non aveva affatto l’aspetto di un maniaco compulsivo del gol, ed è in questo modo che ha fregato tutti, 349 volte.

Andrea PIRLO

Lorsignorie intergalattiche, se poteste salvare una minoranza, sarebbe una minoranza qualitativa o una minoranza etnica? Perché semmai il dubbio vi rodesse, sappiate che ho per voi un nome che vi permetterà di salvare capre e cavoli (non guardatemi così) (si tratta di due forme di vita entrambe puzzolenti, ma vi spiegherò meglio in seguito). Il nome è quello di Andrea Pirlo. Se ci fosse un paradiso dei registi di centrocampo, Andrea sederebbe alla destra del Padre. Non solo perché la sua protezione del pallone e i suoi lanci lunghi sono sempre stati qualcosa di (chiedo molta venia) extraterrestre, non solo per la diabolica incisività della sua “maledetta” (l’imprevedibile, ipnotica punizione con cui destabilizzava i più forti portieri del mondo) ma anche per la pacatezza, la compostezza e la tranquillità dimostrate in vent’anni di carriera, sul campo e fuori. Inoltre, come vi accennavo in principio, si tratta probabilmente dello zingaro più stimato e benvoluto dell’orbe terraqueo (mi scuserete il termine un po’ dispregiativo, Andrea è di etnia Sinti, ma purtroppo li sentirete più spesso appellati col primo epiteto). Vi chiederei dunque di salvarlo, il Maestro, ma non ce n’è bisogno, perché un gigante del genere si salva da solo: gli è sempre bastata una sola finta e un quarto di un’occhiata per illuminare la Via Lattea.

Pierino PRATI

Milano e Roma, due mondi lontanissimi. La nebbia invernale e il sole primaverile, l’operosità e l’indolenza, la cotoletta e l’abbacchio, la schiscetta e la pennichella, i navigli e il biondo Tevere, il dané e i quatrini. Due mondi inconciliabili, per chi ha poca fantasia. Nonostante la buona tecnica della Peste, questi era quel tipo di centravanti largo a sinistra, tutto scatto, poi si accentra e colpo di testa. Non era il tipo di giocatore a cui avresti attribuito doti di fantasia, semmai di efficacia, ma sempre un’efficacia imprevedibile. La Peste ebbe abbastanza fantasia per conciliare due mondi lontani, e per essere un idolo su entrambe le sponde di un’Italia tanto divisa tra due Capitali da essere un po’ orfana di entrambe. Chiuso in Nazionale dal cannibale Gigi Riva, fu uno dei migliori centravanti dei suoi anni. Il treno che unisce Milano e Roma si chiama Pierino Prati.

Igor PROTTI

Da quest’anno in cui vi scriviamo Igor ricopre un ruolo che non ho ancora capito all’interno della società del Livorno Calcio, una roba assurda pensata per slinguazzare con i tifosi che ormai hanno abbandonato la dirigenza. Parlare di cosa Igor abbia fatto con una palla al piede non mi sembra adatto, non mi sento degno sinceramente. Però all’inizio di questa stagione, quando ormai vestiva la cravatta e non i tacchetti, chiuse la squadra negli spogliatoi e aprì una cartellina con 30 fogli fotocopiati. “Ragazzi, questo è l’inno del Livorno. Entro settimana prossima dovete impararlo a memoria, poi vi darò anche un libro che spiega la storia della città. Dovete capire cosa significhi indossare questa maglia, altrimenti rimarrete sempre e solo dei calciatori. E qui dei calciatori non se ne fanno niente”. Questo spiega perché, qualunque sia il risultato, da quando Igor è in panchina con il suo nuovo e strano ruolo nello staff, dalla curva si alza un coro. Igor Protti capo degli ultrà, dice. Lui si alza, saluta e fa un inchino quasi imbarazzato. Che vi devo dire di più?

Roberto PRUZZO

Bandiere. Ce ne sono di quelle che sventolano per poco nel punto più alto dove arrivi il vento, altre che seguono la costanza di un dondolio per una vita intera, ma ci sono anche quelle che si dimenano, che pare qualcosa le voglia disarcionare dall’asta e alla fine, con fatica, ci restano attaccate. Non è di Roma, è nato in un paesino ligure di nome Crocefieschi, ma provate a girare dentro la Roma giallorossa a dire il nome di Roberto Pruzzo, c’è gente che si toglierebbe il cappello, si portasse ancora sulla testa. Perché Pruzzo non è stato solo un centravanti completo, magnifico di testa e capace di trovare equilibrio e posizione come pochi nella storia, è stato l’emblema di una Roma di inizio anni Ottanta che combatteva la rivale bianconera, è stata la rivolta di un sapere operaio contro la gestione di poteri eterni. È il 4 dicembre 1983, Torino, ultimo minuto. La Juventus è sopra per 2–1, Chierico palleggia e controlla in volo un pallone incompreso, finché non lo lancia in mezzo all’area dove Il Bomber fa due passetti e forse non lo sa nemmeno lui che quel colpo all’indietro con le spalle alla porta sarà determinante. Come l’Angelus Novus di Paul Klee che Walter Benjamin vide riverso al passato ma proteso al futuro, Roberto Pruzzo disegnò la traiettoria della storia: è un passo avanti al senso contrario la rovesciata, come tutte le rivoluzioni.

Paolo PULICI

La verità per cui non tutti sono pronti è che a Torino non c’è stato nessuno forte come Pulici nel cammino che porta all’area avversaria. Non c’è stato in maglia bianconera, né tantomeno in maglia granata. Ci sono stati Van Basten a Milano, Batistuta a Firenze, Riva a Cagliari, Milito a Genova e poi a Milano. Certo, ci sono stati altri fenomeni, più simili a pianeti che a stelle splendenti, ma per molti di questi è stata dura cucirsi addosso una maglia senza che ci fosse anche il loro nome stampato sopra. A Paolo Pulici non serviva il nome su, Paolo Pulici attaccava lo spazio quarant’anni fa come oggi vediamo fare solo nei remake di Star Wars, e lo faceva in un calcio attendista e un po’ pusillanime. Donava tutto il suo corpo alla causa del gol, non esisteva acrobazia, scatto o girata che apparisse impossibile; e dopo un gol saltava sul posto con la gioia impaziente di chi non ha ancora finito. Paolo Pulici da ragazzino aveva allenato il sinistro il doppio, perché non fosse messo in ombra dal suo destro e come risultato aveva l’uragano nel piede. Era bellissimo, e sottovalutato negli anni a venire come accade solo a chi ha vissuto il campo per gli altri, più che per sé stesso. Paolo Pulici era la corsa verso la riscossa di un’umanità fiera e disperata, maestosa nel gesto e umile nello sguardo.

Luciano RE CECCONI

“Ho visto un re/un re che correva/spedito sulla fascia/faceva tanti chilometri/ma tanti che/sembrava un cavallo…”

Enzo Jannacci non era proprio simpatizzante della Lazio, ma probabilmente avrebbe strimpellato una versione riveduta e corretta di questa sua hit per narrare le gesta di Luciano Re Cecconi. Un Re che nacque da una famiglia di umili origini nell’hinterland milanese per poi diventare grande a Roma, che nel suo glorioso passato aveva già contato sette sovrani. Soprannominato “Cecconetzer” per i connotati da normanno e per la capacità di correre incessantemente che ricordavano Günter Netzer — sì, con calma vi parleremo anche di lui, esimi alieni -, i gol che sommava a fine campionato stavano sulle dita di una mano ma i suoi polmoni d’acciaio erano merce rara. Contribuì alla conquista dello scudetto della Lazio nel 1974 fino a venir convocato — senza mai giocare — per i Mondiali in Germania Ovest. Per l’allenatore Tommaso Maestrelli era più di un mero calciatore alle sue dipendenze, tanto che gli affidava spesso i due figli: per questo il Re pianse lacrime amare quando il 2 dicembre 1976, all’indomani del suo ventottesimo compleanno, il mister si spense. Il destino li riunì il mese seguente: quando in circostanze mai davvero chiarite venne freddato dal colpo di pistola di un gioielliere nel quartiere Fleming di Roma. Da principio si sostenne l’ipotesi di uno scherzo finito male, ma questa teoria in seguito è stata contestata da altre ricostruzioni, che invece puntano sulla disgrazia verificatasi in un clima di tensione e violenza molto diffuso, nella Roma di fine anni ’70. Anche per questa assurda fine, ancora avvolta nell’incertezza e ancor di più nell’insensatezza, Re Cecconi è stato e viene sempre ricordato come “l’angelo biondo”.

Gigi RIVA

Guardate quel ragazzo smilzo, con le guance scavate, la schiena poggiata al muro e la sigaretta in bocca. Guardate quel volto senza sorriso, serio, quello sguardo perso nel vuoto che sembra uscito da un film western di Sergio Leone. Guardate, ora, quel sinistro preciso e potente capace di spezzare il braccio a un giovane raccatapalle, la palla che brucia l’erba al suo passaggio, la rete che si gonfia. Guardate Gigi Riva, amici di Proxima Centauri, l’uomo che venne dal Nord e che in Sardegna, proprio, non ci voleva andare, che vide Cagliari per la prima volta e provò l’irrefrenabile impulso di voltarsi e risalire le scalette dell’aereo da cui era appena sceso. Guardate quell’orfano che ancora oggi, più di 50 anni dopo, passeggia per le strade della città che è diventata sua madre e sorella, mangia tutte le sere (o quasi) seduto allo stesso tavolino dello stesso ristorante, saluta — timido e riservato — i tifosi che mai l’hanno dimenticato e mai lo dimenticheranno. Guardatelo e serbate il suo ricordo nella vostra memoria, perché l’uomo che rifiutò la Juventus non salirà sull’astronave per Proxima Centauri. Potrete averli tutti, ma non lui, non Rombo di Tuono, non il più grande bomber della storia della Nazionale italiana. Lui resterà a Cagliari e nessuna promessa o minaccia gli farà cambiare idea. Nemmeno l’Armageddon alieno.

Gianni RIVERA

Avete presente quello bravo a fare quello che fa, più bravo degli altri, e che però non riesce a esimersi dal fartela pesare? Quello che quando parla o dice qualcosa lo fa sempre con l’aria di chi è un po’ dispiaciuto del fatto che sia stato lui a dovertelo dire, senza che tu fossi in grado di capirlo da solo. Complimenti, c’era bisogno del fiato altrui? Quello che non è che se la tira, è solo più intelligente, che sente la necessità di sminuire le fanfare, di normalizzare il tutto, e vive con lo sguardo stampato in faccia di chi è perennemente in fila davanti a un bancomat ed è circondato da utenti troppo, troppo lenti. Tutte le compagnie allargate hanno uno così al loro interno. Nessuno di questi insopportabili saccentelli, però, è mai stato forte al gioco del calcio quanto Gianni Rivera. In quanto a visione di gioco, eleganze sui tacchetti, classe, tecnica, decostruzione del campo e del gioco, Gianni Rivera è stato il miglior italiano di sempre. Il più intelligente, così come Baggio è stato il più talentuoso e amato e Totti il più forte sul lungo periodo. Non a caso è stato anche il primo italiano a vincere il Pallone d’oro, nel 1969, anno in cui di fatto si scioglievano i Beatles dopo aver pubblicato Abbey Road. Let it be, infatti, contiene materiale registrato due anni prima e verrà pubblicato un anno dopo, quando lo scioglimento della band attendeva solo l’ufficialità. Ecco, questo a Gianni Rivera non ci sarebbe stato bisogno di dirlo, probabilmente lo sapeva già.

Francesco ROCCA

Noi nati negli anni ’80 del ventesimo secolo terrestre abbiamo vissuto un calcio già progredito e mediaticamente sovraesposto. Dice “e allora di che vi lamentate?”. Eh, cresceteci voi con vostro padre che vi parla in continuazione di com’era romantico il calcio degli anni ’70 e poi degli ’80 senza poter vedere quante giravolte faceva Conti o quanto era elegante Scirea. Tra tutti i racconti leggendari ce n’era uno che amavo alla follia e allo stesso tempo mi commuoveva.

“Rocca crossava e colpiva di testa il suo stesso cross”. Così mi diceva papà per spiegarmi quanto fosse veloce Kawasaki. Che uno con un soprannome così già lo capivi quanto corresse, ma l’idea del cross, la corsa più veloce del pallone appena calciato e dell’attesa nel punto d’incontro era davvero molto di più. Era bello il calcio degli anni ’70, si. Lo era meno per chi subiva un infortunio al ginocchio per cui ora si torna in campo dopo un mese. Allora no: ti squarciavano la gamba, armeggiavano e poi richiudevano con centinaia di punti e Rocca questo calvario l’ha subito 5 volte.
A 26 anni un calciatore forte ha davanti una decina d’anni di carriera. Francesco Rocca, a quell’età, capì che non sarebbero servite altre mille operazioni e lasciò con un’amichevole di cui riuscì a disputare neanche 20 minuti.

Alessio ROMAGNOLI

Con tutto il tempo passato a chiedersi se tifa Roma o tifa Lazio, se è davvero Zidane e Alessandro Nesta insieme, The Young Alessio ha compiuto ventun’anni, se n’è andato in Nazionale maggiore e ha messo 50 presenze con la maglia del Milan. Romagnoli è come quei grandi cantieri tipicamente italiani: passi tanto di quel tempo a parlarci male mentre i lavori vanno avanti, da non accorgerti della maestosità, della freschezza delle idee e della bellezza estetica che hai davanti. Romagnoli, eccolo riassunto, eccolo a giganteggiare con la Spagna e a parlare coi grandi club europei mentre ci spelliamo le mani per lui.
Vero, ma alla fine di che squadra era?

Roberto ROSATO

Lo chiamavano Faccia d’Angelo, non perché avesse lineamenti particolarmente angelici o che, ma perché le sue fattezze erano davvero assai meno ruvide e molto più innocue di quanto Roberto Rosato non fosse effettivamente in campo. Difensore ruvido ma corretto, instancabile e spericolato, è stato la quintessenza dello stile difensivo italiano dei suoi anni e del Milan di Nereo Rocco, oltre che della Nazionale che sconfisse la Germania nella partita del secolo.

Giuseppe ROSSI

Platini definì Baggio un nove e mezzo, più che un dieci, per la sua capacità di stare vicino alla porta nonostante quella tecnica da secolo dei Lumi. Platini non capì niente di Baggio, ma in compenso capì bene Pepito Rossi. Pepito è il sorriso garbato e solare di un talento umiliato dalla sfortuna, che in un percorso sportivo travagliato avrà anche perso la sua forma migliore, ma ha trovato la dignità di ricominciare ogni volta, a testa bassa e con lo stesso cuore di sempre. Nella sua storia si fondono insieme più τoποι di quel romanzo di formazione sentimentale e calcistica che fu Holly e Benji. C’è la nascita in un Paese lontano, in questo caso il New Jersey, lontano soprattutto dalla concezione del calcio della sua terra d’origine, c’è il viaggio di ritorno a casa, in Italia, per giocare a pallone, c’è il percorso di formazione in un grande club estero (il Manchester United), poi di nuovo il ritorno e poi di nuovo la partenza (direzione Villareal, dove ha avuto i sei anni migliori della sua carriera). Soprattutto però, ci sono le grandi aspettative e la certezza che, con la palla tra i piedi, Giuseppe Rossi fosse il migliore della sua generazione. Più tristemente, poi, c’è anche la storia di un talento che non si sarebbe mai espresso per quello che era il suo vero potenziale, a causa di una vigliacca e lunga serie di infortuni. E a Pepito è toccato ricominciare ogni volta, sempre con un po’ di fiducia in meno, perché i risultati sono più importanti del cuore. La sua parabola sportiva è talmente strana e ingiusta e il suo sorriso e la sua umiltà sono tuttavia tanto sinceri che siamo sicuri che il suo viaggio nel mondo del pallone sia solo una premessa per un’esistenza diversa, altrettanto luminosa rispetto alla carriera che avrebbe meritato.

Paolo ROSSI

I giocatori scarsi si distinguono in due grosse categorie. Quelli scarsi e basta, e quelli scarsi che però sublimano la loro scarsezza, fanno tutto il giro a 360° e diventano dei supercampionissimi. Ecco, Paolo Rossi è stato il campionissimo dei campionissimi dei giocatori scarsi (almeno fino all’arrivo di Pippo Inzaghi). Ho ricordi vaghi di lui giocatore, lo ammetto; però per lui vale ancora di più il teorema Thomas Muller (attenzione, Thomas Muller non è scarso!), e cioè: “posso dire di non aver visto tutte le partite in cui ha giocato Paolo Rossi; ma in tutte le partite che ho visto in cui giocava Paolo Rossi, paolo Rossi segnava”. Credo di ricordarmi di non averlo mai visto calciare in porta in maniera pulita, direi addirittura volontariamente; Paolo Rossi si trovava sempre in mezzo all’area, apparentemente a casaccio, a fare movimenti strani. Tiro di Graziani, Paolo Rossi cerca di spostarsi ma non ci riesce, la palla rimbalza sulla coscia, gol. Colpo di testa di Antognoni, Paolo Rossi saluta una persona in curva, la palla gli colpisce il gomito involontariamente, gol. Punizione di Platinì, Paolo Rossi si abbassa per allacciarsi una scarpa, la palla gli rocca i lacci, gol. Rinvio di Scirea, paolo Rossi si distrare per guardare l’orologio, la palla lo prende sulla recchia, gol. Rinvio di Zoff, Paolo Rossi si gira per vedere che forse ha una macchia di sugo sulla maglietta, la palla lo prende sul ginocchio, gol. Tiro sbilenco di Causio, Paolo Rossi inciampa e finisce faccia a terra, la palla lo colpisce in faccia, gol.

Daniele RUGANI

Avete mai comprato un paio di scarpe bianche? Se non lo avete fatto potrebbe essere difficile capire l’importanza e le attenzioni di cui un paio di scarpe bianche necessita. Bisogna controllare il meteo per evitare di incappare in piogge torrenziali, bisogna sapere in anticipo dove si andrà prima di indossarle, è necessario non farsele calpestare e non prendere a calci nulla per poter preservare il candore e la purezza del colore bianco.
Ecco, Daniele Rugani è il paio di scarpe bianche dei bianconeri oggi: qualche anno fa andava un sacco di moda e tutti volevano comprarselo, adesso la Juve cerca di preservarne l’importanza facendo bene attenzione a quando e come “indossarlo”. Peccato che forse lui non è tantissimo contento.

Claudio SALA

Quando ti trovi di fronte a un giocatore che viene soprannominato il Poeta del Gol, ti immagini si tratti di un marcatore dai numeri impossibili, di un cecchino da area di rigore. In realtà, invece, in più di 360 partite con la maglia del Torino Claudio Sala segnò solo una ventina di rete. Ma gli assist, ah, gli assist, non si contano. Sontuoso produttore di gioco e duttile signore della trequarti, sia che fosse sull’ala o al centro del campo, il Poeta fu la linfa vitale del miglior Torino dai tempi di quello Grande.

Sandro SALVADORE

Sandro Salvadore fu la risposta degli anni ’60 al concetto di difesa maestosa che la Juventus aveva esperito con Combi-Rosetta-Caligaris negli anni ’30 e Foni-Rava-Parola negli anni ’40. Libero imponente e massiccio, tutto mentalità e senso pratico, Salvadore è stato, per dodici lunghi anni, la Juventus quando mostrava i muscoli.

Nicola SANSONE

‘Resta vile Sanso, dove vai?’. Avresti dovuto indossare la 10 e vivere la tua piena giovinezza con indosso i colori neroverdi del Sasòl: esordire in Europa League, prenderti i baci e gli abbracci del pubblico, prenderti una fetta di fama di un Berardi fermo ai box. Ma l’abbiam visto tutti, anche noi da qui, che lo spogliatoio si riempiva di punte e rivali. Tu l’hai notato prima di tutti e sei partito per la Spagna dove fonti non certe ci dicono che il vento tiri ancora più forte quando spari schiaffi da 52 metri. E’ proprio vero che all’estero si lavora tanto e si lavora meglio
“Parte il treno e parte con noi, d’improvviso io scenderei…”.

Riccardo SAPONARA

Maurizio Sarri per forgiarne lo spirito operaio e per renderlo un uomo.
Marco Gianpaolo per insegnargli a vivere da outsider e per rialzarsi sempre dopo una sconfitta (laddove sconfitta ed esonero acquistano lo stesso significato)
Giovanni Martusciello per comprendere la ciclicità della vita, dove tutto ha un inizio e tutto ha una fine.
Il Milan ha provato questa New Way of Investment con Ricky Saponara, un qualcosa che ricorda molto il Barcellona con Piquè, ad esempio. Saponara oggi è un giocatore dell’Empoli, laddove tre allenatori in due anni e mezzo hanno collaborato per renderlo speciale, assemblandolo come se fosse Iron Man per poi rivenderlo magari al Milan per circa 40 milioni.

Giuliano SARTI

Giuliano Sarti, incipit vivente. Portiere della prima Fiorentina scudettata e poi della grande Inter. Freddo ed essenziale, leggendario.

Beppe SAVOLDI

405 presenze, 168 reti, un curriculum di tutto rispetto per uno degli attaccanti più prolifici della sua generazione. Il suo trasferimento dal Bologna al Napoli nel ’75 costato 2 miliardi fece scalpore perché fu la più costosa operazione di mercato mai portata a termine nel mondo del calcio professionistico fino ad allora e nonostante i napoletani si sarebbero presto innamorati di Savoldi a suon di gol, ci fu una vera sommossa popolare in un periodo di grave crisi economica e recessione che diede adito ai rappresentanti sindacali di argomentare che con metà della cifra spesa sarebbe stato possibile rimborsare ai netturbini della città gli stipendi arretrati loro dovuti dal Comune di Napoli. Nonostante tutto, i napoletani sottoscrissero 75mila abbonamenti, ripagando lo sforzo di Ferlaino con addirittura 3 miliardi. Tornando sul prato verde, Savoldi è stato un attaccante micidiale dal dischetto e micidiale nel colpo di testa, tra i migliori di tutti i tempi nonostante Savoldi sia un uomo di appena 175cm ma lo stacco da terra sviluppato con il terzo tempo affinato giocando a basket fino al suo primo anno da professionista all’Atalanta, ha aiutato Savoldi ad avere un primato tutt’ora unico nel calcio italiano, perché è l’unico attaccante in Italia ad essere entrato nella Top 10 dei marcatori per 12 anni di Serie A.

Angelo SCHIAVIO

Quando i centravanti si chiamavano ancora centrattacchi e si poteva interrompere la carriera calcistica per completare gli studi e poi riprenderla, Silvio Piola era il matto che andava in marcatura sugli avversari e affondava in spaccata e Peppino Meazza il bulldozer che puntava la porta con un’azione personale. Angelino Schiavio, invece, ondeggiava, portando palla, tentava di smarcarsi togliendo i riferimenti al difensore avversario e, nelle situazioni più difficili, palleggiava elegantemente. Dell’universo calcistico a parte rappresentato dai primi 40 anni del secolo scorso, Schiavio era uno degli aristocratici signori della domenica. Imperioso, autoritario e, nonostante questo, fantasioso, era la quintessenza calcistica della sua amata Bologna, circondata da mura antiche e austera, ma imprevedibile al loro interno, e ricca di sorprese. Non c’è da stupirsi che uno così snervasse gli avversari che erano costretti a marcarlo. L’oriundo Luis Monti, per esempio, lo mandò al tappeto scorrettamente ogni volta che ne ebbe occasione. Una volta, in una sfida tra Juventus e Bologna, al centrattacco felsineo servi addirittura mezzora di rianimazione per poter rientrare in campo. Due anni più tardi sarebbero stati costretti a far pace, d’altronde l’unico modo per far pace col tuo incubo peggiore è vincerci una Coppa del Mondo insieme.

Salvatore SCHILLACI

Salvatore Schillaci è una creatura strana, come un lupo mannaro dagli occhi di fuori con la faccia da cattivo di Squadra Speciale Cobra 11 (ce l’avete lo streaming nello spazio sì?) che segna tantissimo, e segna malissimo, tanto che le sue caratteristiche tecniche sono obnubilate dalla sua immensa voglia di gol. Però si risveglia solo d’estate soprattutto negli anni che fanno rima con centonovanta, in cui cerca di compiersi come più bizzarro calciatore pop della storia italiana: secondo al pallone d’oro e terzo ai mondiali del 90. Aggiungete fortuna senza senso in Sol Levante e avrete Schillaci, un bomber che ancora non abbiamo capito. Voi potete aiutarci a capirlo meglio? In cambio vi regaliamo il singolo di Bennato-Nannini.

Stefan SCHWOCH

Stefan Schwoch è quel tipo di giocatore che sembra vivere nell’iperuranio di aurea mediocritas calcistica gelida come gli spifferi del Trentino Alto Adige. Sembra, appunto. Ci chiedevamo, ad ogni suo gol, com’era possibile che avesse imparato a giocare a pallone in luogo costituito principalmente da montagne altissime e campi innevati. Eravamo bambini che stavano crescendo, spesso ci impressionavano anche solo le strane idee che ci ronzavano nella testa, legate a questo o quel giocatore. Lui spuntava dal nulla, toccava il pallone come facevano i campioni degli squadroni. Calciava a giro, saltava due uomini con un colpo di tacco. Le sue skill facevano sognare Venezia e Livorno, Napoli e Vicenza. Era l’uomo del salto di qualità. Prendevi Stefan, vincevi il campionato di B e ritornavi in A. Però, poi, lui scendeva di categoria, a far sognare altra gente, a farsi rimpiangere dai suoi vecchi tifosi che mai smettevano di portarlo nei posti dell’animo dove si tengono i ricordi belli. Lui stava nel calcio di provincia. Non esiste Stefan Schwoch senza un campo straziato da pioggia e tacchetti, non esiste Stefan Schwoch senza qualche nobile decaduta da riportare tra le grandi del pallone. “Quando fui acquistato dal Napoli non sapevo come dirlo a mia moglie. Nel momento in cui glielo dissi mi urlò che laggiù non voleva andarci. Quando, tempo dopo, fui ceduto al Torino, mi disse le stesse parole ma al contrario, ossia che lassù non voleva tornarci”. Lui è fatto così. Arriva, ti salva, ti entra nel cuore e, poi, va via.

Gaetano SCIREA

Il tempo fa scherzi brutti, cancella le immagini usuali e imprime quelle più potenti, frammenti di lama, ferite, come la voce di Sandro Ciotti che dà la notizia dell’incidente in Polonia, quella di un parente che, mi disse, l’aveva conosciuto. E non fa difetto crederlo. Perché Gaetano Scirea, libero vecchio stampo che gestiva la squadra da dietro come fosse il manovratore di ogni meccanismo, anche se ha vinto scudetti, coppe e quel Mondiale ’82 aveva in campo un’eleganza metodica, la quieta presenza di uno che poteva stare lì come al bar con qualche amico, il sorriso cosciente di uno che sa cosa sta facendo, l’espressione meditata di non aver scelto la vita di calciatore per il successo, ma il successo capitato come naturale inconveniente della vita di un bravo calciatore. Questo impatto della gloria in una vita tranquilla, è questo l’unico incidente per cui vorrei ricordarmi Gaetano Scirea.

Lucidio SENTIMENTI IV (e i suoi fratelli)

Quarto di cinque fratelli con il cognome più bello e romantico del mondo, Lucidio detto Cochi era un portiere di soli 170 centimetri in grado di togliere un posto al Grante Torino tra gli undici disponibili dei titolari in Nazionale. Primo sweeper keeper ante litteram, tanto era famoso per le sue uscite di piede, giocò prevalentemente nella Juventus e nella Lazio. I suoi inizi sono avvolti nella leggenda, in quanto non si hanno prove certe che sia vero ma è molto diffuso l’aneddoto di una sua autocertificazione, spedita probabilmente alla sua prima squadra, che recitava così: «Ho quasi quindici anni, faccio il garzone calzolaio a quindici lire la settimana, vorrei giocare. Va bene qualsiasi ruolo. Anche portiere».

Giuseppe SIGNORI

Prendete un Buondì Motta e mangiatelo in 10 passi. E intanto ascoltate la storia triste di un ragazzo col sinistro magico che si è rovinato col vizio del gioco. Prima di finire infangato da Scommessopoli, Beppe Signori era una magnifica ala sinistra, un attaccante tra i più forti passati in Italia nei meravigliosi Anni 90, e questo a dispetto di un fisico da 70 chili per 170 centimetri che certo non avrebbe dovuto favorirlo. Beppe Signori era uno a cui le cose banali non sono mai piaciute, tanto da decidere di calciare i rigori senza rincorsa. Uno che il destro lo usava a mala pena per tenersi in equilibrio, ma che nel mancino aveva propulsori e dinamite, gli ingredienti necessari per vincere tre volte la classifica marcatori della Serie A. Se a Usa 94 Signori avesse fatto l’attaccante, e non l’esterno di centrocampo, forse l’Italia avrebbe vinto quel Mondiale. Forse. Di certo lui si sarebbe divertito di più, e con lui si sarebbero divertiti i tifosi. Come succedeva alla Lazio, come sarebbe successo al Bologna. Fino all’ultimo pallone calciato.

Gianluca SIGNORINI

Ci si può ammalare di calcio? O peggio, se ne può morire? E in questo caso, sono le tante microfratture che sottovaluti nel tempo a farti cedere le gambe, a bloccarti la parola fino a non lasciarti più scampo, o c’è qualcuno che non mette sul tavolo tutte le ipotesi del caso, quelle che riguardano un male incurabile che nello specifico sembra accanirsi prevalentemente sui calciatori? Gianluca Signorini era uno degli ultimi prodotti della scuola del libero anni ’80, capitano della squadra più antica d’Italia in uno dei suoi periodi migliori dai lontani tempi d’oro degli scudetti in bianco e nero. Il suo Genoa, che era arrivato quarto in campionato l’anno prima, sfidò il Liverpool in Coppa Uefa, lo sconfisse 2 a 0 in casa e 1 a 2 all’Anfield Road, conquistando una storica semifinale europea prima di arrendersi di fronte all’Ajax che da lì a qualche anno avrebbe dominato il mondo. Dopo aver chiuso la sua prima carriera nel Pisa, la squadra della sua città, Signorini era pronto a iniziarne una nuova, da dirigente. Ci volle la malattia vigliacca a portarlo via dal campo.

« Vorrei alzarmi e correre con voi, ma non posso. Vorrei urlare con voi canti di gioia, ma non posso. Vorrei che questo fosse un sogno dal quale svegliarmi felice, ma non lo è. Vorrei che la mia vita riprendesse da dove si è fermata. »

Paolo SOLLIER

«Il calcio di prima non ci sarà mai più, ma io non voglio il calcio di prima, perché è impossibile riaverlo. È come dire che bisogna ricreare un mondo contadino perché, non so, le mele allora erano più buone. Io vorrei invece un calcio capace di leggere la società oggi e che provi a cercare i rimedi sportivi per quelli che sono i suoi mali. Devi trovare il compromesso per arrivare a un risultato comunque accettabile nella realtà odierna. Quindi devi fare i conti con il denaro e con la comunicazione assoluta».

Quello che più colpisce di Paolo Sollier è che nonostante sia stato elevato negli anni a una delle massime icone del romantico guardarsi indietro, nella direzione temporale di un impegno politico “espanso” e soprattutto di un calcio più umano e più collettivo, non c’è traccia di nostalgia in lui. Uno sceneggiatore mediocre, a immaginarlo quarant’anni dopo, probabilmente se lo figurerebbe schivo, vagamente disilluso e ancorato alle categorie del passato, e dunque si stupirebbe a riconoscere nell’icona del calcio militante che fu il profilo energico e spontaneo di uno sportivo curioso e aggiornato, perfettamente calato nella realtà che lo circonda, e lesto nel registrarne i cambiamenti.

Terminale offensivo dinamico, ma privo di particolari qualità tecniche, Sollier era militante di Avanguardia operaia, abbonato al Quotidiano dei Lavoratori, e salutava i tifosi con il pugno chiuso. Questo, unito al colore della maglia del Perugia, bastò per rendere quella squadra un piccolo caso extra-sportivo. Sollier stesso, tuttavia, ha ammesso quanto fosse una rarità, all’epoca, poter parlare di politica con altri calciatori. Nel suo primo anno in Serie A, comunque, il Perugia di Sollier conquistò un inaspettato ottavo posto e si regalò un momento di glorioso ostruzionismo socialista, sconfiggendo la Juventus del “padrone” Agnelli in casa, all’ultima giornata, consegnando di fatto lo scudetto nelle mani del Torino. Quel giorno, a Berlino, la statua di Marx pianse.

Stefano SORRENTINO

Meriterebbe la quota globetrotter, visti i suoi dati statistici: Sorrentino ha giocato in tre paesi diversi (è stato in Grecia e Spagna) e ha girato tutt’Italia, facendosi apprezzare un po’ ovunque. Ha persino uno Scudetto nel palmarès, vinto quand’era uno dei ragazzi nel settore giovanile della Juventus. Aggiungiamo anche che non tutti sono Buffon e se a 37 anni giochi ancora da titolare in A, non avrai una reputazione stellare ma hai automaticamente valore intergalattico.

Giuseppe TAGLIALATELA

Un portiere amato nella sua città, Napoli, dove, paradossalmente, è difficilissimo farsi amare se nasci alle falde del Vesuvio (per conferme, chiedere ai Fratelli Cannavaro e ai Fratelli Insigne). Nonostante abbia più volte rifiutato la corte dell’Inter negli anni ’90, per non abbandonare gli azzurri in totale crisi di risultati ed economica, nell’anno della retrocessione passa per assoluto capro espiatorio agli occhi di dirigenti, allenatori e tifosi in un anno tanto negativo da risultare quasi irripetibile. Nonostante tutto, Taglialatela segue il Napoli anche in Serie B. Poi Firenze, dove vive alle spalle di Toldo, e comunque il suo animo gioviale conquista piazza e allenatori facendo di Batman un leader silenzioso. Taglialatela, di fatto, era un ottimo portiere, nonostante non fosse altissimo riusciva a coprire i 7 metri di porta con coraggio sfrontato.

Marco TARDELLI

Quando da bambino, in quel cortile di Coreggine, per imitare il suo idolo Gigi Riva trascorreva giornate intere ad imparare a calciare anche con il piede sinistro, non poteva certo immaginare che in futuro proprio un tiro scagliato con quel piede avrebbe consegnato la sua immagine alla memoria collettiva a simbolo di vittoria di tutto il calcio italiano. Forse, se quel bambino di nome Marco lo avesse saputo, di Rombo di Tuono avrebbe scelto di imitare la capigliatura.

Dura la vita da icona. Giochi per oltre un decennio ai massimi livelli, arrivi ad essere uno dei migliori al mondo nel tuo ruolo, vinci tutto quello che puoi vincere con il tuo club, diventi campione del mondo con la tua nazionale, ma sei e sarai sempre ricordato per un’esultanza. C’è di peggio,, eh, dispiace solo il fatto che sia riduttivo.

Mauro TASSOTTI

Mauro Tassotti è uno dei grandi eroi del nostro calcio. Un eroe dal profilo basso, un terzino generoso, di quelli che si appiccicano addosso i colori della loro maglia e non se li levano più, ma che quando si ritirano dal calcio giocato non vedono il proprio numero venire ritirato dalla società. Tassotti è stato una bandiera atipica. Lui, Tasso, la maglia numero 2 del Milan se l’è cucita nel cuore per trentasei anni: dal 1 Luglio 1980 a pochi giorni fa, il 12 Luglio 2016. Nei diciassette anni in cui Tassotti ha difeso i colori del Milan ha vinto: 5 Scudetti, 4 Supercoppe Italiane, 3 Coppe dei Campioni, 3 Supercoppe Europee, 2 Coppe Intercontinentali. Per non parlare di quello che ha vinto da vice-allenatore. Ma questa è davvero un’altra storia.

Francesco TOLDO

Frank De Boer — parata. Jaap Stam — altissima sopra la traversa. Kluivert — goal. Paul Bosvelt — parata. È stupido ridurre una carriera a una sola partita, ma davvero, potrei scrivere fiumi di parole e parafrasare i Jalisse su Francesco Toldo, non mi stancherei mai, tra aneddoti personali e prestazioni incredibili. Solo che, a volte, basta davvero poco per spiegare perché si vuole bene a una persona. Questa volta, questo poco, è una partita. QUELLA partita, Italia-Olanda, semifinale degli Europei del 2000, quando Francesco il Grande — quello che era così forte che anche Buffon, a livello inconscio, ogni tanto sceglieva di infortunarsi per farci godere delle sue prestazioni in Nazionale — parò tutto quello che c’era da parare.

Damiano TOMMASI

Ricciutissimo, omnipresente, San Damiano da Negrar, tuo fu lo centro de lo campo, lo sacrifizio et onne interdictione

Laudato si’, Anima Candida, a te solo se konfà lo soprannomine tuo et nisciuno altro est digno te paragonare.

Laudato si’, Anima Candida, cum le tue marcature, et le ripartentie e sovrappositionem et per lo tuo spirto indomito que de pugnare none cessit.

Laudato si’, Anima Candida, per lo arditum signum tricolore, que del sudore tuo, cumserva sempietterna memoria, et lo comandante in pectore Fabio Maximus lo tuo primum merito decise.

Laudato si’, Anima Candida, supratutto per lo minimum sindacalis, lo quale ti est honorem, et esemplo sanctus et radiante et di te, Altissimo, porta significatione.

Luca TONI

Luca Toni è la dimostrazione del fatto che a volte la bellezza, nel calcio, non serve a un cazzo. Pensiamoci. Uno dei gol più importanti della sua carriera è forse uno dei più brutti degli ultimi 10 anni di calcio: un tiraccio gonfio d’arroganza di Taddei sbatte sul suo piede destro, lo stesso piede destro che, dopo una faticosa girata, sbatte a sua volte sul pallone che finisce in rete insieme a una considerevole quantità d’erba arata dallo scarpino del Centravanti. Era un Roma-Inter di qualche anno fa, quel Roma-Inter lì. No, Luca Toni non era un calciatore dalle brutte giocate, ma più semplicemente un giocatore che sapeva rendere pericolose anche le brutte giocate, con tutta la difficoltà del caso. Un pallone sporco con lui entrava in porta lindo e fresco di bucato, una spizzata su un cross deviato poteva essere l’assist che ogni seconda punta vorrebbe, un calcio d’angolo era davvero un’occasione da gol. I numeri della sua carriera ci raccontano un attaccante prolifico, i tifosi che l’hanno visto con la propria maglia vi diranno anche altro. Ad esempio potrebbero piangere. Come me, ora. Grazie.

Moreno TORRICELLI

Moreno Torricelli delle favole, Geppetto e Cenerentolo. Falegname per mestiere, calciatore per passione, dalla Serie D alle stelle, dall’amichevole estiva con l’ultima Juventus di Trapattoni all’ultima Juventus di Trapattoni in pochi giorni. E poi trenta presenze già alla prima stagione, e Coppa Uefa, scudetto, Coppa dei Campioni, Coppa Intercontinentale, Nazionale. Tutto in pochi anni. Moreno Torricelli ha costruito la sua carriera calcistica con la passione e la dedizione di un artigiano a cui era stato messo in mano del materiale pregiato, il migliore che gli sarebbe potuto capitare.

Francesco TOTTI

Un pomeriggio di ottobre, quando il sole sta a metà dell’orizzonte e nel cielo c’è qualche nuvola (ma non troppe), e una gamma di colori, nella volta celeste, che va dal rosso nei pressi del sole al buio, passando per tutti i toni di giallo, arancione celeste, blu;
Quando d’estate c’è un caldo devastante e non ci sono possibilità di rifugiarsi in un posto fresco e improvvisamente comincia una brezza non troppo forte che ti rinfresca;
Col gelo fuori, su un divano-letto aperto, con la persona che ami, coperti da un piumone a guardare un film di Woody Allen;

In finale nel torneo di calciotto di quartiere in cui non hai mai segnato ti arriva il pallone e tu lo calci forte e finisce dritto per dritto sotto l’incrocio proprio all’ultimo minuto e vincete il torneo e tutti vengono ad abbracciarti;
A Natale quando rivedi tua nonna davanti ai fornelli con la parannanza e ti sente arrivare, si gira e ti abbraccia e poi ti fa vedere tutto quello che sta cucinando e ti da una verdura in pastella dicendoti di non dirlo agli altri che sennò se le mangiano tutte.

Tutto questo rivive, ogni volta che vedi quella maglia col numero dieci e le cinque lettere sopra, quando capisci che lui sa dove deve andare il pallone e l’hai capito anche tu solo che tu sei sul divano e guardi tutto dall’alto, e lui invece il punto dove manderà il pallone non lo vede mica. E a quel punto tu sei felice perché stai per assistere alla moltiplicazione dei pani, dei pesci e degli orsetti gommosi.
Rivive in ogni momento che hai vissuto guardandolo giocare, correre, calciare, sorridere, sentendolo parlare. O anche solo pensando a quello che ha fatto, immaginando quello che farà, in eterno, per sempre, perché la gioia è così, infinita e anche a viverla mille volte ti farebbe stare comunque bene ogni volta.

Paride TUMBURUS

Paride Tumburus era nato ad Aquileia; questo per dire la persona. Non che lo sappia con certezza, ma ritengo che nessuno nasca più ad Aquileia, oggi, forse già da un po’. Erano altri tempi; c’era un’Italia giovane, povera, dignitosa (sia pure spesso per abitudine e per ignoranza, o per paura), c’era un grande Bologna, c’era la lingua friulana che rinasceva all’ombra dello statuto speciale e della fine di secoli di fame, c’era un poeta friulano che tifava per il Bologna e per quei giovani poveri e belli, anche se non sempre dignitosi. Paride Tumburus, che vinse uno scudetto con un Bologna pieno di friulani (ma all’epoca ce n’erano in tutte le squadre di serie A), è un po’ la sintesi di tutti questi mondi. E già leggerne il nome — intendo proprio sentirne il suono — ci dice che quell’epoca è lontana e terminata. Eppure ha avuto i suoi eroi, i suoi poeti, i suoi giovani, i suoi Tumburus.

Marco VERRATTI

È un peccato che Marco Verratti sia abruzzese e non romagnolo (anche se Abruzzo e Romagna per certi versi si somigliano, non solo per certi volti adriatici, ma per tutta una sensibilità, una retorica, un maschilismo emotivo e un po’ effemminato). Se fosse romagnolo, di lui si direbbe: Verratti che era basso Verratti che era un gigante che era narciso, che era arrogante che sorrideva timido, alla tivù Verratti che ne dribblava sette Verratti che era bello con gli occhi azzurri, ma bello tutto Verratti, di Manoppello Verratti che era ambizioso Che era umile, che diceva di non valere quei cento milioni Verratti che amava la palla, e la palla lo riamava Verratti che non ci ha insegnato niente Verratti che ha fregato tutti Verratti che non sapeva l’italiano, e poteva sapere il francese? Verratti, che in mezzo al campo Parlava tutte le lingue, parlava solo lui Verratti, che il pallone era suo Ha scritto dentro di noi Tante di quelle poesie. Non è romagnolo, Verratti, ma comunque possiamo dirlo lo stesso.

Gianluca VIALLI

Quando si pensa ai più grandi numeri 9 mai prodotti in Italia, gli esempi che vengono alla mente non sono pochi, ma uno dei nomi che maggiormente si è rivelato garanzia continua di gol e soprattutto dedizione al procurarsene occasione è quello di Gianluca Vialli: otto sillabe, una sola, letale rovesciata. Personaggio che ha avuto la sua dose di controversie senza perdere la pacata aura british, ha rappresentato il modello dell’attaccante perfetto per quello che il calcio a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 aveva richiesto. Solo due squadre hanno potuto usufruire a pieno delle sue doti di realizzatore: Sampdoria e Juventus, le altre (Cremonese e Chelsea) si sono accontentate di un più che dignitoso ‘prima’ e ‘dopo’. E d’altronde, è come se ci fossero anche due Vialli: uno capelluto e riccioluto, più agile e forse anche più maestoso, all’ombra della Lanterna, e uno calvo e più massiccio, meno spensierato ma forse ancora più inesorabile, all’ombra della Mole. E in Nazionale, invece, rimane più di un rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non è stato.

Pietro VIERCHOWOD

Bergamasco, uomo di provincia. L’umida pianura plasma l’animo, rendendolo essenziale, efficace. È come se riuscisse ad allontanare l’attenzione dell’uomo dalle cose frivole, dalle cose inutili. O, almeno, così è stato per Pietro il russo. Lo chiamavano così perché suo padre aveva origini russe ed aveva combattuto in prima linea con l’Armata Rossa, nel gelo che raffredda pure la speranza. Lo chiamavano così fino a quando non si è manifestato il suo potere, il suo talento, il suo senso di abnegazione, la sua autorità. Ad un certo punto, hanno cominciato a chiamarlo lo Zar, perché chiamarlo semplicemente il russo non gli avrebbe reso onore. Pietro Vierchowod era (ed è) per l’immaginario collettivo, l’esempio da seguire per arrivare in quel luogo ovattato dove stanno solo i grandi. I più grandi. Pietro reincarnava il tormento di ogni attaccante, di ogni trequartista, di ogni avventato giocatore che decidesse di avventurarsi nella zona centrale dell’area di rigore. Perché quella era la sua zona, il suo spazio, il suo mondo. Diego Armando Maradona, una volta, raccontò che se lo ritrovò difronte. Fintò il movimento verso destra per poi scattare a sinistra, nascondendo il pallone al mondo intero che stava a guardare. Pietro cadde e si rialzò in un paio di secondi. Lo raggiunse dopo qualche metro bruciato a rincorrerlo. Se lo ritrovò avanti, ancora. Lo Zar lo chiuse in un angolo, aiutandosi con le linee che delimitano il fondo e il lato del campo. Disse: “Hanno ragione a dire che sei Hulk: ti manca solo il colore verde”. Vinse con la Samp, con la Roma, con la Juve, con la Nazionale. Milan a parte, non lo ha dimenticato nessuno, da Como a Piacenza, da Roma a Torino.

Christian VIERI

Adesso è facile additare Bobo Vieri come il capostipite più recente della piaga del bomberismo, ovvero di quel connubio piatto di pallone e di una visione piuttosto violenta e offensiva del corpo femminile, tuttavia sarebbe ingiusto scaricare il masso soltanto su di lui. Tanto più che per tanti anni, finché si è trattato di far parlare il campo, Christian detto Bobo è stato il più possente ariete del nostro calcio, e in generale uno dei più grandi interpreti italiani del ruolo del centravanti, Predatore d’area di rigore, univa qualità antiche e primitive di potenza e imprevedibilità a una certa attitudine moderna all’interpretazione del ruolo. In più tirava di sinistro, come tutti i matti, cosa che spariglia ancora le carte quando si trattava di letteratura dei numeri 9. Non a caso il 9 non lo indossava, preferiva il 32. Questo perché Bobo Vieri ern irregolare dalle forme quadrate, una montagna le cui spaccature formavano sorrisi sornioni, un ponte tra passato e futuro.

Pietro Paolo VIRDIS

Baffoni, fisico dinoccolato, tanta voglia di lavorare e un resistente spirito di conservazione iconografico tanto che, a 30 anni dal suo ritiro, Pietro Paolo Virdis è praticamente uguale a quando giocava, solo un po’ più brizzolato. Non nasce come bambino prodigio, giocava con i Vigili Urbani, passa poi alla Nuorese in D e lì viene notato dal Cagliari. Segna tanto, Virdis, ma non tantissimo. La sua storia cambia nel 1984 — e mi pare che Orwell abbia accennato qualcosa al riguardo -, quando passa al Milan e si laurea capocannoniere del campionato. Negli anni successivi, i suoi gol permetteranno al Milan di vincere lo scudetto, in particolare grazie a una sua doppietta con cui i rossoneri superano il Napoli, il primo maggio 1988. Festa dei lavoratori, non a caso.

Pino WILSON

Un tipico nome italiano (Giuseppe) accompagnato da uno dei più classici cognomi britannici (Wilson): due parole che riassumono la storia personale di un difensore che ha vestito più l’azzurro della Lazio che non quello della nazionale. Nato a Darlington — e battezzato Joseph — da un soldato inglese e da una napoletana per poi trasferirsi in Italia da ragazzino, iniziò la carriera da terzino per poi finirla da libero: fu acquistato dalla Lazio assieme all’inseparabile amico Chinaglia quando giocavano nell’Internapoli. Proprio l’anglonapoletano e il toscogallese furono i capi di uno dei due clan in cui era spaccata la Lazio che tuttavia riuscì a vincere il tricolore. Si laureò, una vera rarità per il calcio di quell’epoca, in giurisprudenza discutendo una tesi sulle relazioni tra ordinamento sportivo e giustizia ordinaria: ironia della sorte, finì in manette nell’ambito del Totonero assieme ad altri tre giocatori della Lazio. I tifosi biancocelesti si sentirono traditi da “Pino”, com’era soprannominato, ché rappresentava una bandiera: squalificato per tre anni, decise di ritirarsi e di chiudere col calcio. Uno strappo che si ricucì nel 2000, in occasione dei festeggiamenti per il centenario della Lazio, quando il pubblico lo accolse con un’ovazione. In fondo, “il capitano” per antonomasia era rimasto lui.

Renato ZACCARELLI

Regista avanzato geometrico ed elegante, dal rendimento costante nonostante la scarsa vena realizzativa e soprattutto dal folto baffo d’ordinanza che era d’obbligo negli anni ’80 se volevi essere qualcuno, Renato Zaccarelli era la mente e le sinapsi del Torino che vinse lo Scudetto grazie ai gol di Graziani-Pulici e agli assist di Claudio Sala. A dirla tutta, fu mente e sinapsi anche di molti dei Torini successivi, quelli che portarono a un pugno di secondi posti alle spalle degli odiati juventini (ma solo sul campo, dato che come Tardelli conferma alcuni bianconeri e granata si frequentavano fuori dal campo, e d’altronde ci mancherebbe altro). In Nazionale faceva la riserva di Antognoni per affinità elettiva ma, essendo lui del Capricorno, quando vide che la gamba e il fiato si accorciavano arretrò fino a giocare da libero, ruolo che premiava le sue doti di impostazione. In questa veste, dieci anni dopo l’ultimo titolo tricolore, René vinse anche il Guerin d’oro come miglior giocatore dell’anno.

Gianluca ZAMBROTTA

Ci sono giocatori per cui il campo da calcio, i campi da calcio, ma anche le regioni, gli stati, i continenti, i pianeti sono troppo stretti. Se ne avessero la possibilità correrebbero oltre, supererebbero i confini e le forze e correrebbero per le galassie come asteroidi, avanti e indietro nello iperspazio, salvo poi trovare da qualche parte una linea di fondo e lì guardare in mezzo e mettere il cross. Gianluca Zambrotta ha arato le fasce, destre e sinistre, di tutto il mondo, dando sempre la sensazione di poter comodamente decollare da un momento all’altro e lasciare la terra a noi semi-paraplegici, che lui con quelle gambe e quei polmoni aveva altre potenzialità e altre ambizioni, extraterrestri.

Walter ZENGA

Ho cominciato a seguire il calcio e a tifare Inter grazie a lui, alla tenera età di 4 anni. Quell’anno vincemmo lo Scudetto, quello dei record. Mai scelta da rookie, qual ero, poteva sembrare più felice! Infausto invece fu il susseguirsi dell’infanzia e dell’adolescenza che l’Uomo Ragno mi aveva regalato. Il ragazzo della Nord che ce l’aveva fatta, difendeva i colori della sua squadra e del suo paese e il miglior artista pop italiano del momento (se non di sempre) ci aveva scritto il suo primo singolo. A chi, se non lui, insignire il titolo di un supereroe marveliano? La sua tracotanza l’ha portato a diventare il migliore nel suo ruolo per anni, la stessa con cui ha affrontato il momento peggiore della sua carriera. E alla fine ha ragione lui, seppur importante quell’errore non conta nulla, con buona pace dei Varriale. Nella mitologia Atlante, dopo aver preso le parti di Crono, fu costretto dal trionfante Zeus a sorreggere sulle spalle l’incommensurabile fardello della volta celeste. Zenga più di ogni altro portiere rappresenta questa parabola: solitario, esiliato, disconosciuto. D’altronde, come ci ha insegnato Steve McQueen, l’inferno è per gli eroi.

Dino ZOFF

Una statua, un monumento, un monolito, una sfinge senza indovinelli. Due mani a cui spetterebbe di diritto una doppia replica, in gigantografia, al momento di inaugurare i boccaporti del primo spazioporto nazionale, qualora mai se ne presentasse l’occasione. Dino Zoff è stato il carisma, la sicurezza, l’affidabilità, la freddezza, la sobrietà, il posizionamento, il thè freddo nelle calde sere d’estate, il salutare sorso di grappa in una fredda notte di montagna, il silenzio con cui ti coccoli mentre guardi fuori dalla finestra alle tre di notte, e speri che domani vada meglio. E qualora non ci andasse, mi raccomando, niente scenate.

Gianfranco ZOLA

Oltre alla veracità, alla bellezza paesaggistica, alla pastorizia, all’abigeato e a qualche occasionale sequestro di marginale rilevanza, la Barbagia, cuore della Sardegna, ha prodotto molti grandi gioielli. Ma ve n’è uno in particolare, piccolissimo e al contempo gigantesco: Gianfranco Zola. Giuro, ci asterremmo dal definirlo “Il Maradona del Gennargentu”, se non fosse un concetto tanto divertente. Fantasista di minuscola statura, diavolo nella bottiglia, piedi alati e cuore gigantesco, Zola è ovviamente venerato nella sua isola, ma anche nelle isole altrui, quelle incoronate. Giovane riserva di Maradona a Napoli, totem del primo Parma ambizioso e arreembante, giocatore e allenatore di un Chelsea all’epoca più umile e guerriero di quello della linea temporale attuale, scatola magica. I cori su Zola spuntano a tutt’oggi qua e là nello stadio dei Blues, ricordando al mondo che anche tra i calciatori ci sono piccoli grandi uomini il cui contagioso sorriso è stato (e ancora è) secondo solo alla delizia delle traiettorie che hanno disegnato col pallone e, soprattutto, nella vita.

La linea difensiva della Terra, in questo episodio, è stata composta da: Simone Vacatello, Simone Nebbia, Adriano D’Esposito, Tommaso Giancarli, Valerio Savaiano, Gabriele Lippi, Flavio Iannelli, Simone Pierotti, Massimiliano Chirico, Oscar Cini, Emanuele Atturo, Marco D’Ottavi, Daniele Morrone, Antonio Paesano, Lorenzo Censi, Gabriele Anello, Matteo Serra, Mattia Pianezzi, Sebastiano Iannizzotto, Saverio Nappo, Leonardo Ciccarelli, Tommaso Naccari, Federico Castiglioni, Alessandro Colombini, Emanuel Cossu, il poeta Nino Ilic Rucola.

--

--