Perché la Roma di Garcia non è ancora una squadra da titolo?

Crampi Sportivi
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17 min readMay 5, 2015

Immaginate di entrare in un bar e di ordinare un caffè, e per tutta risposta vi servono una Fanta. Per quattro mesi di fila. Immaginate che durante i primi due mesi i camerieri inizino a scusarsi, parlando di momento difficile a livello psicologico. A dirla tutta, talvolta questi si avvicinano anche alla macchinetta del caffè per tentare di soddisfare la vostra richiesta: preparano la tazzina, inseriscono la cialda, però poi vi servono comunque la solita Fanta. Immaginate che voi a quel punto, invece di scomporvi, iniziate a sorseggiare la vostra aranciata sgasata invitando tutti alla calma e rassicurando la clientela che siete ottimisti perché, comunque, c’è da dire che in fondo un po’ questa Fanta sa di caffè.

Più o meno è quello che è accaduto al povero Rudi Garcia negli ultimi quattro mesi. Immaginate che il caffè fosse il gioco che voleva dare alla sua Roma, e che il personale del bar fosse la squadra. Ci sarebbe da farlo santo, per la pazienza. Ma anche da porsi un paio di domande. Appurata l’impossibilità di avere un caffè in quel bar, perché non provare a spiazzare il personale, chiedendo un’altra cosa? Anche solo per vedere l’effetto che fa. Se proprio quella richiesta non funziona, perché non provare ad accantonare almeno momentaneamente l’idea del caffè? Anche perché la riconquista del secondo posto dopo la vittoria col Genoa e la ritrovata serenità del gioco non salvano del tutto una stagione che definire deludente è poco.

A cinque giornate dalla fine del campionato la Roma era già fuori dalla corsa scudetto, fuori dalla Champions League, dall’Europa League e dalla Coppa Italia, aveva sciupato un vantaggio considerevole accumulato durante i primi tre mesi e si trovava aggrappata alla terza posizione a un solo punto dalla Lazio. E oggi, solo sei vittorie nelle ultime diciotto partite di campionato, due le sconfitte e dieci i pareggi. Solo ventuno i gol fatti -grazie alla tripletta contro il Sassuolo e alla doppietta contro il Genoa, che hanno rivitalizzato cifre meno confortanti-, mentre sono quattordici quelli subiti: la Roma degli ultimi quattro mesi ha faticato a vincere perché — almeno fino alla gara col Sassuolo — ha segnato poco. Ma cominciamo da capo, per capire come è stato possibile un calo così repentino. Proveremo a rispondere alla domanda “perché la Roma di Garcia non è ancora una squadra da titolo?”.

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No Mister, ancora niente caffè[/caption]

1. Antefatto

Nell’estate 2013, dopo un paio di stagioni dagli esiti fortemente negativi, il nuovo corso societario giallorosso sembrava aver trovato il modo di regalare alla squadra la formula di gioco tanto inseguita, grazie a un allenatore di prospettiva, promotore di un calcio intenso e divertente che ha portato la Roma, da outsider iniziale, a contendere il titolo nazionale alla Juventus dei record in campionato, la migliore dell’era Conte.

La vittoria finale era poi sfuggita, un po’ per la superiorità della contendente — più esperta, collaudata e impreziosita da un paio di top player come Pogba e Tevez — e un po’ per limiti di maturità che a un occhio saggio non potevano che risultare fisiologici, ma che soprattutto davano l’impressione di essere velocemente perfezionabili, magari con gli innesti giusti e un po’ di fiducia in più. La filosofia tattica dell’anno precedente si era già dimostrata efficace, ora bisognava lavorare affinché diventasse vincente.

Il modulo in questione è un 4–3–3 basato sul possesso palla, largo, fluido soprattutto in fase offensiva ma con ruoli ben precisi a centrocampo — c’è un centromediano a sigillare l’area difensiva, un portatore d’acqua a tutto campo che recupera e “pulisce” i palloni conquistati, e un creativo a ispirare le punte -. Si tratta di un gioco che impone il proprio ritmo agli avversari e prevede vivacità e armonia di movimento senza però mortificare le caratteristiche dei singoli. In questo caso è emblematico il ruolo di Gervinho, uomo simbolo di questo spirito tattico.

2. Avatar

Nella stagione 2013/14 l’ala ivoriana si mette in luce giocando molto largo e spesso più in avanti di tutti gli altri compagni di reparto. Il suo compito è quello di essere imprendibile, dare ai compagni spazio e tempo di avanzare e in sostanza far guadagnare sempre una decina abbondante di metri alla squadra. Immaginate un rudimentale ariete medievale sui rollerblade, cosparso di vasellina.

Eloquente la sua seconda rete in Roma-Bologna 5–0 del 2013: a Gervinho arriva un pallone illuminante dalle retrovie e il suo compito è quello di entrare in area, in porta se necessario. Questo è il leitmotiv della sua stagione: Gervinho corre come se un demone lo stesse inseguendo per mangiargli l’attaccatura dei capelli, e sa che sarà salvo solo quando sarà entrato nel rettangolo di gioco avversario. Salta l’uomo, prova a sfondare, semina il panico. Nel gioco di Garcia l’esterno ex Arsenal è il jolly, la matta, la wild card, il beep beep. Questo nel bene e nel male, infatti durante la prima annata in giallorosso Gervasino crea tante occasioni ma ne sbaglia anche di più.

E una

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E due

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Questo solo per mostrarne qualcuna, perché su youtube ci sono vere e proprie compilation delle sue gaffe sotto porta. Una parte del tifo romanista, saggiamente, commenta: “se vedesse la porta costerebbe 40 milioni”. Ragionamento equo, ma non è tanto di Gervinho in sé che stiamo parlando qui, quanto del suo ruolo di avatar del gioco di Garcia. I due elementi si somigliano molto: sono sguscianti, intensi e a tratti emozionanti ma perché vadano in gol non è necessaria solo la sgroppata, serve anche un forte quantitativo di lucidità e sicurezza, due cose che in un modo o nell’altro sono venute a mancare quest’anno alla Roma.

L’osservazione da mondi paralleli di cui sopra, però, apre lo spazio per una riflessione: se il giocatore più pericoloso della Roma, tatticamente parlando, è un giocatore poco preciso sotto porta, più forte fisicamente che tecnicamente,- cosa succederà alla squadra quando un calo fisico — fisiologico sulla lunga distanza, quando si giocherà ogni tre giorni — lo renderà poco lucido e assai meno fiammeggiante? Più o meno quello che è accaduto in questa stagione, considerando anche la pausa della Coppa d’Africa: in un mondo in cui spesso l’amore non basta, figurarsi se basta il pur generosissimo Gervinho nelle vesti di top player, lui si appanna, il gioco della Roma perde la sua imprevedibilità, le altre soluzioni non sono altrettanto efficaci, addio sogni di gloria.

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Non a caso dalla partita contro il Sassuolo Gervinho è tornato a livelli di forma accettabili e la squadra giallorossa ha portato a casa due vittorie convincenti. Il modulo di Garcia dunque pare funzionare meglio se c’è Gervimho in campo e in buona forma, un attaccante che quest’anno ha giocato 23 partite, segnato 2 gol e confezionato 4 assist. Non sono numeri da trascinatore, almeno non per una società che punta a essere competitiva su più fronti. Probabilmente bisogna accettare il fatto che una Roma tanto legata alle prestazioni di Gervinho non ha un arsenale sufficiente a portare a casa un titolo. Può vincere tante partite, incantare la platea, mettere in difficoltà gli avversari, ma non superare il secondo posto. Eppure i primi fuochi stagionali non avevano lasciato presagire i tanti dubbi di questo momento.

3. L’inizio confortante e la questione Iturbe

Il 17 settembre all’Olimpico si gioca Roma-CSKA, i giallorossi tornano in Champions dopo qualche anno di assenza, in un girone di acciaio inox, ma con già in cassaforte le prime due vittorie in Serie A. Questo incontro è importante cronologicamente perché, come in un film sugli X-Men che tornano indietro nel tempo per cambiare il proprio futuro, a questo punto della storia la Roma è ancora sulla strada giusta per compiere il suo destino di perfezionamento rispetto all’anno precedente.

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Nella gara d’esordio europeo il coefficiente di fiducia è altissimo per la compagine romanista, e tanta sicurezza — complice anche una difesa moscovita incapace di attuare anche solo una parvenza di trappola del fuorigioco -, permette alla squadra di casa di passeggiare, segnando 5 gol in scioltezza. In particolare si intravedono scintille nell’intesa tra il miglior Gervinho stagionale e Juan Manuel Iturbe, 21 anni, acquisto di punta della sessione estiva e rinforzo principale per l’attacco. Un investimento -di 22 milioni di euro più bonus, per un totale di quasi 25 milioni. Audace, per un giocatore che all’Hellas Verona nella stagione precedente ha realizzato solo otto reti su 72 tiri in porta — quindi un gol ogni nove tiri — e che si è dimostrato ancora acerbo in fase di partecipazione alla manovra — con una media di solo 24,2 passaggi a partita nell’arco dei 90 minuti, cioè 6 unità in meno del portiere Rafael -. Eppure nelle prime uscite il ragazzo sembra promettere bene.

L’intesa tra il funambolo argentino e la freccia ivoriana, infatti, trova conferma nella psicodrammatica gara contro la Juventus del 5 ottobre, primo punto di svolta della stagione romanista — di cui eviteremo di rinverdire le note polemiche perché troviamo che ormai non solo sia inutile ma che non se ne possa nemmeno più — che di fatto segna un “prima” e un “dopo” rispetto alla stagione dello stesso Iturbe. Mentre vi scriviamo, infatti, il giocatore brillante e motivato che ha contribuito ad affondare il Cska in Champions ha segnato solo 3 reti in tutta la stagione, una per competizione.

La domanda che tutti si sono posti di conseguenza è: l’investimento per Iturbe è stato eccessivo? Se dovessimo giudicare solo il primo mese di attività nella Roma, no. Due reti in partite importanti, buoni numeri, motivazione e disponibilità al sacrificio. Chiaro che a guardare il modo in cui la squadra ha interpretato la seconda parte della stagione, si possa essere delusi. Tuttavia la delusione nasce viziata: un investimento a queste cifre su un 21enne in crescita è in genere qualcosa che si possono permettere società già affermate, con maggiori disponibilità economiche e ricche di top player. Quello che la Roma può vantare, invece, è un buon mix tra esperienza e talento (in alcuni casi sopraffino, vedi Strootman e Pjanic) in cui però nei tempi d’oro chi risultava il più pericoloso era un generoso pasticcione come Gervinho.

Aspettarsi che un ragazzo in fase di maturazione diventi il fenomeno in grado di risolvere le partite da solo, specie in una stagione in cui la confusione diventa generale, equivale a condannare l’investimento, e finora così è stato. L’unica speranza è che la tendenza si inverta, e che non si butti via il bambino insieme alla proverbiale acqua sporca. Anche perché, tornando nella linea temporale in cui la stagione era ancora recuperabile, la Roma perde a Torino il 5 ottobre ma gioca molto bene, gioca da Roma. Fa un ottimo possesso palla e un numero di passaggi completati superiore a quello della Juve, tira poco in porta rispetto all’avversario ma è nettamente più precisa, considerando che due delle tre reti bianconere sono propiziate da rigori.

Nonostante la sconfitta, la sera del 5 ottobre i giallorossi vanno a dormire turbati nell’animo ma calcisticamente in forma, con un intero campionato a disposizione per recuperare lo svantaggio, tanto che Garcia in conferenza stampa va all-in e pronuncia le fatidiche parole.

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Ha fatto male? Ha fatto bene? Di sicuro non ha detto niente di astruso, del tipo “il mio gatto vincerà le Olimpiadi” o “saremo incoronati re della luna ogni martedì alle mercoledì meno un quarto”, la Roma era una squadra con tutte le carte in regola per giocarsela fino alla fine. Garcia, pronunciando queste parole in sala stampa e non nel privato dello spogliatoio, ha puntato sull’orgoglio, ha voluto motivare non solo i suoi ragazzi ma tutto l’ambiente. Mossa azzardata, da temerari, che infatti si è scagliata sull’allenatore francese come un boomerang esplosivo. L’ambiente ha reagito con un hip hip hurrà generale, ma il karma ha deciso di accanirsi presto e in maniera assai sommaria su questa legittima, persino tenera a guardarla adesso, impennata di hybris.

4. La foresta di Teutoburgo

Nel 9 dopo Cristo l’esercito romano subì una disfatta di proporzioni gigantesche in una località della bassa Sassonia, a opera di una coalizione di tribù germaniche. Fu una batosta talmente grande, la disfatta di Teutoburgo, che non bastò una guerra di sette anni a smentirne il risultato: il Reno si consolidò come confine nord orientale per i successivi 400 anni dell’allora in ascesa Impero Romano. Che robetta, la cabala. Ora però, ridimensionando tutto e considerando che non esiste più alcun Impero romano, che l’incontro in questione invece si è svolto a Roma e che il condottiero degli avversari non era teutonico ma iberico, non si può negare che un 7 a 1 in casa con il Bayern Monaco a inizio stagione faccia male alla tua autostima come una mitragliata di quelle che si vedono nei film di gangster ambientati negli anni ’20, in cui continuano a crivellarti di colpi anche quando sei a terra morto. Solo che in questo caso sei condannato a sopravvivere e a fartene una ragione.

Nella partita contro il Bayern Monaco Rudi Garcia, per sua stessa ammissione, manda in campo una squadra con un atteggiamento tattico che presta il fianco agli assalti dei bavaresi. Dal canto loro i giocatori sono completamente in bambola, come se contemplassero un abisso. Il problema è che questo avviene già sul gol del 2 a 0. Il resto assume le dimensioni di un massacro difficile da spiegare tatticamente. La testa dei giocatori era da un’altra parte ed è stato come guardare un bullo di due metri prendere a cazzotti un bambino. Ma non doveva andare così, perché la differenza tra le due squadre è netta ma mai così sconfortante come il campo ha decretato. Riprendersi dalla botta è difficile, e a questa gara segue un brutto 0 a 0 in casa della Sampdoria davanti al quale diversi romanisti hanno esclamato cautamente: “ci sta, la Samp gioca bene, è una squadra imbattuta, questo è un pareggio utile”. Neanche per niente, la Sampdoria di quest’anno è una buona squadra, dall’ottima tenuta fisica, ma di cui la Roma vista nelle prime giornate, quella che puntava a vincere il campionato, doveva e poteva fare polpette. Invece gli uomini di Garcia sono entrati in campo come undici viandanti davanti al mare di nebbia.

La conferma dell’appannamento arriva una settimana dopo, contro il Napoli di Benitez in uno stadio San Paolo dal clima surreale per gli strascichi della insensata e ancora troppo recente morte di Ciro Esposito. Sopraffatti dalla carica emotiva di Higuain e compagni, i giallorossi non sono pericolosi praticamente mai, mentre il Napoli crea tante di quelle rabbiose occasioni da gol che il 2 a 0 finale appare inevitabile. Proprio dopo quella partita mi sono convinto che la Roma non avrebbe vinto lo scudetto. L’incontro col Bayern e la sfida di Napoli erano due gare in cui perdere era un’opzione possibile, e tutto sommato neanche drammatica, data la forza degli avversari. Uscire da entrambe le situazioni con le ossa rotte e il morale a terra, invece, significava non essere ancora pronti per vincere qualcosa di importante, non tanto nelle gambe, quanto nella testa e nel cuore. Alla Roma 2014/2015 mancavano lucidità e carattere. Poi chiaro, come spesso avviene in queste situazioni, tutto il resto delle cose che potevano andare storte, sono andate storte. Tra cui le gambe.

5. La palude della tristezza

Al derby con la Lazio del gennaio 2015 la Roma arriva con un ottimo ruolino di due pareggi e cinque vittorie, ma qualcosa è cambiato nell’applicazione del gioco, il quale appare assai più prevedibile. Anche l’eliminazione in Champions, sancita dal 2 a 0 casalingo inflitto dal Manchester City, ha minato le convinzioni di una squadra che si risveglia apatica dopo una serie di docce fredde. Inoltre le assenze di Gervinho e Keita impegnati in Coppa d’Africa si sommano ai tanti, troppi infortuni muscolari che provano la condizione di una rosa già indebolita dalle defezioni forzate di Castàn prima e di Strootman poi, ricaduto nei terribili guai al ginocchio il 26 gennaio.

Nell’arco dei due mesi successivi seguiranno anche l’eliminazione dalla Coppa Italia e dall’Europa League, entrambe per mano della stessa squadra, la Fiorentina, una compagine di cui alla prima di campionato la Roma era riuscita ad avere ragione senza sforzi e dalla quale invece in campo europeo si fa eliminare in casa con un orrendo 3 a 0 che poteva finire anche peggio. Confrontando le statistiche del match svoltosi nella prima giornata con quelle della gara di ritorno dell’Europa League si evidenzia come, a fronte delle stessa percentuale di possesso palla (57%) e di un elevato numero di tiri e passeggi completati, nel primo caso la Roma vince due a zero, nel secondo perde senza segnare neanche un gol.

Roma-Fiorentina 2–0 (Serie A, 30 agosto 2014)

Roma-Fiorentina 0–3 (Europa League, 19 marzo 2015)

Rudi Garcia sembra incaponirsi nel riproporre lo stesso modulo, spesso anche con gli stessi interpreti a fronte di prestazioni opache e la sua Roma sembra scomparire in un mare di nebbia. In rete cominciano a circolare video di tifosi che apostrofano i giocatori e si sentono rispondere che “è un momento difficile”. Sono scene che fanno pensare a difficoltà psicologiche che vanno ben oltre i pur gravosi guai muscolari di cui sopra, nel frattempo i risultati scarseggiano e il vantaggio accumulato nel 2014 si riduce sempre di più, fino allo scavalcamento a opera della Lazio.

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Per farla breve, da Palermo-Roma del 17 gennaio alla sconfitta con l’Inter dello scorso 25 aprile, guardare giocare la squadra di Garcia è come assistere alla scena del classico ‘La storia infinita’, in cui il giovane guerriero Atreyu perde il suo cavallo Artax che decide di lasciarsi affondare nella palude che fa diventare tristi.

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6. La questione Totti

A dispetto del titolo che abbiamo scelto per questo paragrafo, non esiste una “questione Totti”, men che meno nell’ambito di questa stagione. Un giocatore della sua storia che a quasi 39 anni, in una annata del genere, riesce a collezionare 23 presenze, 6 gol e 5 assist non può essere definito una primadonna stagionata che non riesce a rinunciare alle luci della ribalta.

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Guardare giocare Totti anche quest’anno è come veder realizzata una di quelle situazioni da campionato Master in cui alcuni dei giocatori classici finiscono nelle squadre del presente. Purtroppo però i valori “stamina” e “injury tolerance” non sono più quelli di un tempo, e questo porta necessariamente a dover considerare il numero 10 come una carta in più da poter giocare ma non come la punta di diamante che può fare la differenza sulla lunga distanza. Che poi alla Roma non arrivino attaccanti perché “deve giocare Totti” è una balla, dato che quest’anno è partito — giustamente — più volte dalla panchina anche dopo la partenza di Destro. Vero, la Roma ha avuto tanti problemi nel 2014–2015 ma insomma, volerci inserire a tutti i costi il capitano giallorosso sembra veramente un’operazione ingiusta. L’unico rammarico è che neanche quest’anno un giocatore di questa levatura si sia potuto togliere soddisfazioni più grandi del suo primo gol in terra inglese, a sigillo della sua carriera, che ne meriterebbe di più consistenti.

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7. Sabatini vs. il mercato di gennaio

Tra infortuni muscolari, traumi sportivi e paturnie generalizzate, a gennaio la palla passa irrimediabilmente al ds Walter Sabatini, carismatico cacciatore di talenti e deus ex machina di questa nuova Roma. Immaginate Humphrey Bogart che interpreta Gilles Deleuze in uno spaghetti western, ne abbiamo parlato qui. A lui spetta il compito di rinforzare una squadra afflitta da diverse assenze, alcune delle quali causate dal fuoco amico di una preparazione atletica molto discussa. Il Walterone internazionale cede Destro (l’unica altra punta a disposizione di Garcia) perché “non è stata solo una scelta tecnica ma volevamo dare respiro al giocatore mettendolo in un altro contesto per esprimere il suo talento. Qui era oppresso da tante cose difficili da raccontare”. Vero, Roma non è una piazza facile. Peccato però, perché in due stagioni e mezzo con la maglia della Roma, Mattia Destro ha totalizzato 24 reti in 57 presenze in campionato, una media di tutto rispetto.

Nelle prime 9 giornate Destro mette a segno 4 gol e poi sparisce, sì, ma d’altronde come il resto della Roma. Qual è la colpa del giovane centravanti, dunque? Se da un lato quando si segna poco viene naturale alla platea prendersela con l’attaccante, dall’altro c’è anche da dire che la Roma appannata vista da novembre non è il tipo di squadra che serve palloni giocabili a una punta come quella ascolana. Forse il dazio che Destro paga davvero è quello di essere un attaccante vecchio stile lontano dai falsi nueve moderni, uno che gioca molto in mezzo ai difensori e prende velocità su spazi larghi e campi pesanti. Più simile a un Chinaglia che a un Lewandowski, forse non è il terminale offensivo ideale per un gioco come quello di Garcia, perché le sue realizzazioni dipendono molto dalle occasioni create dalla squadra. Se la squadra crea, Destro realizza. Se la squadra arranca, Destro rimane schiacciato tra i difensori avversari.

Tuttavia cederlo e lasciare per quattro mesi solo Totti come unica punta di ruolo a disposizione sarebbe stato azzardato. Perciò Sabatini corre ai ripari con Seydou Doumbia, reduce da una coppa d’Africa e da mesi di inattività accumulati per via della sosta del campionato russo. Purtroppo però la punta ivoriana entra in condizione solo dopo quattro mesi, e segna la sua prima rete a cinque giornate dalla fine del campionato, dopo settimane di massacro mediatico per la terribile condizione fisica con cui si è presentato a Roma. Un po’ poco per 14,4 milioni di euro più bonus, anche se lui pare si sia sbloccato. Chiaro che anche se si tratta di un buon giocatore, una squadra che vuole rimanere competitiva su più fronti non può permettersi di aspettare per quattro mesi un rinforzo acquistato in corsa.

Il più tonico e duttile Ibarbo, reduce da un infortunio a Cagliari, finisce ko alla prima apparizione e si riprende anche lui solo recentemente, a poco più di un mese dalla fine del campionato. Le sue convincenti prestazioni però, frutto di un prestito oneroso a 2,5 milioni di euro, potranno essere riscattate in caso al prezzo di 12,5 milioni. Il difensore argentino Nicolàs Spolli, invece, in prestito dal Catania, non è ancora mai sceso in campo. Insomma il mago del mercato Sabatini stavolta il mercato l’ha toppato clamorosamente. per sua stessa ammissione.

Tanto più che sarà anche vero che il gioco di Garcia, sempre uguale a se stesso, è diventato prevedibile, ma è vero anche che la mancanza di terzini che siano all’altezza di questa idea di calcio non lo ha aiutato affatto. Con Balzaretti ko, Maicon desaparecido da metà stagione perché afflitto da fastidiosi problemi fisici, un Ashley Cole con ritmi da partitella aziendale del venerdì, se la Roma avesse avuto dei calciatori in grado di presidiare stabilmente le fasce il centrocampo non avrebbe dovuto fare avanti e indietro per tutta la stagione come un postino giapponese a bagnomaria nella caffeina, e avrebbe potuto preoccuparsi di fare cose più consone a un centrocampo, tipo stare a centrocampo o dialogare maggiormente con il reparto offensivo. Non a caso, infatti, per la Roma le cose sono migliorate un po’ quando nel ruolo di terzino ci è finito Florenzi, uno che dovrebbe stare a centrocampo, ma che per fortuna della Roma ha cuore e polmoni che fanno reparto da soli.

Se l’esterno della Nazionale è sicuramente uno su cui puntare ancora nella prossima stagione — e in tutte le prossime stagioni a venire in cui si sentirà la necessità di giocatori di calcio con personalità nei saecula saeculorum amen — insieme allo sfortunato ma solido Manolas e all’instancabile Nainggolan è anche vero che la mancanza di giocatori in grado di vincere le partite da soli probabilmente precluderà alla Roma la possibilità di togliersi soddisfazioni maggiori di quelle avute lo scorso anno. Non perché si vogliano le figurine a tutti i costi ma perché oggi la concorrenza è spietatissima in Europa e in Italia, dove il Napoli lavora per diventare grande e la Juventus ha ancora troppe marce in più — e, se vende Pogba, anche troppi soldi per il mercato in più-. Tuttavia non è molto verosimile che già dall’anno prossimo la società sia in grado di mettere la rosa del Bayern intorno a un Pjanic apparso per mesi apatico e contrariato dalle reazioni negative del pubblico.

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8. Uno sguardo al futuro

Walter Sabatini dovrà chiarire — anche a se stesso — che tipo di direttore sportivo è: se il tipo che scopre talenti e li rivende a prezzo alto perché li ha valorizzati o se è il tipo davvero in grado di realizzare una squadra che non pratica solo un calcio arrogante, ma che è anche vincente. Qualora si rivelasse essere solo il primo tipo, dovrebbe dirlo chiaro a tondo alla piazza che ha conquistato col suo carisma da poeta pirata: “ragazzi, quest’anno si gioca a pallone da dio ma non si vince”. Non ci sarebbe niente di male: nessuna promessa, nessuna illusione, amici per sempre. Finora è stato il primo tipo di ds, ma tre rifondazioni in quattro anni parlano chiaro. Se la Roma non dovesse conseguire il secondo posto, è lecito credere che a luglio si ricominci dalla quarta rifondazione in cinque anni, e nonostante la stima per l’uomo e per le indubbie capacità, questo significherebbe che Sabatini è un direttore sportivo dalle ambizioni romantiche ma ridotte, almeno per il momento.

C’è anche da dire che Garcia quest’anno non lo ha aiutato granché non valorizzando affatto l’ottimo Uçan, di cui abbiamo parlato qui, che per il talento messo in mostra nelle sue poche apparizioni ha dato l’impressione di uno che sarebbe potuto essere utile con qualche minuto in più a disposizione. Ma della ritrosia del coach a cambiare abbiamo già parlato. Se la Roma dovesse conquistare il secondo posto, non si potrebbe certo dire che Rudi avrà avuto ragione, in quel caso sarebbe giusto parlare di stagione riscattata, più che di stagione positiva.

Anche lo stesso Garcia a questo punto deve capire che tipo di avventore da bar è. Se il personale non soddisfa il suo desiderio di caffè, sicuramente non è un tipo di personale adatto alle sue aspettative, ma è anche vero che a quel punto non gli rimarrebbe che cambiare bar. E se lui non cambia bar, anzi, se addirittura ammette di avere sulle sue spalle la principale responsabilità della gestione del bar, beh. Noi gli auguriamo di restare, e di cambiare mano nella mano con l’ambiente, di migliorare entrambi. Questo se proprio pensa non sia il caso di cambiare bar.

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