Peter Norman. Il terzo uomo

Crampi Sportivi
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7 min readOct 2, 2016

Una folla commossa applaude mentre le note del tema musicale di Momenti di Gloria riempiono la Williamstown Town Hall. È il 9 ottobre del 2006. Tommie Smith e John Carlos si prestano ancora all’obiettivo dei fotografi. Trentotto anni prima hanno regalato al mondo quello che Le Monde e LIFE considerano uno dei venti scatti più influenti di tutto il Novecento. Quel giorno, nei loro occhi non c’è rabbia, né spirito di rivendicazione. C’è solo dolore e commozione. Stanno portando sulle spalle la bara del terzo uomo in quella foto, morto una settimana prima, martedì 3. “Non ha alzato un pugno quel giorno” diceva di lui Smith, “ma ha teso una mano”. “Avete perso un grande soldato” ricorda Carlos durante la cerimonia. “Adesso tornate a casa e raccontate ai vostri figli la storia di Peter Norman”.

Cresciuto in una famiglia di Thornbury, Melbourne, devota dell’Esercito della Salvezza, è un ragazzo asmatico che nel 1956 saltava la scuola per andare a vendere torte salate e pasticci agli spettatori alle Olimpiadi. Ma quando Betty Cuthbert diventa la prima australiana a vincere un’oro olimpico in casa, si incanta a guardarla: i tifosi ricevono i pie già freddi.

Vorrebbe giocare a football australiano, ma il kit costa troppo per la sua famiglia. Dopo la scuola diventa apprendista macellaio e riesce a prendere in prestito un paio di scarpe usate da corsa. Non è certo un fulmine in partenza, ma sulla progressione ha pochi rivali. Neville Sillitoe, il suo mentore prima ancora che suo coach, nutre il suo talento naturale fino al sesto posto nella semifinale dei Giochi del Commonwealth nei 200 metri. Quattro anni dopo, nell’edizione disputata in Giamaica, vince il bronzo sul mezzo giro di pista e nella staffetta 4x100.

Agli Australian Games del 1968, i trials nazionali per le Olimpiadi, è il miglior sprinter dell’isola. È il miglior centometrista e nei 200 ha abbassato il suo limite a 20,6 secondi. Quando arriva a Città del Messico, però, è un ventottenne sostanzialmente sconosciuto, che non ha ancora mai corso su una pista che rispetti gli standard a cinque cerchi. Si è fatto notare ai Giochi del Commonwealth a Perth nel 1962. Il sesto posto in semifinale nelle 220 yards è solo il preludio ai due bronzi di quattro anni dopo, in Giamaica, sulla stessa distanza e nella staffetta 4x100.

Il comitato olimpico australiano gli dà appena tre obiettivi da raggiungere in Messico: ripetere il tempo di qualificazione, non arrivare ultimo in nessuno dei turni, non farti mai battere da un britannico. In pochi credono in lui, anche gli americani si dicono certi di poter completare l’en plein oro-argento-bronzo nei 200 metri piani. “Quando l’ho visto la prima volta, ho pensato: ma chi è questo ragazzino?” racconterà anni dopo John Carlos alla CNN.

Nelle batterie, però, Norman migliora il record olimpico. In finale, il 16 ottobre, quarto giorno di Olimpiadi, esce piano dai blocchi dopo lo sparo dello starter, come Smith che ha mal di gola ma alla curva passa John Carlos e vola fino all’oro in 19.83: nuovo record nazionale, olimpico e mondiale. Carlos guarda a sinistra negli ultimi 40 metri, rallenta e non vede dall’altro lato Norman che lo brucia e gli strappa l’argento in 20.06, ancora primato australiano sulla distanza: con quel tempo avrebbe vinto l’oro perfino a Sydney 2000.

Smith, Carlos e Norman tornano nella lounge per pettinarsi e prepararsi alla premiazione. “Tommie e John parlavano di quello che avrebbero fatto di lì a poco, non era un segreto”. Smith ha fatto comprare a sua moglie un paio di guanti neri, anche senza sapere esattamente cosa farne. Anche Carlos dovrebbe averne uno, ma li ha dimenticati al Villaggio Olimpico. È Norman che suggerisce ai due di indossarne uno a testa. Sul podio uno lo indossa lui, alla mano destra, l’altro lo cede a Carlos. I loro pugni alzati al cielo, i guanti neri nel cielo del Messico, fanno il giro del mondo. Ogni dettaglio è studiato per dare un messaggio. Sono entrambi senza scarpe, con un paio di calze nere, per simboleggiare la povertà dei neri. Smith ha una sciarpa nera al collo, per simboleggiare l’orgoglio afroamericano, Carlos ha la felpa sbottonata, omaggio agli operai che lavorano negli Usa e ha una collana di perline, idealmente una per ogni nero linciato o ucciso di cui nessuno ha pianto la morte.

“Ho vinto un argento, ma ho corso la gara più veloce della mia vita e sono diventato parte di qualcosa che trascende i Giochi”. Norman vuole esserne parte non solo come spettatore. Chiede a Paul Hoffman, un atleta della nazionale Usa di canottaggio, una coccarda gialla dell’Olympic Project for Human Rights, l’organizzazione creata dal sociologo Harry Edwards di cui fanno parte anche Smith e Carlos. Hoffman non ne ha altre, così decide di dargli la sua.

Norman non è nuovo alle proteste. Si è opposto alle sistematiche discriminazioni degli aborigeni, che in Australia hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1962 e hanno iniziato ad essere considerati nei censimenti nazionali solo nel 1967. “Penso che molti australiani, almeno spero, apprezzeranno quello che ho fatto” dichiara Norman, secondo quanto riporta il 18 ottobre il quotidiano The Age. “Sono diventato amico di Smith a Los Angeles nel 1966, poi lui l’anno scorso è venuto in Australia. Ho seguito la sua carriera, sono molto interessato a quello che fa. Credo nei diritti civili. Gli uomini sono nati tutti uguali, devono essere trattati tutti da esseri umani. Pensavo che fossa una buona chance vedere un uomo bianco dalla loro parte”. In prima pagina, sul quotidiano di Melbourne, la protesta guadagna decisamente più spazio, nel titolo e nella foto, del risultato sportivo. “Medagliato australiano offre il suo supporto. Il Black Power rialza la testa ai Giochi” titola in prima pagina il Sydney Morning Herald. “Il Black Power vince i 200 metri” scrive The Australian, che però sottolinea la sua opposizione alla White Australia Policy abbandonata dal governo solo nel 1973 con toni sottilmente critici. “Norman potrebbe aver tolto lustro alla medaglia d’argento” per la partecipazione alla dimostrazione di Smith e Carlos, si legge.

Toni che la stampa americana, con una radicalità molto più marcata, userà per commentare il gesto di Smith e Carlos. Il settimanale Time gioca con il motto delle Olimpiadi, “Faster, Higher, Stronger” (“Più veloce, Più alto, Più forte”) e descrive la scena come “Angrier, nastier, uglier” (Più arrabbiata, più sporca, più brutta). Il Los Angeles Times li accusa di un saluto “di tipo nazista”, il Chicago Tribune di essere una fonte di imbarazzo per la nazione: il loro gesto, si legge, è “un segno di disprezzo per gli Stati Uniti”, “un insulto ai loro concittadini”. Ma l’attacco più feroce arriva da Brent Musburger. “Dobbiamo riconoscere a Smith e Carlos almeno un merito. Sapevano come portare le loro ragioni di tutte le tv internazionali, mettendo così nel massimo imbarazzo la nazione che ha pagato loro il viaggio e la camera a Città del Messico” scrive sul Chicago American. “A un certo punto ci si stanca di vedere gli Stati Uniti denigrati da atleti che si divertono alle spalle del loro Paese. Se Smith e Carlos credevano che il fine giustificasse la loro dimostrazione di simpatia per il Black Power durante l’inno nazionale, avrebbero dovuto disertare del tutto la cerimonia”.

Come Smith e Carlos, cacciati dal Villaggio Olimpico, Norman non viene certo elogiato per il suo gesto in patria. I vertici della federazione australiana non lo selezionano per le Olimpiadi di Monaco del 1972, nonostante fosse sceso sotto il minimo di qualificazione 13 volte sui 200 e cinque sui 100. L’Australia preferisce presentarsi a un’edizione dei Giochi per la prima volta senza sprinter piuttosto che convocarlo. In pochi anni, Norman si ritira, divorzia, entra in depressione e diventa dipendente dagli antidolorifici: in quel lungo periodo buio, usa la medaglia d’argento di Città del Messico come fermaporta.

A Sydney, il comitato olimpico australiano invita tutti gli atleti ancora in vita che hanno partecipato alle Olimpiadi per un giro d’onore ai Giochi. Tutti tranne Norman, che in fondo è solo il miglior sprinter nella storia della nazione. Norman viene comunque invitato dalla delegazione Usa. “Sei il mio eroe” gli dice Michael Johnson, che lo abbraccia mentre Edwin Moses gli tiene aperta la porta.

“Sono fermamente convinto che in una cerimonia di premiazione alle Olimpiadi ci sono tre persone chiamate a stare ognuna su un metro quadro della terra di Dio, e quel che ciascuno decide di farci mentre è lì dipende solo da lui” spiega al nipote Matt per il documentario “Salute!”, distribuito in Australia nel 2008. “Se non avessi indossato la coccarda, adesso sarei solo un’altra medaglia d’argento”. Eppure, nella storia della foto forse più usata e conosciuta nella storia dello sport, nel racconto di un momento che ha cambiato il mondo, Norman è gradualmente sparito dalla narrazione. Quando nel 2005 l’artista Rigo realizza una scultura commemorativa inaugurata nel 2005 all’interno del campus del San Jose State College, il secondo gradino del podio è vuoto. C’è Smith sul più alto, con la sciarpa al collo. C’è Carlos su quello più basso con la felpa sbottonata. Sul secondo, salgono i ragazzi per i selfie. Ma un pezzo di storia, la storia del corridore bianco che ha teso una mano ai velocisti neri che hanno alzato un pugno per la libertà, a San Jose è stato cancellato ancora una volta.

Norman diventa “il terzo nella foto”, lontano, sfocato, distante da quei guanti che raccontano il senso di una battaglia. Ma il 3 ottobre di 10 anni fa, al suo funerale, prima di portare sulle spalle la bara dell’atleta bianco che ha teso la mano a chi alzava un pugno per la libertà, Carlos lo riporta al centro della scena. “Peter non era obbligato a mettere quella coccarda. Peter non era statunitense, non era un nero, non aveva il dovere di sentire quello sentiva. Peter, però, era un uomo”. Un uomo con una storia da troppo dimenticata.

di Alessandro Mastroluca

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