Periferie del tennis — Racconto atipico degli Internazionali d’Italia 2014 pt. I
1.1. Come tutto è cominciato, o “un’introduzione”
La genealogia di questo pezzo è strana, ai limiti dell’assurdo, e merita una piccola introduzione. Come servizio d’informazione e approfondimento sportivo di base a Roma, circa un mese fa, abbiamo iniziato a chiederci se esisteva un modo di coprire gli Internazionali di Italia in un modo che non fosse la poltrona o il biglietto. Dopo aver fallito nella tradizionale via della richiesta di un accredito stampa, abbiamo contattato, DUDEMAG, una rivista online con la quale abbiamo contatti ben avviati, sperando potessero darci una mano. Il tentativo sembrava aver fatto un buco nell’acqua — tanto che non ci pensavamo più — fin quando, a pochi giorni dall’inizio del torneo, siamo stati contattati con la proposta shock di coprire la parte intrattenimento degli Internazionali per la suddetta rivista. Il nostro coinvolgimento in questa storia è stato molto rapido e confuso, non abbiamo avuto il tempo di pensare o strutturare un progetto serio, abbiamo fatto appena in tempo a scandire la parola TENNIS. Che ci è stato promesso copioso e dalla stanza dei bottoni.
Quello che segue è una riflessione, in ordine sparso ma neanche troppo, dell’esperienza del tennis visto dal vivo.
1.2. Il badge
Gli internazionali di Roma sono un evento che, nel circuito tennistico, viene etichettato col nome — un po’ oscuro — di Master 1000. Nei Master 1000 il torneo vero e proprio, con i primi 56 giocatori al mondo, inizia la domenica. Ma il sabato ci sono le qualificazioni, e in qualche modo il tennis entra ufficialmente nel foro italico.
Noi siamo attivi dal giovedì, perché la mondanità inizia prima del tennis. I primi giorni abbiamo il tempo di prendere le misure, conoscere gli spazi, incontrare gente, fare socialità. Entriamo dove vogliamo e come vogliamo, pensiamo di avere tutto il potere necessario. Poi arriva il tennis e tutto cambia.
Per accedere all’area serve un badge: il solito badge che ti dovrebbe aprire tutte le porte, più o meno. Più o meno perché i badge funzionano tramite un sistema di simboli quasi militare: più numeretti e stelline decorano il tuo badge e più porte, magicamente, ti si apriranno. Si racconta di persone nei piani alti che arrivano ad avere un numero di numeretti così alto e di stelline così colorate da poter entrare negli spogliatoi a fare le trecce a Serena Williams.
Per avere il badge dobbiamo entrare negli uffici dell’organizzazione: edificio bianco, architettura razionalista epoca del fascio.
Qui iniziano le sorprese: in un misto di promesse e ubriachezza di potere, ci aspettavamo un badge cazzuto, di quelli che guardano dall’alto in basso gli altri badge e non fanno la fila quando vanno in discoteca. La realtà è un po’ diversa, ma dopo qualche battaglia personale che non stiamo qui a riportare, otteniamo un onesto badge, di quelli sposati con figli che lavorano dalla mattina alla sera e sono pieni di dignità. In parole povere sul nostro badge abbiamo tutti i numeri che servono per entrare nei campi (nello specifico il 2), ma presto scopriremo che la realtà è un altra, che il Centrale non è il nostro regno e che vi entreremo solo in determinati momenti e solo ricorrendo alla vecchia arte della pietà.
Siamo dentro
1.3. Il risorgimento del foro
Il primo segnale che si è dentro gli Internazionali d’Italia è di tipo olfattivo. Si tratta dell’odore artificiale di compensato dei pannelli degli stand che si distendono lungo via delle Olimpiadi. È quell’odore la madelaine che mi riporta a dieci anni fa, quando qui ci ero entrato da raccattapalle e giravano una piccolissima parte dei soldi di cui è ricoperto il torneo in questo momento storico. Sembra paradossale parlare del 2003 come di un anno associabile alla povertà, ma per gli internazionali d’italia è così, almeno rispetto ad oggi. Il fatturato, negli ultimi dieci anni, è passato da tre a trentasette milioni di euro, facendo di Roma il quarto o il quinto torneo al mondo.
Mentre il resto della città viaggia verso una decadenza per certi versi epica, il parco del foro italico è stato ormai del tutto sottratto dalla fatiscenza.
Simbolo di questo risorgimento del foro è il destino dell’aula bunker. Progettata nel 1938 da Luigi Moretti come Accademia della scherma fu trasformata nel 1981, per motivi poco comprensibili, nell’aula bunker del tribunale di Roma. È qui che tra il 1982 e il 1984 si svolsero cupi processi contro decine di militanti dell’autonomia operaia.
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Sala della scherma[/caption]
La scelta del luogo non fu casuale, suggerita probabilmente dall’atmosfera tetra e spettrale dagli spazi. Da quest’anno l’aula bunker è stata trasformata in un museo che ospiterà per la durata del torneo una mostra collettiva intitolata playground, con artisti tipo Sten&Lex. Intorno si stende un prato che arriva fino ai nuovi campi open space. Sono loro il mio primo contatto col tennis agli internazionali di quest’anno. Non ci sono reti o protezioni e, passando, mi accorgo che sul campo — per lo più ignorato — c’è Goran Ivanisevic. È bello, in forma e abbronzato; sta allenando Marin Cilic, suo connazionale quasi gobbo che gioca un tennis banale. Una delle cose più belle di vedere il tennis dal vivo è la presenza, raccolta in pochi metri, di un numero incredibile di persone che giocano a tennis a un livello sconvolgente. Facendosi un giro si possono incrociare, in modo inaspettato, Goran Ivanisevic su un campo secondario, o Boris Becker di ritorno da via condotti con le borse di Louis Vitton, o Berdych che si fa un giro tra gli stand.
1.4. Il pubblico
Che arrivati a sabato il tennis sia cominciato te ne accorgi dall’eterogeneità della gente che inizia a popolare il parco del foro italico: famiglie, staff vario, giornalisti più o meno importanti, allenatori e, soprattutto, giocatori.
L’eterogeneità delle persone intorno è bella da vedere. Mi incuriosiscono soprattutto i tanti uomini in abbigliamento tennistico, con tanto di borsone porta racchette. Mi chiedo se fanno davvero tutti parte di qualche staff tecnico o se sono semplici appassionati vestiti così per entrare meglio nel mood. Credo più a questa seconda ipotesi. Restando sullo stile colpisce soprattutto l’eleganza dei giudici di linea che, nonostante un sotto “pigiamato”, sfoggiano un abbigliamento tipo Hemingway seduto al tavolino di un bar di Corfù. Maglione ‘a V’ Australian, polo rossa e addirittura l’azzardo di un panama bianco.
A ricordare che, sì, il tennis è uno sport sempre più popolare ma non per questo può smettere di essere elegante.
Il numero sovrannaturale di persone presenti al Foro rimarrà una costante del torneo, troveremo tantissima gente su ogni campo, per ogni partita. Soprattutto la presenza di bambini è impressionante. Se c’è una cosa che definisce più di tutte un torneo di tennis importante è la presenza dei bambini a caccia di autografi. Una presenza costante che si muove puntiforme e nascosta fino agli ultimi game, per poi ricomporsi improvvisamente, come esseri unicellulari attirati da una forza sconosciuta, appena una partita sta per finire. Fateci caso, se nei pressi del tunnel dove passano i giocatori iniziate a vedere una massa di bambini con la classica pallina da tennis gigante in mano, allora vuol dire che uno dei due tennisti è spacciato.
Il bello di questa realtà è che è molto democratica: l’autografo ha un valore x assoluto tale che le differenze tra Federer e Sijsling sono quasi nulle, o comunque molto minori rispetto al valore x espresso sul campo. L’impianto del Foro Italico, poi, con tutte le sue strutture raggruppate, rende possibile incontrare qualunque giocatore sia mentre si allena, sia mentre semplicemente si sposta da un punto ad un altro. Per il bambino a caccia di autografo questa è una manna: lo puoi vedere rimbalzare da un posto ad un altro per riempire quella palla che sembra sempre troppo gialla.
Questa caccia continua, mi ha fatto pensare al valore della riconoscibilità nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Con l’evoluzione della tecnologia, la nostra esperienza con lo sport e l’atleta è diventata sempre più ampia. Con il tennis in particolare sta quasi raggiungendo un rapporto 1:1; tutto ciò che ruota intorno al tennis e ai tennisti è riproducibile e facilmente esperibile da tutti. Questo crea il fenomeno dei bambini cacciatori di autografi, il cappellino con le iniziali del tennista preferito, la racchetta pagata a peso d’oro perché la usa tizio o caio.
Questa fidelizzazione estrema crea dei cortocircuiti iconografici così ampi che io, che da questa realtà non sono immune, riconosco Andy Murray dalla voglia che ha sul polpaccio, ovvero in un’esperienza sensoriale così totalizzante, non mi serve più la faccia, neanche il dritto o il rovescio particolare, che per ogni tennista è unico, ma basta un dettaglio insignificante come una voglia sul polpaccio.
1.5. Le qualificazioni
Uno dei vantaggi di avere un pass è che puoi permetterti di guardare il tennis anche in giorni che non varrebbero i soldi del biglietto. È sabato e c’è il torneo di qualificazione. Si gioca per lo più sui campi secondari, che sono quelli che preferisco: è qui che con maggiore violenza si crea un cortocircuito tra un’atmosfera quasi da circolo e un livello di gioco irreale. Come ben descrive David Foster Wallace in Tennis, TV, trigonometria e altre cose divertenti che non farò mai più, quella delle qualificazioni è una dimensione durissima, povera, ben lontana dall’universo morbido e levigato dei primi giocatori del mondo.
Il tennis si regge su un regime meritocratico e spietato: più vinci -> più giochi -> più fai i soldi. Se giochi le qualificazioni, il più delle volte, ti stai giocando i soldi che ti aiuteranno a coprire le spese necessarie a un tennista professionista: l’affitto dei campi, il volo per Roma, l’affitto di casa, le bibite energetiche e il compenso per allenatore e preparatore. Le qualificazioni sono una questione di sopravvivenza. Sono partite dure, nelle quali si incrociano tennisti provenienti da carriere molto diverse: ci sono i giocatori che vengono da lunghi infortuni, i gregari, i bravi-ma-non-così-tanto, i nobili decaduti. Questo sabato, sul campo 6, gioca Bernard Tomic, un tempo ritenuto la next big thing del tennis mondiale e ora decaduto al numero 81 del mondo. Tomic ha 22 anni e a 19 è stato il più giovane tennista — dopo becker, mcenroe e borg — a raggiungere i quarti di finale di Wimbledon. Ora è ridotto a giocarsi l’ingresso del torneo contro un certo Estrella-Burgos, un onesto lavoratore della terra di cui non riesco a riconoscere neanche la bandiera che accompagna il nome sul tabellone. Più recentemente, nell’ultimo torneo di Miami, Tomic ha fatto registrare un record un po’ meno onorevole: perdendo 6–1 6–0 da Jarko Nieminen ha giocato la partita di tennis maschile più breve della storia: 28 minuti. Quando arriviamo Tomic ha già quasi perso e il pubblico tifa contro di lui, probabilmente non perdonandogli la pigrizia con cui sta affrontando un avversario sulla carta più debole. Gioca in modo indolente, un tennis fatto di colpi estemporanei e nessuna progettualità.
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L’impeccabile preparazione di Tomic agli Internazionali d’Italia[/caption]
Il primo approccio col tennis giocato è anche il primo approccio con tutti i commenti con cui il pubblico ricama e abbellisce una partita. a)Tomic tira un approccio di dritto e attacca, Burgos lo passa facile con un lungo linea: “tiè, t’ha fatto ‘a fotografia”, commenta soddisfatto un signore brizzolato vicino a me, inspiegabilmente vestito con un completino da tennis (vd. sopra). b)scambio mediamente lungo; Burgos chiama Tomic a rete con una palla bassa a mezzo campo, l’australiano abbocca e viene avanti proprio nel momento in cui Burgos alza un lob in controtempo: “braavo, t ‘o sei magnato”.
Tomic perde dopo circa un’ora e mezza di gioco, stringe la mano all’avversario e si rimette su un aereo che lo porterà al prossimo torneo ATP.
1.6. Gli allenamenti
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Illustrazione di Max-o-matic[/caption]
Se sei un ragazzino e giochi a tennis il momento in cui realizzi che non arriverai mai ad alti livelli è quello in cui guardi per la prima volta un professionista allenarsi. È uno spettacolo davvero peculiare: non ha alcun senso fare un biglietto per gli internazionali d’Italia e non guardare nemmeno un allenamento. Per cui lasciate perdere il campo centrale — esperienza a metà tra la partita reale e quella televisiva -, fate un biglietto “ground” e presentatevi al foro alle 11 del mattino. A quell’ora la gente come David Ferrer è già sul campo a provare i rovesci lungo lungolinea da almeno un’ora e gli spalti sono mezzi deserti.
Un tennista in allenamento è come una macchina perfetta a riposo, un esempio di potenza dormiente. Indossa una maglia degli sponsor, ma di quelle in cotone con qualche scritta simpatica, ed è completamente sciolto nei movimenti, come se fosse immerso in un ambiente pieno di vibrazioni positive. La palla viaggia a velocità assurde, ma viene tirata in modo fluido, rilassato. È come se non potesse mai smettere di essere ciò che è: una persona con una coordinazione occhio-mano a livelli che gli consente di giocare sull’orlo dell’inconsapevolezza. Guardare l’allenamento di un tennista professionista comunica una specie di armonia cosmica. Allora sedetevi sulle prime file (non avrete bisogno di una prospettiva chiara del campo) dalla sua parte e mettetevi in contemplazione come fareste davanti a una cascata. Abbassate il livello di attenzione e fate emergere un pensiero astratto: fatevi guidare dalla sintassi sonora dei colpi e concentratevi sugli arabeschi tracciati dai movimenti.
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Lunedì sera arrivo al foro un po’ tardi, sono le 19 e il pubblico ha il viso arrossato dal sole di una giornata di tennis. Le partite sono state più rapide del previsto e sono tutte finite. I maniaci però non vogliono perdersi niente e si annidano sui campi dove ci sono gli allenamenti, a raccogliere anche le briciole della giornata. In realtà se ad allenarsi sono i gemelli Bryan non si tratta proprio di briciole. Bob e Mark Bryan sono due fratelli con l’aspetto da supereroi che dominano il doppio da quando sono nato, che io sappia. Stanno facendo un allenamento specifico sulle volè, soprattutto sugli approcci da metà campo. Il risultato è una sorta di racchettoni giocato a velocità disumane. I palati fini gradiscono, come testimonia il signore accanto a me: «se vede che so’ doppisti, guarda che mano…».
Sul Pietrangeli c’è Nadal ad allenarsi. Nadal agli Internazionali di Roma è un capo assoluto. Ha vinto il torneo una cosa come sette volte e ogni suo allenamento si trasforma in una celebrazione reale. I ragazzini romani lo adorano in modo viscerale, inneggiano persino a Tony — lo zio, il suo allenatore — e accompagnano ogni suo gesto e micro-movimento con una vasta gamma di commenti vocali: «oooooooh», «oooolèè»; «aeee». Essere Nadal agli internazionali d’italia deve essere una specie di esperienza religiosa.
1.7. Il grand stand
Per venire incontro al tennis, spettacolo ormai debordante, l’organizzazione ha creato questo campo — Grand Stand o Supertennis Arena — che ha la funzione di campo numero 2. Per entrarci, mi sembra di capire, ci vuole un biglietto apposito o il biglietto per il centrale (oppure il nostro pass che a quanto pare ha potere solo qui). La sua posizione è un po’ sfigata: i big giocano sul centrale, gli italiani tendono a metterli sul pietrangeli sia per cornice sia perché tende a riempirsi e diventare una bolgia. Il grand stand si trova in questo limbo che lo rende il campo meno appetito, anche se molte buone partite si svolgono in esso. Ad esempio, prima di Berdych — Tursunov, questo è l’ambiente che troviamo:
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Se non fosse per il freddo, sembrerebbe di stare ad agosto a Lido dei Pini, in attesa di un’improbabile partita di beach soccer tipo Svizzera-Honduras, eventi a cui o ti trovi per caso o sei un vero schizzato. Eppure lì a breve scenderà in campo Berdych, un finalista di Wimbledon, uno dei migliori giocatori del mondo. Il pubblico è vorticosamente attirato dal Centrale, un po’ per la presenza in campo di Nadal, che di per sé basta, un po’ dal campo stesso. Ci accorgiamo infatti dell’attrazione metafisica del Centrale, dove pare siano tutti accolti, tranne noi, che pure abbiamo il diritto di entrare. L’arena Supertennis è stata forse l’unica nota dolente per gli organizzatori: non era esaurita neppure per Murray — Melzer; probabilmente resa necessaria dal dover condensare i due tornei (maschile e femminile) in un’unica settimana. Noi vogliamo ricordarla con la conga di sottofondo, i pochi intimi presenti, come una brutta festa delle medie in cui Berdych e Tursunov si prendevano a pallate.
Domani la seconda parte
Di Marco D’Ottavi ed Emanuele Atturo