Perché ha senso raccontare il Foggia Calcio come una storia di riscatto sociale

Luigi Di Maso
Crampi Sportivi
Published in
11 min readApr 22, 2017

“Ognuno prende i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo”.

C’è un posto però, in cui questo limite diventa un vantaggio sportivo, una spontanea esaltazione dell’appartenenza. Questo posto è Foggia, che sorge sul Tavoliere delle Puglie e sa vestire un abito adatto per ogni occasione, da quella più drammatica a quella più estatica. Un mantello a doppia tinta, nero e rosso.

Il 19 agosto 2012 in un’altra città non troppo distante dal capoluogo pugliese, a Termoli, si gioca il primo turno della Coppa Italia di Serie D. A sfidare i padroni di casa molisani c’è proprio il Foggia, o meglio l’Associazione Calcistica Dilettantistica Foggia Calcio che, scottata dal recentissimo fallimento, tocca quello che è probabilmente il punto più basso della propria storia. In campo tra le file rossonere debutta un difensore di vent’anni, Giuseppe Loiacono. Il 15 aprile 2017, si gioca il match tra Foggia e Reggina allo “Zaccheria”. In caso di vittoria dei rossoneri, e contemporanea sconfitta del Lecce (impegnato sul campo del Matera), i foggiani si qualificherebbero automaticamente in Serie B, con tre giornate di anticipo. Il Lecce va in svantaggio, ma a Foggia la situazione non si sblocca. Fino al minuto 59, momento in cui da calcio d’angolo Giuseppe Loiacono impatta di testa il pallone che vale l’uno a zero, e il boato di circa 20.000 tifosi presenti allo stadio. In quel momento, il Foggia è in Serie B, in Lega Pro ad assistere ad una partita di campionato ci sono 20.000 persone, Loiacono segna ad oggi il gol forse più significativo della sua carriera. Il momento più alto degli ultimi anni. Giuseppe Loiacono in questa storia rappresenta una parabola biblica: partire dal periodo più nero per trionfare in quello più luminoso. È un sogno scolpito nella memoria, anche se il Lecce riuscirà poi a pareggiare poco dopo. Ma quanto vale un punto? Nella città di Foggia hanno aspettato così tanto, che aspettare che un altro punticino arrivi la settimana successiva non fa poi così tanto male.

L’esultanza di Loiacono dopo il gol alla Reggina

Se avete un amico foggiano, non prendetelo in giro quando vi parlerà del Foggia come della storia di una rivalsa sociale. Tra le vie della città si respira il calcio dei Satanelli, in una sorta di simbiosi respiratoria che intercorre tra i sostenitori e la squadra. La storia della società è nota al grande pubblico grazie alle imprese di Zdenek Zeman e del suo calcio iperoffensivo dotato di tridente, con ritmi di gioco impressionanti e interpretato da giocatori all’inizio sconosciuti, e diventati poi icone degli anni ’90 nella massima serie. La filastrocca è conosciuta talmente a memoria al giorno d’oggi che Zemanlandia potrebbe tranquillamente diventare un marchio commerciale registrato.

Ciò che è sfuggito al grande pubblico sono tutti i patemi d’animo vissuti da squadra e città dopo il 1995, anno della ultima partecipazione in Serie A. Il Foggia ha vissuto negli anni ’90 un’epopea forse irripetibile guidata da un doppio tridente. Quello di attacco Baiano — Signori — Rambaudi, e uno societario: Zeman (allenatore), Casillo (presidente) e Pavone (direttore sportivo). A distanza di anni dall’ultima Serie A, dopo un disorientato girovagare tra B, C1 e C2 (poi Lega Pro), nella stagione 2010–2011, a Foggia la terra trema. È pronta la scenografia per il ritorno alla guida del tridente appena citato. Quello che sembrava impossibile diventa realtà in una presentazione in cui risuona l’eco degli anni d’oro. Nonostante la situazione economica poco chiara del presidente Pasquale Casillo, la città senza delega riconcede la fiducia al presidente campano, nonostante dissidi e malcontenti con cui i due innamorati si erano lasciati nel post Zemanlandia. La campagna acquisti è come per abitudine agganciata a un budget che non permette grandi manovre. Solo uno come Zeman, affiancato da Pavone, poteva compiere un mezzo miracolo col piatto povero servito a tavola. Da quella squadra che terminò la Lega Pro Prima Divisione al sesto posto, passarono giocatori come Insigne, Sau, Regini, Diego Farias, Salomon, Simone Romagnoli e Laribi. Tutti approdati poi in Serie A, mentre circa un anno e mezzo dopo, i Satanelli piomberanno nel fallimento, morale del pubblico, e finanziario della società. Per la seconda volta i foggiani si sentono come il partner che perdona il tradimento e puntualmente riceve l’ennesima batosta. Zeman non può nulla questa volta e farà successivamente le fortune del Pescara ancora con Insigne, Immobile e Verratti.

Potrebbe essere il punto di non ritorno o comunque l’apice del malessere di un tifoso del Foggia, ma non è nulla se paragonato a quanto accaduto ancora prima. Basta fare un passo indietro con la storia, la stessa che a più riprese si diverte a eludere l’orgoglio dei foggiani.

I limiti del proprio campo visivo restano i confini del mondo anche nella stagione 2006–2007. Se un intero Paese non ha ancora smaltito la sbornia del Mondiale in Germania e il caos scatenato da Calciopoli, a Foggia la visione è concentrata altrove. C’è un campionato di C1 da affrontare con una rosa discretamente competitiva. I gol della Vipera Mastronunzio e la classe di Salgado garantiscono al Foggia un quarto posto che vuol dire semi-finale di play off contro la Cavese. Di lì in poi il delirio, o meglio l’inferno. Ambiente che per mitologia viene attribuito proprio allo stadio “Pino Zaccheria”. Il pass per la finalissima contro l’Avellino arriverà solo con un gol di Mastronunzio al 95esimo della gara di ritorno. Tra andata e soprattutto ritorno della sfida valida per la promozione in Serie B, succede tutto quello che può accadere solo in un contesto come quello della C. Il Foggia vittorioso all’andata, viene rimontato con una rete di Rivaldo impressionante e comprensibile solo se analizzata attraverso la scienza della balistica. Ovviamente giunta al 43’ del secondo tempo. I Satanelli finiscono all’inferno dei supplementari, dove susseguiranno due espulsioni e due rigori a sfavore. L’ultimo battuto con metà curva del tifo campano praticamente sulla linea di porta foggiana, cosa che ha costretto il direttore di gara all’inusuale triplice fischio con quasi tre minuti di anticipo.

Era l’estate dei Mondiali di Francia ’98 quando il Foggia retrocesse in C1 dopo gli anni più belli. Sembrava un tormento destinato a durare poco, ma la rabbia, le lacrime alternate alle questioni giudiziarie, i cambi di denominazione e l’impossibilità ad inserire i due tipici diavoletti su stemma e maglia, diventano macigni. Come se per i foggiani il vero inferno fosse la città e non lo Zaccheria. Delusioni in campo che sono riuscite a tramortire abbondantemente due, se non tre generazioni di spettatori.

Se la sconfitta di Avellino ha reso cenere le speranze di chi in A ha visto la propria squadra fermare le blasonate Juventus e Inter, la caduta nel burrone della serie D ha sconsolato anche quelli che Zemanlandia l’hanno conosciuta attraverso i racconti dei propri genitori. Una storia di malinconia e riscatto che non risparmia nessuna crudeltà, nemmeno la più sadica. Una storia che unisce il foggiano tipico e quello di provincia, due tipologie caratterialmente distanti. Chi vive in provincia e tifa Foggia, non sarà mai completamente permeato come chi ci vive e tifa. Due anime che sono riuscite ad allinearsi in maniera empatica in un’occasione, ovviamente con annesso finale catastrofico, nella stagione 2015–2016.

Curva Nord ‘Franco Mancini’ in occasione del derby contro il Lecce

È l’anno in cui appassionati, addetti ai lavori e sportwriter scoprono il gioco del Foggia di De Zerbi. Gioco di posizione con chiara ispirazione guardioliana, modulo 4–3–3 e concetti come il gegenpressing messi a disposizione di un campionato in cui queste idee risuonavano a tratti astratte. Non c’è dubbio, il Foggia di De Zerbi è quanto di più spettacolare sia passato sopra il manto erboso dello Zaccheria negli ultimi anni. Ma il primo posto sfugge di mano per via di qualche punto perso proprio per la mancanza di un aspetto speculativo nel gioco, essenziale su alcuni campi della Lega Pro. Ma la qualità in campo, condensata con la strepitosa vena realizzativa di Pietro Iemmello (capocannoniere di categoria con 24 gol + 3 nei play off) indirizzano i rosso neri dritti alla finale, dove verrà vissuto l’ennesimo schianto contro un muro di cemento. Nel percorso emotivo di un tifoso del Foggia, oltre ad un senso di sfiducia nei confronti del futuro, si è sempre celata una spada di Damocle. L’impressione a Foggia è sempre quella che dietro l’angolo si possa nascondere un’insidia, inizialmente camuffata in gioia. Nella finale dei play off del 2016 è stato così. La caparbietà difensiva del Pisa di Gattuso il 12 giugno (ri)succede l’impensabile. Invasioni di campo e imperfezioni tecniche rendono la gara l’ennesima cornice di una disfatta. Uno Zaccheria stracolmo (più di 50.000 le richieste di biglietto) ancora una volta è teatro di sogni infranti.

Tutto ciò si mescola a quello che vuol dire tifare il Foggia Calcio. All’interno delle curve si consuma settimanalmente un vero rituale tribale. La tifoseria presente ad ogni partita è uno dei veri fiori all’occhiello della storia societaria. L’ansia e l’entusiasmo attorno alla squadra vengono vissute nei bar e nei viali della città, e puntualmente allo stadio vengono consumate e riversate queste emozioni in un tifo invidiato a livello internazionale, e che stando alle parole di Gigi Di Biagio, ha spesso intimorito i mostri sacri delle big della Serie A.

La Serie B negli ultimi 19 anni ha purtroppo perso questo tipo di narrazione, e viceversa la città, priva di un campionato di maggior blasone, ha vissuto anni di castigo. La promozione nella serie cadetta sarà l’ennesimo investimento emotivo chiesto ai foggiani, e già questo è presupposto per un grande matrimonio.

Se a Foggia il campo visivo del tifo e del mondo non supera i confini della “Curva Franco Mancini”, ogni “amante” ha un suo punto di vista e storia attorno all’apologia del Foggia Calcio. Ho voluto raccogliere 3 testimonianze, interessandomi ai momenti più epici del ciclo di un tifoso.

Il primo punto di vista è di Giuseppe Sansonna, regista del documentario “Zemanlandia”. Cinquantacinque minuti che un amante di questo gioco deve concedersi d’obbligo. Il documentario uscì nel 2009 e oggi Sansonna è autore alla Rai. Zemanlandia è ancora oggi uno dei contenuti multimediali più esaustivi su quel frammento di favola calcistica.

Il documentario Zemanlandia di Giuseppe Sansonna (2009)

Perché raccontare il Foggia?

Sono nato a Bari nel ’77, e successivamente grazie al calcio si iniziava a parlare della Puglia in maniera costruttiva, e non per fatti di sangue. Gli anni del grande Foggia facevo l’arbitro e sono riuscito ad osservarlo dalla tribuna proprio perché avevo i biglietti gratis. All’epoca un posto allo stadio costava 100 mila lire. Mi appassionò molto il rituale tribale che si consumava sugli spalti, in tal senso ricordo un episodio di tifo memorabile in Bari — Foggia finita 1 a 3 (1991–1992). Il tifo attorno alla squadra è stato quindi il maggior fattore di attrattiva. Ma (per quanto riguarda il documentario Zemanlandia) gli elementi drammaturgici presenti nella società mi appassionavano a dismisura. Da una parte Zeman, “il muto” che mi ricordava la figura di Clint Eastwood, dall’altra Casillo. Due personaggi dicotomici che creavano un contrasto meraviglioso. Zeman poi un personaggio che esternava le sue emozioni in maniera unica: attraverso lo spettacolo offerto in campo.

Cosa ha perso la Serie B senza il Foggia?

Mi rifaccio al motivo per cui Zeman scelse Foggia: C’era un pubblico infuocato.

Il ricordo più brutto legato al tifo?

La papera di Bacchin contro il Napoli che praticamente lottava come noi per un posto in Coppa UEFA. All’epoca il portiere poteva ancora prendere il retropassaggio con le mani e ancora non mi spiego come sia potuto capitare quell’errore che portò al gol di Di Canio. Purtroppo è costato un sogno, il Foggia e una pugliese in Europa.

Il più bello?

La vittoria contro la Juventus. Mi risultava impossibile se non con l’immaginazione, pensare al Foggia che batteva una delle migliori squadre del campionato. La sfida tra la più forte e la più debole che si risolve con il trionfo di chi era dato per spacciato, è il momento che mi emoziona di più.

La telefonata con Giuseppe Sansonna è durata più di 40 minuti e sono sicuro che poteva durare un’intera giornata parlando del Foggia. Dopo sono passato alla conversazione con Giuseppe Ciccomascolo, collega giornalista e tifoso folle dei Satanelli, tant’è che ora vive a Londra ma come in occasione della finale dei play off, fece un estenuante quadruplo viaggio per essere allo stadio.

Il ricordo più brutto legato al tifo del Foggia?

Purtroppo, trovare un ricordo negativo legato al Foggia negli ultimi dieci anni diventa semplice. Potrei parlare di Termoli l’onta più grande per la nostra storia, il primo passo verso la rinascita dopo il dramma Casillo, quando ci presentammo con pochi “senior” e con una squadra rattoppata in pochissimo tempo, in uno stadio piccolo, che poteva contenere una manciata di tifosi (se paragonato allo Zac, ovvio), completamente riempito dalla folla rossonera.

Potrei parlare delle partite con Tuttocuioio, con Ctl Campania — e delle pietre che ci lanciarono -, delle botte dopo il derby col Barletta, ma penso che la ferita più “fresca” e dolorosa sia quella dello scorso anno col Pisa. In due giorni ho viaggiato da Londra allo Zaccheria e ritorno. I pianti con gli amici di sempre. Un anziano, in Curva Nord, a fine gara mi guarda e fa: “Ho 89 anni e non so se l’anno prossimo potrò tornare a vedere la squadra”. Mi piace pensare che sia in ansia come tutti noi in queste ore.

Il più bello?

Ma tra i ricordi più belli, più che una partita, io citerei il gol del 2–0 di Coletti contro il Lecce di quest’anno, nella gara di ritorno. Lì ho urlato di gioia, in quel momento penso che abbiamo dato la mazzata finale alla concorrente numero uno. E spero che, da lunedì, potrò citare anche la gara col Fondi come uno dei ricordi più emozionanti di sempre.

L’ultima testimonianza è di Michele Pio D’Avena, un imprenditore agricolo della provincia, ma che lavora da anni a Foggia e vive ogni rituale della città, incarnandone lo spirito semplice e goliardico. Uno che non tifa una “grande squadra” ma vive solo della passione per i Satanelli.

Il ricordo più bello da tifoso?

In 20 anni c’è ne sono stati tanti, dalla retrocessione dalla A alla B, poi la D, tutte le vicende societarie che si sono susseguite in tutti questi anni, ma sicuramente uno dei ricordi più brutti e stata aver perso la finale play off contro l’Avellino agli sgoccioli. Fu una settimana tragica dove un misto tra rabbia e delusione misero le tende dentro di me, poi superai la cosa come tutte le cose brutte.

Quello più bello?

Di momenti belli ce ne sono di meno. A parte la bella cavalcata di quest’anno, ricordo volentieri la promozione in C1 nel 2002–2003, o anche la mia prima partita Foggia — Triestina, 5 a 1 nel 1990–1991 con la successiva promozione in A. Però il più bello in assoluto che ho, forse perché è più recente, risale al 2010, quando giocammo la finale play out a Foggia, dopo un’annata disastrosa, ero molto teso Perché stavamo perdendo e ormai la retrocessione era ad un passo. Poi il gol dell’argentino Franco Caraccio di testa, magistrale ed imperioso lo stacco. Gonfiò la rete e fortunatamente ci salvammo. Dalla gioia (e non dovrei dirlo) tirai un calcio al seggiolino davanti a me distruggendolo. Sfortunatamente per Caraccio appena finita la partita gli comunicarono che era appena venuto a mancare il padre. Un ricordo emozionante in tutti i sensi.

Nel momento in cui scrivo, mancano meno di 24 ore alla trasferta che impegnerà il Foggia contro il Fondi. Con un pareggio, la squadra allenata da Stroppa passa automaticamente in Serie B. Potrebbe anche non essere strettamente necessario un gol di Loiacono. O magari una rete di Agnelli, foggiano e capitano di una vita.

Quest’anno la squadra e la società sembrano entrambe padrone del proprio destino. Non a caso il motto lanciato sui canali digitali recita chiaramente che #Quistèlannbun.

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Luigi Di Maso
Crampi Sportivi

Un pugliese che vive a Firenze, organizza le Olimpiadi Universitarie della città e si occupa di comunicazione web. Caporedattore per Crampi Sportivi.