Pianure, pietre e polvere

Paolo Stradaioli
Crampi Sportivi
Published in
5 min readJul 16, 2018

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Il Tour de France, almeno la sua versione iniziale, non è una grande serie HBO, una produzione da milioni di dollari, nossignore. Il Tour de France non ha fretta: si prende il suo tempo, costringe l’osservatore a guardare la calma, il sensazionalismo come esercizio di stile non gli interessa. È più una di quelle serie che non si guarda nessuno su Amazon Prime, ma niente hipsterate, soltanto le immagini, la colonna sonora e tante biciclette, nell’attesa che qualcosa accada per davvero. Qualcosa accade sempre.

La prima settimana è un soprattutto questo: le immagini sono quelle della campagna francese — dalla Vandea alla Bretagna, un paesaggio di per sé bucolico, dal basso profilo — , se non fosse per quei castelli che di tanto in tanto fanno capolino nelle inquadrature del Tour, eredità di un tempo ormai andato, un tempo maestoso. I trattori, un Tour senza trattori è un po’ come un Old Fashioned senza Angostura: i cocktail necessitano di tutti gli ingredienti anche se al primo assaggio non se ne avverte questa impellenza. Questione di equilibri.

La colonna sonora è quella della strada, della gente festante al passaggio della carovana, degli elicotteri che spezzano la quiete in quei momenti in cui allo spettatore si chiudono gli occhi. Il caldo di luglio assopisce i sensi, le tappe della prima settimana non aiutano di certo. Eppure sono necessarie, servono ad aumentare la suspense: durante queste interminabili tappe di pianura, lo spettatore sa perfettamente che prima o poi arriveranno le montagne, ma sembra quasi che il regista si sia dimenticato di inserirle, quasi come se i pomeriggi siano una lunga, apatica, pedalata su queste interminabili pianure francesi.

Le biciclette — ah, le biciclette! — , quelle non mancano di certo, anche se sono 22 in meno rispetto alle passate edizioni: è una nuova regola dell’UCI, che limita a otto il numero di partecipanti per squadra, magari si evita qualche caduta. Magari, ma il Tour esige le sue cadute e infatti quelle non mancano durante la prima settimana, anche se a prendersi il proscenio sono le volate, quelle sì che sono divertenti.

Prima Gaviria, poi Sagan, poi ancora Gaviria, poi ancora Sagan, in mezzo una cronosquadre di cui nessuno sentiva la necessità ma che diventa dolcissima per la BMC e per Greg Van Avermaet. Il campione olimpico indossa la maglia gialla e la porta con fierezza per sei giorni, sei magnifici giorni in cui la sua leadership non vacilla, nemmeno sul Mur, ma ci arriviamo.

Qui il nostro Sonny Colbrelli aveva provato a piazzare la zampata ma niente da fare.

Le volate dicevamo. Una sorta di affare a due tra Sagan e Gaviria: il primo un predestinato, il secondo ancora più predestinato se possibile, capace di vincere in pista, passare alla strada, vincere su strada, annichilire la concorrenza al Giro, presentarsi al Tour, torreggiare al Tour, roba da campioni in erba. L’altro un campione già lo è, ma perché fermarsi? Quel record di Zabel è talmente vicino. Sei maglie verdi conquistate al Tour, con Sagan fermo a cinque: sta perfezionando la sesta, il prossimo anno darà l’assalto alla settima. Altro record che si infrange, ennesima riprova che gli altri sono solo forti. Lui è Superman.

Il Mur certo, non ci siamo dimenticati — inteso come Mur de Bretagne, due chilometri al 6,9% di media —; una faccenda dalla quale i velocisti si tirano fuori volentieri, eccetto Sagan, vorace e onnivoro nel suo desiderio di conquistare tappe. Il Mur non sarà l’Alpe d’Huez, ma è troppo anche per lo slovacco, che comunque si piazza in top ten. Magari Valverde, oppure Gilbert, ma il fuoriclasse belga comincia a sentire le primavere passare. Alaphilippe? Condizione eccellente, eppure vince un irlandese di nome Daniel Martin che da anni promette (invano) di puntare alla generale, che con questi arrivi ha un feeling speciale. Una rasoiata (come si dice nel gergo) e il Mur è suo. Una sorta di secchiata d’acqua per lo spettatore sonnecchiante sul divano, bramoso di grande spettacolo, costretto ad accontentarsi di queste briciole.

Parentesi del Mur a parte si torna in pianura, quindi all’emozionante lotta tra Gaviria e Sag… o forse no. Kittel, Greipel, Cavendish, Demare, Degenkolb, Kristoff, era da tempo che non si vedeva una concentrazione così elitaria di velocisti, ma al tavolo dei commensali va aggiunto un posto. Dylan Groenewegen stava studiando da tempo il modo migliore per irrompere nella scena, a questo Tour de France lo aspettavano tutti come potenziale game changer. Quattro tappe in sordina poi l’acuto, seguito ovviamente da un gesto che di solito a un ciclista non si addice.

Debate this!

Tutti in fila sul traguardo di Chartres. Tutti in fila sul traguardo di Amiens. Lo scorso anno aveva vinto il gran finale sugli Champs-Élysées; della serie “arrivo, aspettatemi che arrivo” e infatti è arrivato.

Quindi due per Gaviria, due per Sagan, due per Groenewegen, vediamoci lo spareggio.

Invece no, vediamoci l’Inferno, senza fuoco, fiamme ed eccentrici diavoli. Solo pietre, polvere e ruote, un Inferno pensato apposta per i ciclisti, senza gironi danteschi. C’è chi sopravvive e chi no. Non sopravvive Richie Porte, che un giorno presenterà a qualcuno il conto e scoprirà di essere in credito e non di poco. Riprovaci Richie, riprovaci sempre. Non si ritira ma passa una giornata terribile anche Bardet, un altro che con la fortuna ha litigato tempo fa e di far pace proprio non se ne parla. Lui si rimette in bici e inizia a rincorrere.

Altri big che si sdraiano sono Landa e Uran, se il primo arriva con i migliori (con una rimonta eccezionale) il colombiano accusa circa un minuto e mezzo dai suoi rivali per la generale. L’Inferno non fa sconti, chiedetelo al direttore generale della BMC, che prima saluta Porte e poi è costretto a guardare Van Garderen inabissarsi, al traguardo con quasi sei minuti dal vincitore. In un colpo solo entrambi i capitani abdicano da pretese di classifica.

La BMC d’altro canto conserva la maglia gialla per un altro giorno, merito di un Van Avermaet sempre sul pezzo, perfettamente a suo agio in quel tripudio di porfido e sabbia, quando Dio ha inventato il ciclismo non pensava certo che sarebbero state queste le strade da percorrere sulle due ruote, altrimenti sarebbe un sadico.

Van Avermaet non sbaglia niente ma non vince; alla fine se ne vanno in tre, ma se Lampaert è la freccia meno affilata pescata dall’inesauribile faretra della Quick-Step, John Degenkolb è uno vero, uno di quelli che andava veramente forte, che nel 2015 ha infilato Milano-Sanremo e Parigi-Roubaix come soltanto i grandissimi possono fare. Poi l’infortunio, una lunga riabilitazione, questa praticamente è la sua prima vittoria di livello da quel giurassico 2015. Il tempo nel XXI secolo corre maledettamente in fretta, non ce lo insegna certo il ciclismo, la memoria però è sempre quella, tremendamente volubile. Normale quindi che al momento di commentare la vittoria le parole non ci sono, sono rimaste a maledire quelle pietre e a benedire il momento in cui davanti a lui non c’era più nessuno. Chi ha bisogno delle parole, ha già fatto tutto il regista.

Adesso sì, adesso potete rimettere nel cassetto quell’aria snob che vi fa trovare romantiche le tappe di pianura e andare a comprare i popcorn. Il traguardo di Roubaix era un antipasto. I colpi di scena vi stanno per travolgere. Benvenuti a Westworld, o benvenuti sulle Alpi, per me fa lo stesso, è comunque tutto concesso.

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