Primera ascensión

Crampi Sportivi
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96 min readFeb 14, 2018
La copertina è a cura di Fabio Imperiale.

Episodio 11 — Gli argentini

Gli alieni ci avevano portato in giro per l’Europa dell’Est e non sapevano dove andare. Smarriti, ci chiesero un’indicazione. Non sapevamo cosa dir loro, in effetti. Finché mi indicarono per ipnotizzarmi con un laser azzurro: neanche il tempo di realizzarlo che ero già su un’altra dimensione, privato del mio spirito autonomo per qualche minuto. Uno degli scagnozzi venuti da Proxima Centauri intimò allo spirito ingegneristico del diario di bordo: «Xenur, rilevami la narrazione più romantica e d’impatto del XX secolo del calcio». Non ricordo molto, ma sentì nitidamente la voce di un telecronista di lingua spagnola che recitava così:

«…la va a tocar para Diego, ahí la tiene Maradona, lo marcan dos, pisa la pelota Maradona, arranca por la derecha el genio del fútbol mundial, y deja el tendal y va a tocar para Burruchaga… ¡Siempre Maradona! ¡Genio! ¡Genio! ¡Genio! ta-ta-ta-ta-ta-ta… Goooooool… Gooooool… ¡Quiero llorar! ¡Dios Santo, viva el fútbol! ¡Golaaaaaaazooooooo! ¡Diegooooooool! ¡Maradona! Es para llorar, perdónenme … Maradona, en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos… barrilete cósmico… ¿de qué planeta viniste? ¡Para dejar en el camino a tanto inglés! ¡Para que el país sea un puño apretado, gritando por Argentina!… Argentina 2-Inglaterra 0… Diegol, Diegol, Diego Armando Maradona… Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas, por este Argentina 2-Inglaterra 0».

Gli alieni rimasero stupiti. Non abituati al trasporto emotivo, furono quanto meno spiazzati. Tornai in me e mi chiesero cos’era. Avrei saputo rispondere anche ipnotizzato: gli dissi che le parole erano di Víctor Hugo Morales, LA VOZ in Sud America.

«Ma di chi stava parlando? Sembrava stesse invocando una divinità».

«A suo modo, lo stava facendo».

Non per nulla, si parla non solo del gol del secolo, ma anche della “Mano di Dio” nell’86.

Roberto Carlos Abbondanzieri

«Si no se lesiono en el mundial contra Alemania, creo que podríamos haber ganado, realmente es una pena». È un commento di un utente su un tributo a Roberto Carlos “El Pato” Abbondanzieri, trovato su YouTube. Non un portiere, un arquero. Che in dialetto calcistico argentino non vuol dire semplicemente “portiere”, ma un universo di cose mescolatesi tra loro, in un contesto sospeso tra mitologia e blasfemia, tra amore e passione. Un altro utente dice che per lui «el Pato Abbondanzieri, Rogerio Ceni y Jose Chilavert son los mejores porteros que he visto». Un altro utente lo redarguisce «no te olvides del negro Cordoba», poi una cascata di like al suo commento. Non solo di barras del Boca Junior — el Pato è stato l’arquero degli xeneises dal 1997 al 2007 — ma anche per Rosario Central (squadra che lo ha lanciato nel 1994) e Getafe.

Proprio in Spagna Abbondanzieri ottiene forse il riconoscimento più difficile da conquistare. In una squadra certamente non competitiva — contro squadroni come il Real Madrid, il Barcellona, il Valencia, il Depor — El Pato vince il Trofeo Zamora, ossia il riconoscimento spagnolo consegnato a colui che subisce meno reti in assoluto nell’arco di una stagione: 30 gol subiti in 36 partite. Al Getafe. Roberto Abbondanzieri è considerato una sorta di leggenda in Argentina, per i trofei vinti — 6 campionati argentini, una Coppa CONMEBOL, 4 Libertadores, 2 volte la Intercontinetale, 2 Sudamericane, 1 Recopa Sudamericana, oltre al riconoscimento come miglior portiere argentino dell’anno (2003) –, per la sua capacità di ipnotizzare gli avversari sui calci piazzati e per la sua abilità nel trovare un compagno con un lancio lungo quasi sempre preciso al millimetro. Dopo il suo ritiro dal calcio giocato, ha seguito un’altra divinità meta-terrena nella sua carriera da allenatore (Martìn Palermo) nelle vesti di preparatore dei portieri.

Sergio Agüero

A 15 anni e 35 giorni, Sergio Agüero esordiva in Primera Division, ed era il più giovane di sempre, superando tutti, anche un certo Diego Armando, di cui Agüero sposerà la figlia. Spaventosamente precoce, El Kun splende più di tutti al mondiale U-20 del 2007, e l’anno successivo diventa titolare nell’Atletico Madrid, rimpiazzando il partente Torres, a soli 19 anni. Mette la firma sulle ultime due vittorie europee dei Colchoneros con due assist nella finale di Europa League del 2010 e un assist e un gol nella successiva Supercoppa Europea strappata all’Inter. Prima punta, seconda punta, o ancora “fotocopia di Romario” (secondo Roberto Mancini), Agüero è stato chiamato erede di Maradona in Argentina ed erede di Carlos Tevez al City, e grazie alla sua agilità e al suo preciso destro ha scritto la storia decidendo nel 2012 la Premier League dal finale più incredibile di sempre.

Pablo Aimar

Pablo Aimar è un numero 10 dal fisico normalissimo, privo di forza, privo di velocità sovrumana nella corsa come nei gesti, non vede la porta e pur avendo un’ottima visione non tocca le vette di tanti altri presenti in questa raccolta. Non è particolarmente carismatico e ha un soprannome quasi beffardo: il pagliaccio, per il sorriso su un viso da bambino incorniciato da una capigliatura riccia. Ha giocato nell’élite meno di un lustro, nel miglior Valencia della storia, con grande successo iniziale e poi caduta fragorosa prima di finire addirittura in Segunda per provare a rifarsi una carriera.

Cosa abbia portato quindi Pablo Aimar ad essere additato da Maradona come l’unico giocatore che gli dava piacere guardare e da Messi come il proprio idolo indiscusso non può essere semplicemente dato dall’ottima tecnica nel controllo del pallone. Che i due più forti giocatori della storia Argentina sia siano sperticati in elogi per un giocatore così particolare, così di nicchia, così poco produttivo nell’essere un numero 10, può essere spiegato solo da questa venerazione tutta Argentina per cose che il mondo fatica anche solo a percepire.

Gli argentini vedono il calcio in modo leggermente differente rispetto a tutto il resto del mondo. Non sono da meno anche i due più illustri. Hanno col tempo reso sacre figure archetipe come il pibe e l’enganche. Danno più peso di altri alle pieghe del gioco così sottili da essere quasi sfuggenti. Come chi da la pausa al gioco gestendo il pallone per gestire il ritmo della giocata.

Aimar aveva questa innata capacità di utilizzare la sua ottima protezione del pallone e la sua ottima visione di gioco per gestire i tempi. Tenere il pallone muovendosi nelle zone più sensibili riuscendo così a muovere la sua squadra e gli avversari al suo calcio. Rallentare quando serve per far liberare un compagno e accelerare improvvisamente con la palla per creare superiorità numerica. Battere linee di passaggio e far avanzare in un solo tocco tutta la sua squadra. Creare insomma l’infrastruttura su cui posare tutto il resto di visibile: i movimenti, gli assist, il gol. Il tutto partendo da un gioco semplice e visceralmente argentino. Con quel dribbling compatto di chi è cresciuto giocando per strada contro avversari più grandi. Con pochi ricami Aimar è diventato un talento speciale. La sua carriera neanche importa, basta pensare che quando Messi salta un uomo fermandosi un secondo prima di fare l’assist, lo fa perché ha visto migliaia di volte Pablo Aimar prima di lui.

Rafael Albrecht

Eleganza, spiccato senso del gol, infallibile dal dischetto, 95 reti segnate. “Ecco il solito attaccante argentino, tanguero trascinatore di folle in visibilio” penserete voi… ed invece no: questi numeri appartengono ad un difensore entrato nella storia del calcio argentino, uno di quei calciatori che a metà del secolo breve aveva già abbandonato il cliché del difensore rude, arcigno, ma soprattutto fermo a ridosso dell’area di rigore. Albrecht si distingueva appunto per altro, anche se all’occorrenza non disdegnava l’entrata dura. In occasione di una delle sue più celebri espulsioni (rimediata ai Mondiali del ’66 per un fallo sul tedesco Haller) lui stesso dichiarò: “L’ho colpito con tutto quello che avevo: ginocchio, coscia, anca… Che volo che fece! Ho colpito duro, davvero molto forte, ma non sono entrato per fargli male”. Dietro quel volto dalle fattezze angeliche si nascondeva infatti un demonio, che alla visione della porta avversaria si liberava ed esaltava nel pane quotidiano di ogni difensore: l’uno contro uno fatale ed irrimediabile, quello da dentro o fuori, del vivo o morto, della gioia o della disperazione.

Matías Almeyda

Sembra che Almeyda abbia fatto due sole cose in carriera: quel gol al Parma e la sbornia più atomica e visionaria — con tanto di ascensione — che un umano abbia mai potuto raccontare. Sorvolando sul misticismo (sempre più pervaso da reminiscenze lebowskiane) che si lega al suo secondo nome Jesùs, è anche il mister che è sceso negli Inferi insieme a tutto il River. In ogni caso, questa è la cosa più romantica che abbia mai fatto, perché prima di diventare mister del River ci tornò, come giocatore, dopo due anni di inattività e di problemini di varia natura. Al secondo posto, e senza essere mai stato un Guardiola, il suo passaggio a Brescia: del resto, complice un certo “effetto-domino”, in quel periodo ci passavano un po’ tutti. In ogni caso, tra Banfield e Guadalajara, si è rivelato un mister dignitoso: chiosa — perché è una chicca — sul fatto che lo chiamassero El Pelado.

Cristian Ansaldi

Di lui si dirà “se non altro ci ha provato”, perchè a conti fatti il treno esotico per il calcio che conta spesso passa dalle più sparute fermate e qualche volta è colorato di rosso e blu. Ed era destino, sia chiaro, la Liguria ce l’ha nel sangue per via di quel cognome, così simile a quello dei nobili Ansoaldi. In lui c’è del talento, loo hanno intravisto in molti smozzicandolo qua e la mentre il gelido russo lo beccava a sberle ma Ansaldi, col numero 3 sulle spalle, s’è sempre guardato allo specchio per convincersi che la strada era quella giusta. Che con questi chiari di luna fare il terzino sinistro poteva permettergli di sopravvivere. La casata Ansaldi, originaria di Torre Mondovì, si rispecchia in un leopardo illeonito d’oro, macchiato di nero e lampassato di rosso. Cristian ci prova invece su quella fascia, a sinistra, deprezzato dai prestiti, marchiato dal suo essere uno dei tanti e compassato fino al novantesimo. La vita è una questione d’attacco e quando ti definiscono “terzino vecchio stampo per antonomasia” non può che immalinconirti sempre più velocemente.

Osvaldo Ardiles

Potete tenervi le Falkland se ci lasciate Ossie”. Nello striscione esposto dai tifosi del Tottenham al Villa Park per la semifinale di FA Cup contro il Leicester il 3 aprile 1982, c’è tutto lo spirito e il valore di un uomo diviso. Osvaldo Ardiles, regista minuto quanto svelto, votato il miglior giocatore della First Division al primo anno, arriva in Inghilterra da campione del mondo con l’Argentina del Flaco Menotti. Il Tottenham lo acquista per 750 mila sterline insieme a Ricardo Villa. “L’idea era di rimanere qualche anno ma non avremmo mai immaginato che impatto avremmo avuto” dirà. L’impatto è tutto in quello striscione, in quel messaggio distante appena 24 ore dalla prima offensiva del generale Galtieri, dall’inizio della guerra delle Falkland.

Ardiles non giocherà la finale, è impegnato con la nazionale, non vedrà il trionfo deciso proprio dalla doppietta di Villa. Ma contribuisce comunque a lanciarlo. Incide, con tutta la squadra e il duo folk Chase & Dave, la canzone “Ossie’s Dream” che a sorpresa sale al quinto posto nelle classifiche nazionali.

Ardiles diventa “Ossie” dopo un pareggio contro il Nottingham Forest di Brian Clough. Gli attaccanti inglesi hanno bisogno di tempo per capire come si muove e cosa pensa “El Pitón ”, “il Serpente”, così l’aveva soprannominato il fratello. “Dovevo un po’ difendere e un po’ attaccare” racconta al sito della FIFA, “ma non ero un centrocampista box to box. Dovevo solo far sì che il playmaker avesse abbastanza tempo e spazio per creare”. Così convince Menotti, l’allenatore da cui impara di più, a portarlo in nazionale. Così cambia il clcio inglese e la storia del Tottenham. Proprio la guerra delle Falkland lo convince a trasferirsi un anno al PSG nel 1983. Tornerà e sta agli Spurs fino al 1988 e partecipa allo storico trionfo in Coppa Uefa nel 1984 ai rigori contro l’Anderlecht. È l’ultimo successo internazionale degli Spurs. L’ultima gioia di Ossie il Serpente.

Luis Artime

Attaccante dalle medie-gol spaventose, capace di fare una caterva di gol al River Plate e poi lasciarlo per andare a giocare per qualche mese con il Real Jaén (in terza divisione spagnola), di certo Luis Artime è stato un personaggio particolare. Ha segnato tanto, l’ha fatto ovunque e in più occasioni: non solo Argentina e Spagna, ma anche Brasile (con il Palmeiras), Uruguay (al Nacional, vincendo un’Intercontinentale da solo) e con la nazionale, dove detiene lo spaventoso ruolino di 24 reti in 25 partite (0,96!).

Roberto Fàbian Ayala

Di padre in figlio. Una brevissima frase fatta diventata uno slogan utilizzatissimo nel mondo del fùtbol. Nel caso di Roberto Fàbian Ayala, però, questa frase è perfettamente esemplificatrice. Difensore — libero — il nonno Camillo Ayala, difensore — libero — il padre Roberto Camillo Ayala, difensore — libero — lui. Nato e cresciuto a Paranà, città portuale sulle rive del fiume che dà il nome alla città e che la separa dalla dirimpettaia Santa Fe. Dicono che lo impressionassero le mastodontiche dimensioni dei container ammassati negli enormi parcheggi del porto commerciale. Lo immagino immedesimarsi in una sorta di container umano, a protezione della sua area di rigore. È lì che sentiva di stare, forse per una semplice e prevedibile chimica cromosomica. Allora, si sarà chiesto tra se e se, perché non scalare la piramide del calcio: «sono argentino e non sono un fantasista, né un goleador. Sono un container che morde». Come un piragna. Sarà per questo motivo che al Ferro Carril Oeste cominciano a chiamarlo El Piraña, giusto qualche mese prima che il River Plate lo convocasse a Buenos Aires.

Roberto Fàbian, nella capitale, c’era stato poche altre volte e non per giocare al calcio. Ma a 21 anni nessuno pensa al passato, almeno non ancora. Ci si concentra nell’espandere il proprio ego in ciò che si riesce a fare meglio. Sarà per questo che gli basta una stagione vissuta tutta d’un fiato per vincere l’Apertura (1994) con il River e l’oro ai Giochi Panamericani (1995) con l’Albiceleste. Poi, l’Europa. È il Parma a portarlo in Italia e a girarlo al Napoli nell’affare che avrebbe portato Fabio Cannavaro in Emilia e i soldi per sopravvivere due stagioni o poco più sotto il Vesuvio. Ayala, intanto è capitano dell’Argentina anche ai Mondiali del ’98, pur essendo retrocesso con il Napoli. Il che rende bene l’idea sulle sue caratteristiche. Dopo due stagioni di parcheggio tattico al Milan con cui si laurea Campione d’Italia nella stagione 98–99, sfiora il tetto d’Europa con il Valencia dell’Hombre Verticàl, Hector Cuper. Nel 2001. Prima di rientrare in Argentina, sotto la guida di Rafa Benitez, vince due Liga spagnola, una Coppa UEFA e una Supercoppa europea, oltre la medaglia d’oro con la “Nuestra” alle Olimpiadi di Atene.

Rubén Hugo Ayala

A Ruben ‘El Raton’ Ayala capita di nascere in un anno particolare: il 1950. Momento in cui il mondo scopre il movimento della Beat Generation. Ayala ancora in fasce, assumerà poi in campo alcuni connotati fondamentali del movimento. Innovazione nello stile e rifiuto delle norme imposte dall’alto.
Così Ayala diventa quell’attaccante che indossa la maglia numero 2 e attacca dando una grossa mano in fase difensiva. Stranezze di maglia, tenacia difensiva nonostante il ruolo, che già oggi ci farebbero gridare all’esaltazione dell’icona. Figuriamoci negli anni ’70.

El Raton, soprannominato così per la vocina stridula, raggiunge il suo beat, la sua beatitudine, nel 1972 quando il suo San Lorenzo vince il Metropolitano e il Nacional da squadra imbattuta. In quella stagione Ruben è il miglior marcatore della squadra con 15 gol. Qui l’attaccante argentino, un po’ come Jack Kerouac, imbocca la sua strada che lo porterà al Mundial del 1974 dove giocherà 6 partite e segnerà 1 rete che riassume perfettamente il suo stare in campo. Poi l’esperienza in Europa con l’Atletico Madrid, dove El Raton imparerà a farsi amara da un popolo beat e caldo, come lui e la sua Argentina. Un personaggio che vale il racconto. Gli alieni possono aspettare.

Abel Eduardo Balbo

C’è stato un periodo, quand’ero circa adolescente, in cui ero sicuro del fatto che mio figlio si sarebbe chiamato Abel Eduardo. Spesso ci si scorda che Balbo è stato il degnissimo capitano dell’epoca di mezzo tra il tramonto di Giannini e l’ascesa di Totti. Il centravanti dai grandi numeri è stato un’icona degli anni ’90 ma non era abbastanza “ignorante” da essere oggi celebrato nello squallido carrozzone della nostalgia. Una persona seria, un calciatore eccellente, un goleador di primordine e un capitano impeccabile. Forse mio figlio lo chiamerò Abel Eduardo.

Éver Banega

Éver Banega è un rebus. Nel senso che non sai dove metterlo (non è né un volante davanti alla difesa, né un enganche tra le linee nel senso più argentino del termine, pur possedendo le caratteristiche dell’uno e dell’altro), non sai che fartene se non è circondato da altri dieci come lui (e questo spiega perché un ibrido si trovi molto più a suo agio in un sistema altrettanto ibrido e, quindi, più a Siviglia che a Milano), non sai come prenderlo (discontinuità is the way) e non sai cosa aspettarti (preferirebbe l’assist al gol, ma il picco prestazionale stagionale è stata la tripletta all’Atalanta di Gasperini).

Eppure a uno così non rinunceresti mai (non se sei Unai Emery almeno. Pioli l’ha fatto e come è andata a finire lo sappiamo) visto che, quando vuole, la partita va come dice lui: nessuno entra e nessuno esce, tutti vanno al ritmo del suo gioco, del suo respiro, del suo talento, del suo calcio. A patto che lo stesso venga capito, accettato, facilitato, compreso. Altrimenti l’equivoco, la crisi di rigetto, l’incompatibilità sono dietro l’angolo. Proprio come il tango (e che il suo soprannome richiami proprio al più popolare modo di essere argentini non è un caso): non è per tutti. Così è stato, così è e così sarà. For ever and Éver.

Sergio Batista

A proposito di eroi dell’86, El Checho Batista: uno dei pochi che — dopo quel Mondiale messicano — ha comunque mantenuto un certo legame con la nazionale argentina. La sua carriera con l’Albiceleste è stata corta (appena cinque anni e due Mondiali), ma il suo gioco all’Argentinos Juniors — che fruttò anche la vittoria della Libertadores nell’85 — non è stato dimenticato. Batista è stato una colonna di quella nazionale e ha poi comunque avuto modo di rientrarci: allenatore dell’U-23 che ha conquistato l’oro ai Giochi Olimpici di Pechino 2008, ha poi preso le redini della prima squadra. Un anno, giusto il tempo di succedere a Maradona e uscire dalla Copa América 2011. Ha avuto due stint in Cina prima di allenare il Bahrain: così a occhio, sono i titoli di coda.

Gabriel Omar Batistuta

L’artiglieria pesante contro l’invasione aliena. Da Reconquista — anzi no, da Avellaneda — per la riconquista, guidati dal Re Leone. Alto, biondo e capelli lunghi, forse più simile al Cristo raffigurato nelle chiese dello stesso Yeshua di Nazareth, può vantare un’uguale venerazione da parte di tutti i tifosi della Fiorentina. Nel capoluogo toscano per nove anni ha segnato in ogni modo: di testa, di destro, di sinistro, di potenza, in rovesciata, su punizione, fino a raggiungere quota 207 reti. Ma anche i suoi compatrioti argentini se lo ricordano bene, visto che per anni è stato il capocannoniere dell’Albiceleste davanti nientemeno che a Maradona, nonché uno degli ultimi ad alzare un trofeo (la doppietta delle Copa America ‘91-’93, sei reti nella prima e tre nella seconda, con tanto di doppietta in finale). E se lo ricordano anche a Roma i tifosi al quale portò in dono il secondo scudetto, un po’ seccamente la buonanima del presidente Sensi, che si svenò per portarlo in giallorosso e lo scaricò all’Inter definendolo “sòla”.

Per i profani, Batistuta è stato uno dei centravanti più forti della storia, da iscrivere nella categoria “attaccanti di potenza”. Nato come finalizzatore implacabile — ma affinatosi negli anni sotto ogni profilo tecnico, leader carismatico raramente sopra le righe — , era uno di quei giocatori che risolveva le partite alla sua maniera, con una soluzione di forza. Romanticamente, Batigol è stato (ed è tuttora) soggetto di un’infinita storia d’amore con i tifosi viola, non interrottasi nemmeno con quel sanguinoso trasferimento a Roma. Passaggio prima compreso a malincuore, poi perdonato nel novembre 2000, quando all’Olimpico segnò un gol bellissimo contro la sua Fiorentina. Il Re Leone scoppiò in lacrime circondato dall’abbraccio dei compagni giallorossi che esultavano. Gesto spontaneo, genuino, che diceva tutto, molto più di mille parole.

Daniel Bertoni

Ala destra devastante tra gli anni ’70 e ‘80, Bertoni fu il primo straniero a giungere a Firenze dalla riapertura delle frontiere. Ci arrivava da campione del mondo in carica, con tanto di firma tra i marcatori della finale tra Argentina e Olanda nel ’78, e con un palmarès carico di vittorie con l’Independiente. Segni particolari: aveva un tiro impressionante.

Individuato dai Pontello come colpo per tornare a sognare, visse una prima stagione in viola con alti e bassi (nella quale si sbloccò sottoporta con una magnifica punizione a foglia morta, “cedutagli” dall’amico Antognoni), con problemi di ambientamento simili a quelli avuti al Siviglia. La stagione ‘81-’82 invece vide Bertoni protagonista, nonché leader, di una Fiorentina in lotta per lo scudetto fino all’ultima giornata e rimasta orfana di Antognoni, messo fuori causa dal drammatico infortunio subito nel novembre ’81 che mise a repentaglio la sua vita.

Dopo il Mundial ’82, vissuto sotto le aspettative da tutta la banda argentina, Bertoni sognava di riprovare l’assalto allo scudetto in viola, ma stavolta tocca a lui rimane fermo per mesi a causa di un’epatite virale. Il suo ritornò in campo vide l’ennesima prova d’affetto del Franchi, in piedi per una lunga ovazione all’ingresso dell’argentino in un Fiorentina-Cesena di campionato. Per mesi la città gli si era stretta attorno, come l’anno prima con Antognoni, non facendo mai mancare visite e fiori al suo letto d’ospedale.

Ceduto nell’estate ’84 al Napoli, compose con l’altro neo-acquisto Maradona una splendida combinazione d’attacco targata Argentina, che tuttavia non bastò ancora per far compiere ai napoletani il salto di qualità. Dopo un’altra stagione in azzurro da comprimario, passò all’Udinese dei Pozzo prima di ritirarsi nell’87 all’età di 32 anni.

Ricardo Enrique Bochini

A Dio chiedo soltanto
che Bochini giochi per sempre
che giochi per l’Independiente
per la gioia della sua gente

L’eterno dilemma: la grandezza di un giocatore, il posto che dovrebbe occupare nella storia del calcio, si giudica dai trofei alzati o dalle gioie regalate ai tifosi? Ricardo Bochini (pronuncia Bocìni) fu tra i campioni del mondo del 1986, eppure in pochissimi ne hanno memoria: giocò una manciata di minuti in semifinale. No: Bochini è stato l’idolo di Maradona, il quale lo accolse in campo con un “Benvenuto maestro”, e tanto basterebbe. E in carriera ha indossato una sola maglia, quella dell’Independiente con cui vinse quattro campionati e altrettante volte la Copa Libertadores. Geniale, indolente, orgoglioso, era una sorta di anti-Cruijff: alla chioma fluente dell’olandese contrapponeva un cranio spelacchiato, rigettava il dinamismo del calcio totale e del fuoriclasse olandese ebbe a dire “Corre molto, però gioca bene”. Riluttanza a sudare, dunque, ma anche a segnare. Come ha scritto Valdano, “Bochini buttava la palla dentro solo se non c’era altro rimedio.

José Luis Brown

Detto “El Tata”, è passato alla storia soprattutto per un gol, l’unico segnato con l’Argentina, quello del momentaneo vantaggio nella finale del Mondiale ’86. Non avrebbe nemmeno dovuto finire quella gara, visto che si era infortunato alla spalla, ma preferì rimanere in campo piuttosto che esser sostituito. Bandiera dell’Estudiantes de La Plata, ha poi optato per un tour in giro per il globo: Colombia, Francia, Spagna, prima di chiudere nuovamente in Argentina. Il “Brown” deriva da un antenato scozzese che emigrò nel 1825 da Greenock, Renfrewshire.

Nicolás Burdisso

Nicolás Burdisso è sempre sorridente nelle foto fuori dal campo, con quegli occhi piccoletti da cowboy messicano, quella barbetta da diciottenne, poi lo vedi giocare e ti copri gli occhi pensando “oh-mio-dio!”. Lo dici per come -talvolta- mette i brividi in copertura, lo ripeti mentre lo vedi duellare duro nelle mischie in area, gomiti larghi e zigomi sporgenti pronti a me ad infrangersi sui gomiti altrui; lo sussurri mentre rivedi le immagini delle sue gambe rotte o di quelle rotte agli avversari. Lo dici incitandolo a vendicarsi di quel pugno in faccia o di quella cessione al Genoa a 1.000 euro, o pensando a sua figlia con la leucemia.

Burdisso è sempre sorridente fuori dal campo così come è sempre incattivito in campo. Incattivito sì, ma con la lealtà dei romanzi di Soriano o delle pubblicità dei Rimgo, “si gioca come si vive”, e Burdisso vive lealmente e in campo dà sempre tutto anche se tutto a volta non basta (come non bastano mai i Ringo, del resto). Davvero, se mi chiedessero “chi calciatore vorresti essere?” magari non risponderei Burdisso al primo colpo, ma tolti i fenomeni Burdisso è il primo non fenomeno che vorrei essere, e che — forse — sono. Per dire ho anche l’immagine del profilo facebook con Burdisso!

Germán Burgos

La sua carriera da calciatore non mi interessa minimamente. Buon portiere, si, tipico portiere argentino, chè se i portieri sono mezzi matti quelli argentini sono fottutamente fuori di testa. Comunque, si ok, Burgos calciatore interessante, ma Burgos secondo allenatore di Simeone? Vi immaginate un Cassano indolente durante un allenamento che ride e scherza in una squadra allenata da Simeone/Burgos? La carriera del “Mono” è racchiusa tutta in quel Real-Atletico post-fattaccio tra Mourinho e la buonanima di Tito Villanova (Mou che mette un dito in un occhio al povero Villanova e poi fa il Mourinho), quando l’allenatore portoghese dei Blancos inizia la sua solita scenata e Burgos, quel giorno in panchina a sostituire lo squalificato (o appena espulso? Non ricordo bene) Simeone che, trattenuto da un nugolo di uomini, urla a Mourinho “Io non sono Tito, io ti stacco la testa”. Poesia. Poesia pura.

Jorge Burruchaga

Nelle finali Mondiali degli ultimi 30 anni sono stati realizzati 15 gol, una media di quasi due a partita. Pochi sono stati realizzati da “eroi per caso”, onesti mestieranti della pedata che hanno deciso che il proprio quarto d’ora di celebrità dovesse coincidere con il giorno più importante, nella partita più importante. Ben due di questi hanno avuto l’onore di recitare il ruolo di attori non protagonisti a Messico ’86, già playground personale di Diego Armando Maradona: il primo è “El Tata” Brown, uno per il quale non puoi fare a meno di chiederti cosa ci faccia nell’Argentina uno con un cognome così; l’altro è Jorge Burruchaga, ala destra di poco genio e pochissima sregolatezza, un pezzo vita passato all’ombra di Bochini nell’Independiente e un altro trascorso in Francia lasciando dietro di sé un premio di miglior giocatore del campionato e una parte nella tragicommedia del peggiore scandalo della storia calcistica d’Oltralpe.

In mezzo, quasi senza volerlo, quel pomeriggio allo Stadio Azteca. Anzi, quei cinque secondi allo Stadio Azteca. Quando il 10 dei 10 decide che l’uomo della storia dovesse essere uno di “tutto il resto dell’Argentina che non si chiama Diego Armando”. E quindi via, in campo aperto, con panzer Briegel alle spalle in poderosa rimonta, Schumacher davanti in uscita bassa e disperatissima, Valdano lì sulla sinistra in attesa di un pallone che non arriverà mai: niente passato, niente futuro, solo quell’istante, solo quel tocco che va dove andare anche se è un tocco di chi non è stato baciato dalle stelle e dal destino. Ma in fondo cosa importa? Ha segnato il Burru, l’Argentina è campione del Mondo: di quel che è stato o di quel che sarà non interessa niente a nessuno. Nemmeno a lui, probabilmente.

Esteban Cambiasso

Dice Inter Channel di lui: versatile. Può sembrare un complimento, soprattutto se fatto a un giocatore di calcio. Ora però andate a dire versatile a uno che in quanto a titoli vinti in carriera è secondo solo a Messi e che ormai ha distanziato di parecchio uno come Di Stefano: probabilmente “Versatili ci sarete voi” non ve lo sentirete nemmeno dire da Esteban Matías Cambiasso Delau, da Buenos Aires. Perché sembra che “El Cuchu” sia pure uno che nonostante i titoli sa stare al suo posto (la leggenda vuole che la sua reazione a una non convocazione alla Selecciòn di Maradona fosse stata una scrollatina di spalle). E non rompete nemmeno le scatole con la storia dei capelli, del ciuffo biondo in mezzo alla testa nonostante la pelata i primi anni a MIlano: il vostro amico “versatile”, numero 19 all’Inter e 91 all’Olimpiakos (alla faccia della versatilità), era nato per giocare a basket e voleva diventare Michael Jordan. Poi arriva Ramon Maddoni: come per Tevez, Riquelme, Gago e Sorin, El Cuchu entra nel Club Social Parque di Buenos Aires.

Da lì in poi: Argentinos Juniors, River Plate, Real Madrid e poi Inter. Al di là dei titoli, dei contrasti e dei gol su ribattuta, succede qualcosa di mai concesso a nessuno: alza la Champions con la maglia numero 3 che gli regala il figlio di Giacinto Facchetti. Perché va bene la versatilità, saper comandare il gioco a centrocampo, non essere mai espulso in 371 partite o marcare a uomo Messi nella semifinale di Barcellona (come dirà Ferguson), ma quella maglia è un’investitura che va oltre i titoli: è qualcosa che ha a che fare col sacro della religione in cerca del suo dio che è il calcio.

Provate a cercare il suo nome su un motore di ricerca e poi guardate le immagini correlate: quando non esulta con la bocca aperta a “O” — come solo gli argentini sanno tenere la bocca aperta a “O” quando fanno GOL — , ma ha sempre l’indice puntato da qualche parte nel campo se viene fotografato mentre gioca. Indica, amministra, detta passaggi, contrasta, ma non è versatile. Forse lo è, ma non per quello che fa in campo, bensì perché passa dal vincere tutto con l’Inter alla salvezza miracolosa del Leicester l’anno prima del titolo al titolo greco con l’Olympiakos. Guardatelo esultare dopo questi 25 passaggi. E forse converrete con Alejo Carpentier: “Tutto è stato impeto, altruismo, furia sacra”.

Claudio Caniggia

Claudio Paul Caniggia sembra uscito direttamente dal set di un film di Caligari o di Marco Risi, ma che dico uscito, scappato: è infatti il primo di quella generazione di calciatori che corrono veloci e sbagliati e comunque imprendibili come se — appunto — stessero fuggendo dalle guardie, saltando avversari come gradini di marciapiedi o new jersey di cemento o banchi della frutta messi a casaccio per le stradine o reti improvvisamente apparse nel vicolo cieco. Non lo prendono quasi mai, ma quando lo prendono gli spaccano le gambe male, oppure gli trovano la droga e lo mettono ai domiciliari per un anno.

Però ogni volta che ritorna Caniggia continua a scappare più veloce di prima, i lunghi biondi capelli legati con l’inutile cordino che sbattono nel vento, e corre e scappa sbandando sul suo motorino invisibile per uno scippo dispettoso all’imbattibile imbattibile di Capello o per un furto con destrezza all’imbattuta Italia di vicini o per l’investimento del povero cane del suo allenatore Vavassori.

Amadeo Carrizo

Non è stato un portiere come tutti gli altri, ma possiamo affermare che è il ruolo del portiere a non esser più stato lo stesso dopo Carrizo, poiché lui l’ha reinventato. In più di vent’anni di River Plate e ben dieci di Selecciòn si è distinto per essere stato il primo portiere a indossare i guanti, il primo a lasciare l’area per aiutare la difesa, anticipando gli avversari, e anche il primo a utilizzare la rimessa dal fondo per far partire il contropiede. È stato l’arquero definitivo nella misura in cui ha aiutato a definire il ruolo così come l’ha conosciuto chiunque sia nato dopo gli anni ’50. Senza di lui non avremmo avuto Gatti, Chilavert, Higuita, senza di lui non avremmo avuto ciò che ha reso la porta un’isola felice dell’estetica calcistica.

Fernando Cavenaghi

Siamo chiari, Fernando Cavenaghi non è mai esistito. Se n’è sempre parlato, certo, ma si parla anche delle sirene, degli alieni o dei folletti, ma non se n’è mai visto uno. Ecco, il presunto centravanti argentino è stato probabilmente inventato dalle fervide menti di Football Manager, di cui è e rimane icona assoluta, forse seconda solo a Tsigalko. Si dice sia passato per la Francia, per la Grecia. Si dice giochi ancora. Si dice abbia sei braccia e che dai gomiti possa sparare aria ad alta pressione così da trasformarsi in una specie di jetpack umano. Si dice ma non s’è mai visto.

José Chamot

Non solo Simeone e Dunga, ma anche Chamot fece la tratta che dal Sud America portava a Pisa, Piazza Cavalieri. Senza scomodare la Scuola Normale o seminari di geografia da 6 cfu, varrà la pena ricordare che nacque a Concepción del Uruguay, sul lato occidentale dell’omonimo fiume che separa fior di nazioni e nazionali. Senza scomodare il boemo, invece, siamo obbligati a ricordarne il passaggio a Foggia: trofei, però, solo alla Lazio e al Milan, senza che ricoprisse mai (come invece accadde altrove) un ruolo di primissimo piano. Chiude al Rosario, esattamente dove aveva iniziato diciotto anni prima. Scomode nomee? A bizzeffe: 1) “quello che Zeman prendeva per il culo”; 2) “quello che mise le mani addosso a Collina”; 3) “quello che Cragnotti preferì a Ciro Ferrara”. Ho sempre e solo pronunciato il suo nome alla francese, per colpa di quella -t desinenziale.

Hernán Crespo

Domenica 3 marzo 1997. Stadio “Tardini” di Parma. La squadra di casa, dopo un girone d’andata disastroso, è in piena risalita in classifica e ospita il Cagliari. I ducali passano in vantaggio con Thuram. E poi raddoppiano con un giovane attaccante argentino acquistato in estate e rivelatosi fin lì un pessimo investimento: Hernán Crespo. La sua doppietta — un gol di rapina e un’acrobazia da spellarsi le mani — sa tanto di urlo liberatorio dopo mesi travagliati. È anche una vittoria personale del tecnico Ancelotti, che nel ragazzo aveva sempre riposto fiducia nonostante i mugugni della piazza: da lì Crespo non smetterà più di segnare e far sognare. Tra “Valdanito” e gli emiliani, lo avrete intuito, non è stato amore a prima vista. Ma in quell’assolata domenica di fine inverno sbocciò definitivamente. I tifosi lo elessero idolo incontrastato e lui, centravanti capace d’inventarsi giocate fantascientifiche — vedasi il colpo di tacco sottoporta –, dopo ogni prodezza baciava la maglia, onore che ha riservato giusto giusto alla casacca dell’Argentina. Il trasferimento alla Lazio e i successivi approdi non furono vissuti come un tradimento: tra Parma, da intendersi pure come città, e l’attaccante l’idillio non era affatto svanito. E siccome è bello perdersi per poi ritrovarsi, a fine carriera Crespo torna a casa e contro il Livorno, all’ultima di campionato, gonfia la rete in pieno recupero proprio sotto la curva Nord che tante volte aveva urlato il suo nome. E scoppia a piangere come un fanciullo. Se vi chiedessero “cos’è l’amore?”, adesso, sapete cosa rispondere.

P.S. Da tifoso del Parma in cameretta, ho avuto per anni il poster proprio di Crespo. Complice un regalo di Natale da parte dei miei (la maglia della stagione 1999–2000), mi ero fatto crescere i riccioli proprio come lui. Per poi tagliarmeli non appena andò alla Lazio…

José Ramos Delgado

Era detto “El Negro” perché era nato in Argentina da padre originario di Capo Verde, e fu uno dei più forti difensori albiceleste dei suoi anni, alto più di un metro e ottanta quando la media altezza della retroguardia era di dieci centimetri in meno. Paradossalmente però nel suo destino c’era il Brasile, Paese che a dispetto della maglia Nazionale che aveva indossato per ben due Mondiali lo adottò come se fosse figlio suo. Bello come il sole in maglia bianca fu degno compagno di Pelè nel Santos dopo una decina d’anni tra Lanùs, River Plate e Banfield, e al suo fianco vinse quattro campionati paulisti. Ormai perfettamente mimetizzato negli ambienti calcistici santisti, divenne prima allenatore e poi responsabile del settore giovanile, dove aiutò a crescere talenti come Diego e Robinho. Eh vabbe’, dai.

Comunque, per la sua epoca, difensore incredibile.

Martín Demichelis

Demichelis è una specie di paradosso: un paradosso enorme, grandissimo, grande per l’esattezza quanto lui (che già è alto e forte, poi con quel nome seminobiliare, e con i suoi capelli quasi sempre lunghi, sembra occupare anche più spazio). Il paradosso è la capacità che Demichelis ha sempre mostrato di passare inosservato, non tanto sul campo, quanto nella percezione che si ha del campo e dunque della carriera di un giocatore. Demichelis è uno che può farti fare notte se si mette a recitarti il suo palmarès, che davvero non finisce più, eppure sembra quasi non aver mai fatto nulla. Sembra uno che, in effetti, non c’è mai stato, nonostante tutti quei campionati vinti, nonostante che, sul terreno, uno come lui non solo si vede, ma si sente anche parecchio, e lo sentono anche gli avversari, a volte fin troppo, a volte anche sulle gambe e sul volto, quando salta con quelle braccia lunghe e quel testone.

Eppure. Sarà che gli è mancata la grande vittoria? La Champions? O anche la grande ossessione e condanna di una generazione di argentini, il Mondiale? Non pare una spiegazione logica: se non altro perché, voglio dire, a quanti argentini — anche grandi — è mancato, il Mondiale? A quanti — anche grandissimi — ancora manca? E allora dev’essere qualcos’altro. Dev’essere che Martín Demichelis, uno che ha giocato una carriera ai massimi livelli, dunque tanto anonimo non dev’essere, si vede poco. Si vede che, quando funziona, e per la maggiorparte del tempo ha funzionato, o non avrebbe giocato dove ha giocato, Demichelis funziona perfettamente, tanto che uno lo dava per scontato e dopo un po’ se ne dimenticava perfino. Demichelis era lì, lo sapevi, e ci sarebbe restato; si poteva passare ad altre situazioni, più delicate. E poi c’erano, ad essere onesti, anche quelle volte in cui lo stesso Demichelis si dimenticava di se stesso, dormicchiava, spariva, si assentava per meglio dire, e l’attaccante di turno rischiava di approfittarne. Ma che vogliamo dirgli, povero Martín? Non avrà avuto anche lui il diritto, ogni tanto, di ricordarsi di esistere?

Ángel Di María

Dicono che tornerà. Perché se sei nato in uno dei barrios più poveri della già povera Rosario e hai giocato a un tiro di schioppo dal Gigante de Arroyito, quando chiama il Central non puoi non rispondere. Puoi farlo dopo qualche tempo, non subito, perché il mondo è quel che è e le cose belle non sono mai facili e quindi è anche giusto farsi aspettare un po’; puoi farlo dopo dieci, quindici, vent’anni, passati per lo più in giro per il mondo, a mostrare come si gioca “all’argentina”, con il genio al servizio della concretezza, con l’estetica al servizio dell’etica, con il dribbling che diventa necessità piuttosto che virtù; puoi farlo dopo aver regalato la Decima ad un popolo che adora un dio pagano che aveva fallito nella rincorsa alla stessa fino a quel momento; puoi farlo dopo aver conquistato (e saltato) saltato la finale di un Mondiale; puoi farlo dopo aver scelto un declinare inspiegabile, come uno fra tanti, tra Inghilterra e Francia. Puoi farlo, quando vuoi, ma devi farlo. Perché Ángel Di María non può non tornare a Rosario. Perché Ángel Di María non può non tornare a giocare nel Central.

Paulo Dybala

Il fisico minuto, il mancino raffinato e quel numero 10 che in realtà non porta ma che secondo alcuni gli spetterebbe di diritto: queste caratteristiche hanno messo sulle spalle di Paulo Dybala il peso di paragoni con altri giocatori del pantheon argentino prima ancora che la sua carriera entrasse davvero nel vivo.

Cinque anni fa, Dybala ragazzino scoppiava a piangere per la mancata promozione in Primera dell’Instituto de Cordoba, superato dal San Lorenzo. Oggi, ragazzo, con due strisce di inchiostro intorno al braccio sinistro, Dybala è uno degli uomini simbolo della Juventus, e lo scorso aprile ha indossato la livrea per eliminare il Barcellona dalla Champions League con due colpi da fuoriclasse. In mezzo, ci sono stati gli anni di Palermo; Dybala che da Joya diventa Picciriddu, la Serie B, la Serie A riconquistata in tandem con Vazquez, la maglia numero 9, la standing ovation nel giorno dell’addio.

E se nelle prime due stagioni con la Juventus la Joya ha dimostrato di saper segnare reti (a volte bellissime) con una maglia pesante, accanto a guizzi decisivi (contro il Barcellona, contro la Roma a Torino nel gennaio 2016, il sangue freddo mostrato tirando il rigore contro il Milan in un finale di partita ricco di polemiche) ci sono state assenze e crolli emotivi, come il tiro dal dischetto sbagliato nella roulette della Supercoppa Italiana a Doha e il nervosismo e la tensione palesi durante la finale di Champions League di Cardiff. In attesa di sapere se rimarrà sposato a lungo con la Vecchia Signora o sceglierà un altro destino, e mentre il tempo fa il suo lavoro liberando per lui più spazio in nazionale, ci accontentiamo della certezza del suo talento, prima di scoprire cosa farà da grande.

Héctor Enrique

Come disse una volta Buffa raccontando del Mondiale ’86, quella di Héctor Enrique è una storia molto Argentina. Si dice che abbia fatto “l’assist del secolo”, ovvero un passaggio orizzontale di cinque metri per Diego Armando Maradona, prima che El Diez saltasse tutta la difesa inglese sotto il sole cocente del Messico. Ciò nonostante, El Negro — appena 11 presenze con l’Argentina! — ha vinto pure una Libertadores e una Intercontinentale con il River Plate degli anni ’80.

Néstor Fabbri

Il banco vince sempre. Chiedere per credere alla “Tota”, Néstor Fabbri, il vice-campione del mondo nell’Argentina che ha reso meno magiche le notti di Italia ’90. “Sono sempre stato molto competitivo” dice, “e mi piacciono i numeri: se non avessi fatto il calciatore, sarei stato un contabile”. Adesso gestisce un’agenzia per la Loteria de la Provincia e agli inviati del programma Rabona di TyC Sports spiega di sentirsi più semplice delle persone che ogni giorno vanno a cercare un sogno e un segno del destino nei numeri. Cercano un viaggio, qualcosa che è difficile capire cos’è ma deve essere strada. La stessa che ha percorso il figlio prediletto del barrio della Floresta e dell’All Boys. Debutta a 16 anni, in Primera B, e all’esordio già segna il gol della vittoria contro l’Argentino di Rosario, la prima delle sue 47 reti in 679 partite.

Resterà sei anni al Racing. Sarà votato miglior giocatore d’Argentina nel 1987 e gelerà il Monumental nella semifinale della prima edizione della Supercopa Libertadores: suo il gol che elimina il River e lancia il Racing verso il titolo, nella finale sul Cruzeiro. Il viaggio lo porta un po’ più lontano, all’America di Cali poi in Europa. Vince due coppe di Francia, due supercoppe e l’ultimo titolo in Ligue 1 nella storia del Nantes, che pure sviluppava un calcio tecnico vicino ai principi del toque colombiano. Tornerà per un ultimo giro di giostra nella squadra del suo quartiere. “Olé, olé…olá, al zurdo Fabbri nunca lo voy a olvidar”, cantano i tifosi al momento dell’addio, “olé, olé… olà il zurdo Fabbri nessun potrà dimenticar”.

Federico Fazio

Se è vero quello che Bioy Cesares diceva degli eresiarchi di Uqbar, che cioè gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini, potrebbe essere altrettanto vero che l’ombra può cancellare uomini e pallone. Provate a trovarvi al cospetto dell’ombra tra la fronte e le orbite Federico Fazio, detto La Torre, a quasi duecento centimetri dal suolo e poi capirete ciò che vuol dire combattere con fa del portare nella sua ombra avversari e gioco. Cresce, e non solo in altezza, a Buenos Aires nel Club Ferro Carril Oeste, ma non fa nemmeno in tempo a entrare in un campo della massima serie argentina che si ritrova a Siviglia a vincere quel che resta nel piatto su cui si servono Barca, Real e Atletico: due Europa League, una coppa di Spagna bastano e avanzano in un’epoca di oligopolio. Vince tutto con le giovanili dell’Albiceleste.

Poi l’ombra prende anche lui: lo segue al Tottenham e per un po’ di tempo è lei a indossare la maglia bianca degli speroni col numero 21. Ma Federico si serve del tempo giusto per battezzare il suo demone e poi se lo fa compare nella terra delle sue radici, l’Italia. Suo nonno è di Erice, dove Ercole sfida e vince il semidio figlio di Bute e della dea Afrodite, dove Enea dà sepoltura ad Anchise. È forse anche per questo che. a Roma, fa junghianamente pace con la sua ombra e diventa il Comandante: dove è più forte la luce, Fazio porta l’ombra (e la ruleta) più cupa. La stessa ombra che lo riporta in nazionale, a segnare contro Singapore e a continuare a guardare il mondo a duecento centimetri dal suolo, dall’ombra tra la fronte e le orbite, l’ombra del comandante Federico Fazio.

Ubaldo Fillol

Essere considerato il numero uno dei numeri uno argentini pur avendo indossato sulla schiena il 5. Storia bizzarra, quella di Ubaldo Fillol. Effettivamente da ragazzino si ritrovò a giocare da centrocampista d’interdizione, alternandosi tuttavia al ruolo di portiere. Ma è proprio in questa veste, con una maglia diversa da tutti gli altri compagni di squadra, che entrerà nel mito. Parando, ad esempio, ben sei rigori in un’unica stagione. In nazionale, per il Mundial del 1978 da disputarsi in patria, partiva come riserva di Gatti, uno talmente svalvolato da farsi chiamare “el loco” da tifosi e giornalisti. Ma era infortunato, e così il ct Menotti doveva necessariamente dare fiducia a Fillol. Quell’arquero con una vita mancata da mediano non abbandonò più i pali: tra parate in volo, riflessi svegli ed esplosività nelle gambe divenne uno degli eroi di un’intera nazione che, a quei tempi, se la passava piuttosto male (eufemismo). La curiosità è che la numerazione dell’Argentina seguì l’ordine alfabetico, non quello classico della suddivisione dei ruoli. E a Fillol toccò il 5, lo stesso che aveva sfoggiato sui campi polverosi della sua San Miguel del Monte in tenera età. Perché sul campo di calcio, a volte, si fa come a tavola: non s’invecchia mai.

Leo Franco

Leonardo Neoren Franco non sembra destinato a chissà quale futuro: era arrivato a Mérida dall’Argentina e non giocava. A Maiorca, però, qualcuno si è accorto di lui: quel qualcuno si chiama Fernando Vázquez, che l’ha fatto partire al posto di Carlos Roa, deciso a diventare un pastore evangelico (intento fallito). Leo Franco ha fatto parte di quella generazione straordinaria che l’Argentina mise in campo a fine anni ’90 per vincere il Mondiale U-20 (c’erano Samuel, Riquelme, Cambiasso e Aimar!): purtroppo, con l’Albiceleste non raccoglierà mai la gloria cercata, raccogliendo appena 4 presenze e giocando il Mondiale 2006 da subentrante. Si è consolato con una lunga carriera in Spagna.

Fernando Gago

Trionfo di sonorità, bisillabiche successioni di consonanti “velari”, ché “velo palatino” è più appropriato di “gola” e “gutturali”. Concatenazione fonetica al limite dello scurrile; è anche il soprannome di un tipo della mia città (tale Gabriele, sedicente violinista), che ha quaranta e più anni ma li porta benissimo. Questo Gago qui, invece, è calciatore e pittore insieme, tanto è vero che la struttura della sua carriera è — come quella di molti altri — “a cornice”, dal momento che si lega, tra gli esordi e il compimento del trentello, al Boca Juniors. Anche lui, di fatto, uno scarto del Real; anche lui, con un nutrito gruppo di coetanei nati negli anni Ottanta, vincitore a Pechino e al Mondiale Under-20, ma sconfitto al Mundiàl e in Copa América. Anche lui, ahinoi, nella Roma di Luis Enrique. Eppure, per Gago, di “incompiutezza” non si può certo parlare: a completamento del quadro, non mero dettaglio sullo sfondo ma vero e proprio punto di fuga, le nozze con Gisela Dulko.

Marcelo Gallardo

Se azioni la memoria a lungo termine e ripensi a Marcelo Gallardo in campo, quasi non ci credi che oggi faccia l’allenatore del River Plate, in maniera seria e continuativa (è in sella dal 2014) e che abbia vinto praticamente tutto quello che c’era da vincere nel subcontinente latinoamericano. La stessa sensazione ti assale guardando la sua foto su Wikipedia versione italiana, Marcelo sembra più un giovane Micheal Jackson che un tecnico stimato a livello internazionale. Ritornando ai fatti di campo, decisamente più importanti, Gallardo è stato un’espressione di assoluta purezza calcistica argentina, un calciatore didascalico della sua nazionalità. Baricentro basso, destro naturale, con una gran tecnica di base espressa nella capacità di trovare — quindi di immaginare, scegliere e attuare — la soluzione di gioco più efficace e comunque spettacolare. E di farlo sempre.

Quest’ultimo punto lo ha reso particolarmente argentino, e in qualche modo giustifica il fatto che in Europa abbia giocato e brillato solo in Francia. Dove, si sa, la gente ha un occhio particolarmente selettivo per le arti — tanto per non uscire dal balletto sulle punte dei luoghi comuni. I suoi soprannomi conosciuti sono El Muñeco e Napoleón. Il primo si traduce grossolanamente in “bambola”, il secondo è abbastanza chiaro. Sono splendide contraddizioni degli Apodos argentini, suggestive proprio perché sono perfette per raccontare personaggi del genere, contraddittori a loro volta.

Américo Gallego

A Chorzow, arriva solo un eco lontana di brevi parole. Il comunicato con cui Jorge Videla ha interrotto i programmi alle 3.21 della notte del 24 marzo 1976 rompe le barriere anche a 13mila chilometri di distanza. Kempes piange, Menotti tranquillizza tutti ma un giocatore della nazionale, a Chorzow per un’amichevole, non ne vuol sapere. Continua a cercare di chiamare casa, Américo Gallego, per tutti El Tolo. “Sono un lottatore” ha raccontato in una lunga intervista a El Grafico. Un bambino che a due anni si sposta da Morteros a Rosario, che cresce con quattro fratelli e senza padre e si brucia le mani lavorando da bambino su un carretto dei gelati.

Nel 1975, al Torneo di Tolone, conosce quello che diventerà l’amico di una vita, Daniel Passarella. “Quando avrai quarant’anni”, scherzava, “sarai il giardiniere nella mia villa e in quella di Maradona”. È il faro del centrocampo del Newell’s Old Boys e della nazionale campione del mondo nel circo più politicizzato di sempre. Sarà il capitano del River Plate, dove resterà fino all’addio al calcio, nel giorno del primo trionfo dei Millionarios in Copa Libertadores. Le sue rivincite se le prenderà da allenatore: vince quattro titoli nazionali, il primo col Rover senza mai perdere, e l’Apertura in Messico sulla panchina del Toluca che porta al trionfo anche nella Champions Cup, la coppa dei campioni della CONCACAF. Perché hai abbandonato il calcio a 33 anni, gli hanno chiesto una volta. “Perché giocavo da volante”.

Hugo el Loco Gatti

Mentre intervistavo il figlio di fronte a un tabbouleh di verdure, del Loco Gatti mi sono fatto un’idea che cozza con quella che l’immaginario collettivo ha rinchiuso dentro uno scrigno inaccessibile, lucido, adamantino: era davvero così Loco, poi, il Loco?

Oltre i primati (ancora oggi è il calciatore con più presenze nella storia della Primera), oltre i soprannomi poco creativi (di gran lunga quello che gli avevano affibbiato all’Union de Santa Fe: Beatle), oltre la leggendarietà di 550 partite con il Boca, più di ottocento in totale, al di là delle note di colore della partita contro l’Independiente osservata seduto sulla traversa, annoiato, controluce dietro l’appariscenza delle maglie variopinte e le fasce nei capelli, ecce homo.

Hugo Gatti era stato un figlio, e sarebbe stato padre: avrebbe chiamato il suo Lucas Cassius, in onore di Clay, tra le braccia del quale l’avrebbe depositato, un po’ emozionato, in una trasmissione televisiva.

Hugo Gatti era prima di tutto umano: al punto di non essere così avventato da esporre direttamente le proprie idee sul regime di Videla («Era peggio Menotti, per dire», dice il figlio), al punto di perdere l’occasione di conquistare un Mondiale, quello del ’78, davvero perché — soltanto perché — gli era saltato un menisco. La vodka in campo durante un Russia — Argentina per il freddo, non come boutade. Anche la storiella famosa del beef con Diego Armando Maradona, anziché sminuirlo, o accrescerne la leggenda guascona, finisce per renderlo più cedevole: le provocazioni, certe volte, scivolano nello stagno malmostoso della figuraccia, anche se ti chiamano Loco, come se dovesse in qualche modo scagionarti, come fosse un’attenuante.

Ricardo Giusti

Storicamente legato all’Independiente, Giusti ha vinto Libertadores e Intercontinentale nell’84, in una squadra leggendaria che aveva Ricardo Bochini e Jorge Burruchaga tra i suoi interpreti. Il centrocampista non ha mai lasciato l’Argentina, eppure è andata bene lo stesso: appena sette anni di nazionale, festeggiati con la vittoria del Mondiale ’86 e la finale del ’90, che per altro lui non giocò. Giusti venne espulso nella semifinale contro l’Italia dopo aver sgomitato con Roberto Baggio.

Lucho González

Una carriera piena di successi, che poteva però essere di un livello molto superiore perché la tecnica ed il carisma di Lucho González non sono facili da trovare. Debutta appena maggiorenne nella Primera Division argentina tra le fila dell’Huracan e dopo 4 anni fa il salto al River Plate diventando uno dei centrocampisti argentini più forti del Paese, attirando le attenzioni del Porto dove diventa l’idolo dei Dragoni. Ogni rete segnata viene festeggiata portando una mano davanti alla fronte, proprio come un saluto militare, a giustificare il suo soprannome, El Comandante. Un giocatore che pallone dopo pallone ha sputato sangue, sudore e lacrime per conquistarsi quello che si è conquistato. Esempio di vita, esempio di campo.

Néstor Gorosito

La mia età, quando ero troppo piccolo per andare in vacanza, costringeva i miei a spendere le due settimane di ferie annue tra la Romagna e le Marche, scegliendo di volta in volta un lido della costa Adriatica che non fosse troppo lontano dal nostro nobile entroterra. In realtà sto mentendo: avevo serissimi problemi di stomaco e di sopportazione dei viaggi in auto, il che li obbligava a limitare le tratte e mi rendeva, da anni, un emarginato che non partecipava alle gite scolastiche. Dopo un paio di annate sul tratto romagnolo, i miei optarono per Marotta, dove alloggiammo in un alberghetto vicino alla casa di alcuni nostri parenti. La gestrice, tale Rita, aveva più di cinquant’anni, e aveva fatto un colpaccio: il suo toy boy (di cui ho rimosso il nome, ma era qualcosa tipo Ernesto o Palomo) aveva trentotto anni e arrivava direttamente dall’Argentina. E una sera, per scollarmisi di dosso, i miei decisero che avrei passato con Ernesto o Palomo un paio d’ore, in modo che potesse parlarmi della prolifera tradizione calcistica del suo paese. In realtà, come ebbi modo di capire dalle prime battute della nostra conversazione, in cui, oltre alla sua birra, notai il medaglione perfettamente intonato al pelo sul petto, Ernesto o Palomo non ne sapeva troppo, di pallone. Conosceva giusto le star e quelli che militavano di volta in volta in nazionale, ma ignorava le chicche (p. es. i giovanissimi Crespo e Rambert). Della lista di nomi che iniziai a snocciolargli, io conoscevo appena qualche fisionomia attraverso le figurine e gli almanacchi; lui si esaltò prevalentemente su Batistuta. Un apice, però, lo abbiamo raggiunto: è stato su Gorosito, che Ernesto o Palomo pronunciava tipo “Horosijo”. Mi disse che gli stava simpatico per quei capelli lunghi, oltre che per il fatto di essere un centrocampista che però (nel 1989) era riuscito a diventare capocannoniere con il San Lorenzo, roba da 21 reti annue. La stranezza della parabola di Gorosito vive altri due momenti straordinari, ma non parlo delle vittorie planetarie in maglia River Plate o degli ovvi successi cileni con la maglia dell’Universidad Católica. Il primo dato, da cui partire per procedere a ritroso, è il fatto che fu parte della spedizione che conquistò la Copa America 1993, in cui l’Argentina vinse però appena due partite: la prima all’esordio, in cui Batistuta sconfisse per 1–0 la Bolivia; l’ultima, la Finale, in cui il 2–0 all’Ecuador fu — per un perfetto reprise — tutto farina del Bati, once again. Nel mezzo quattro pareggi, due dei quali nel girone e due tra quarti e semifinali: in entrambe le vittorie (su Brasile e Colombia), Nèstor Gorosito è l’uomo designato per rompere il ghiaccio, il rigorista che segna il rigore numero uno e che smorza la tensione. Ma soprattutto — siamo all’aneddoto #2 –, è eclatante come arriva a questo status: precisamente da MVP dell’Austria tutta, con indosso la divisa adamantina dello Swarovski Tirol. Tre stagioni, due scudetti, gloria eterna. Il tutto, nell’era dei Toni Polster. Ecco: Ernesto o Palomo, queste robe, avrebbe potuto anche dirmele, ma il fatto è che non ne aveva idea. Anni dopo, venni a sapere, lasciò Rita e Marotta, per tornarsene in Sud America.

Sergio Goycoechea

Goycoechea, per parafrasare un allenatore che attualmente va per la maggiore, è stato il miglior secondo portiere del mondo. Almeno tra quelli che hanno avuto la possibilità di provarlo: ossia che, per un accidente della Storia e della propria storia, sono stati a un certo punto promossi titolari. Parlandone un attimo non come individuo ma come manifestazione storica, Goycoechea è vissuto in quel momento di transizione fra l’era del portiere di riserva e quella del portiere in panchina: ossia a cavallo di un momento di svolta, quello in cui viene meno la precedente immutabilità della condizione di panchinaro, con l’introduzione di un approccio più moderno, flessibile, che permette e richiede al secondo portiere di giocare ogni tanto, fino a farlo diventare un giocatore come gli altri, inserito, come si direbbe nella pallacanestro, nelle rotazioni.

Sergio Goycoechea, per la verità, sembra un portiere di riserva del vecchio tipo, tanto è vero che sia al River Plate che in Nazionale fa il secondo allo stesso titolare, a quel tale dal nome effettivamente altisonante di Nery Alberto Pumpido (non esiste, mi pare, che un Nery possa cedere il posto a un Sergio). E però, dopo aver iniziato il mondiale del 1990 con un’indegna saponetta che diventa la vittoria del Camerun sull’Argentina, Pumpido, la partita dopo, si rompe la gamba scontrandosi con un altro basco in maglia albiceleste (Julio Olarticoechea). Goycoechea allora entra e si prende la scena, a forza di parate e di rigori respinti. L’Argentina, che non è che stia giocando benissimo, anzi diciamo che subisce un po’ da tutti ma incassa molto bene, resta in piedi grazie a Goycoechea; e sempre grazie a lui alla fine passa, perché Sergio ipnotizza due jugoslavi e poi due azzurri, a Napoli, in quella semifinale maledetta.

Quando in finale la Germania ottiene un altro rigore (dubbio), il copione pare scritto: e infatti Goycoechea, sul tiro di Brehme, indovina l’angolo, si allunga, la tocca. Ma non la respinge.

La palla si infila in rete, la Germania vince il mondiale. Era destino, forse, forse non era ancora tempo: il miglior secondo portiere non poteva essere il primo in nessun senso, in nessun caso. La carriera di Goycoechea termina giustamente anonima, e quello che si può dire di lui è che ci andò vicino, vicinissimo, la sfiorò, ma dovette comunque rassegnarsi: era ancora quel calcio lì, e un portiere di riserva non poteva coltivare sogni tanto grandi.

Gabriel Heinze

Non c’è un cazzo da fare, gli ho sempre voluto bene. Anche in quella Roma lì. Non solo: appartengo a quella risma di incompetenti in infradito che si esaltavano pensando a una coppia formata dal maturo Heinze e dal giovane Kjaer, che tanto aveva impressionato fino ad allora (no, su José Angel non mi illusi neanche per un attimo). Molto di estetico, tra noi, nel senso che mi era sempre sembrato un bell’uomo, nonché uno che — in situazioni di pericolo, risse o zuffe — sarebbe arrivato a difendermi e mi avrebbe fatto rispettare. Eppure c’era qualcosa di strano in me, come una mancanza di stima pregiudiziale: quasi come se i suoi gol di testa fossero secondari, o non importanti; quasi come se fosse un sopravvalutato, tra il biondastro e l’inutilmente rude, tra Samuel e Vivas ma senza essere Ayala.

In alcuni periodi, pensando a lui, mi convinsi che quella fosse la ragione per cui aveva girato solo grandi squadre, ignorandone — peraltro –i trascorsi tra Real Valladolid e Newell’s Old Boys. Altrettanto inconsciamente, in altri periodi, mi contraddicevo e pensavo che fosse una sorta di “Samuel un po’più scarso”, e nonostante i passaggi per Madrid e Manchester non lo ritenevo il difensore ideale per una corazzata, ma solo per squadre che ambissero al podio o alla UEFA: insomma, bene allo Sporting, al Paris, al Marsiglia o alla stessa Roma. Ho fatto pace con lui proprio alla fine, cioè quando è tornato al Newell’s per onorare le proprie origini e la Libertadores: scoprendo, tra l’altro, che è nato a Crespo.

Gonzalo Higuaín

È una doppietta contro il Boca Juniors nel Superclasico di Apertura 2006 a consacrarlo: Gonzalo Higuaín segna due volte nel 3–1 che il River infligge al Boca, e Daniel Passarella nel post-partita gli appiccica addosso l’etichetta di predestinato. Il primo gol di Higuaín è un gol strano: su angolo spizza di tacco una palla indirizzata debolmente verso la porta da un compagno, e finisce per ingannare il portiere. Esulta allargando le braccia, in un gesto che con gli anni ha iniziato a diventarci familiare, anche se il fisico mingherlino, la barba adolescenziale e i capelli mossi e folti sembrano avere poco a che fare con l’immagine di Higuaín che abbiamo adesso. Il secondo gol è freddezza e maturità, nell’impostare un’azione di contropiede e seguirla fino a trovarsi davanti al portiere e scartarlo con una finta prima di depositare la palla in rete con un diagonale piuttosto stretto, facendo impazzire lo stadio.

Dopo quella stagione, Higuaín arriva in Europa dalla porta principale e a Madrid, tra alti e bassi, raggiunge quota 121 gol in sette anni. Troppo spesso chiamato a battersi per un posto da titolare, nella Liga ricca di campioni il Pipita non ascende mai al ruolo di star assoluta. La storia recente la conosciamo: idolo di Napoli, le urla di Adani al suo trentaseiesimo gol nella Serie A 2015/16, la gogna mediatica dopo il trasferimento da “traditore” dalla squadra partenopea alla Juventus. Le critiche per la sua forma fisica, le partite risolte da solo, la troppo diffusa tendenza a giudicarlo unicamente per i suoi gol, quella maledizione che cala su di lui in finale e che fa ormai parte della sua pica personale, la difficoltà a conquistarsi un posto nel cuore degli argentini. Gonzalo Higuaín ad oggi è uno dei numeri nove più forti del mondo, ma succede agli eroi che in fondo restano umani, sembra sempre che gli manchi ancora un ultimo passo.

René Houseman

Chi ha del talento ne è anche la vittima, scriveva Nietzsche; egli vive sotto il vampirismo del suo talento. Sembra il ritratto di un Paese che ha imparato il calcio con gli inglesi, negli spazi stretti, come un passo di tango. Di una nazione che si è specchiata nella garra e nella bellezza, che ha idolatrato campioni senza regole, dalla passione smisurata. Ma nessuno si è lasciato vampirizzare dal suo talento più del “Loco” Houseman. Icona dell’Huracan, è stato campione del mondo nel 1978 con il Flaco Menotti, l’allenatore che gli aveva cambiato la vita. Più che per il suo gol nella marmelada peruana, Menotti adora quell’estremo destro che è un po’ “un misto tra Maradona e Garrincha” dice. “Non è esistito mai un giocatore dello stile di Houseman” racconta il Gitano Miguel Angel Juárez, uno dei padri del menottismo. “Pele, con tutto il suo talento, non è capace di inventare in velocità come René. È l’unico che corre nell’aria, senza toccare il terreno. René è più dotato, più pazzo, più geniale, più inventore con la palla”.

Talmente sregolato da giocare una partita, racconta e chissà se millanta, ubriaco. È il 22 giugno 1975. L’Huracan, con cui giocherà 266 partite segnando 108 gol e vincendo il Metropolitano del 1973, affronta di mattina il River Plate ma Houseman ha passato la notte prima a festeggiare il primo compleanno del figlio Diego. In campo, comunque, in un’epoca senza smartphone e immagini rubate negli spogliatoi, si presenta lo stesso. È suo il gol a Ubaldo Matildo Fillol, il portiere della nazionale, per l’1–1. “Segnai” confessa, “poi chiesi il cambio e andai a dormire”.

Hugo Ibarra

Hugo Ibarra avrebbe avuto un impatto fragoroso sul calcio mondiale, se solo i rapporti di forza economica tra Europa e Sud America non fossero così squlibrati. È il suo palmarés a confermare questa suggestione: con il Boca, Ibarra ha vinto tutto. Ma tutto non è un modo di dire, in questo caso. È tutto, davvero tutto. Hugo Ibarra avrebbe potuto suggellare il suo status di eroe sovrannaturale nel 2004, quando con il Monaco raggiunse un’incredibile finale di Champions League. Vinse il Porto, invece, in cui aveva giocato due anni prima. Hugo Ibarra avrebbe potuto costruire una carriera e un ricordo di sé molto diverso, in Europa, aveva le doti del “duro” argentino, tanto che in una lunga intervista al Grafico racconta di aver giocato gran parte della carriera con i legamenti crociati rotti, e il giornalista lo definisce “un grande marcatore” — nel senso difensivo del termine. Hugo Ibarra sarebbe stato inserito tantissime volte nelle goal collection che oggi sono su Youtube, segnava in maniera frequente con grandissimi tiri da fuori, di destro e di sinistro. Hugo Ibarra è un condizionale in loop che ha attraversato i primi anni Duemila: avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, si è limitato a essere un simbolo del Boca e a vincere una Champions League col Giulianova nel mio save del cuore di Championship Manager 2003/2004. Era la riserva di Gilberto Martinez, detto El Tuma, nel mio 4–3–3 ultraoffensivo. Avrebbe avuto le skills per fare il titolare, ma El Tuma era più bravo di lui. A volte, il what if è un destino che proprio non si può cambiare.

Mauro Icardi

Maurito e la fascia da capitano di uno dei club italiani più blasonati ed esigenti d’Italia, in anni in cui i trionfi sono pochi e le critiche tantissime. Maurito e Wanda, l’account Twitter di Wanda, le foto Instagram con i bambini di Maxi Lopez, i tatuaggi vistosi, gli orologi da bambino ricco, la piscina in terrazza con vista su San Siro. Maurito e le mani portate dietro alle orecchie in maniera irriverente dopo un gol, 81 in Serie A fino ad ora, e zero in nazionale perché di partita con l’Albiceleste ne ha giocata una sola, si dice sempre per quella storia di Wanda, portata via con disonore ad un compagno di squadra.

Eppure, Maurito ha detto no a un esordio da oriundo nella nazionale italiana. Il non avere una carriera da internazionale si somma alla scarsa rilevanza europa dell’ultima Inter, e va a disegnare i contorni del senso di incompiutezza di un attaccante che per numeri ed efficacia dovrebbe essere pronto a salire ad un livello più alto. Soffocato da quella che è la sua vita fuori dal campo, da lui stesso esibita con fervore, Icardi sembra ricadere costantemente in polemiche alimentate dalla compiaciuta narrazione che ama fare di sé e dal gossip, e ha sacrificato all’altare del proprio io mediatico anche i rapporti con gli ultras dell’Inter. Tutto questo mondo dovrebbe essere confinato nel perimetro di rilevanza che gli spetta davvero, per vedere finalmente con lucidità un numero 9 spietato in area e desideroso di migliorarsi in fase di costruzione, rapido e letale, costantemente alla ricerca di quel gradino in più che possa portarlo ad essere un top, nonostante l’Inter o, forse, nonostante se stesso.

Mario Alberto Kempes

«Diedi la 10 a Maradona perché disse che con la numero 11 non voleva giocare. Lui era il migliore di tutti e a me dei numeri non è mai importato niente».

È il 1982, sta per cominciare il Mondiale in Spagna. Mario Alberto Kempes è già “el Matadòr” da molto tempo. Lui, qualche anno prima, nel 1978, ha vinto il Mondiale a casa sua, in Argentina, avanti alla sua gente. Gli hinchas della Nuestra. Mario Kempes era un dieci atipico, se così si può dire. O almeno era il 10 prima che il 10 diventasse Diego Armando Maradona. Alto, longilineo, veloce, scattante, arrembante, aggregativo, cinico. Come un assassino da rettangolo di gioco. El Matadòr, appunto. Il padre aveva giocato in una squadra dilettantistica ma questo bastò e avanzò per fargli capire di che pasta fosse fatto suo figlio. Mario Kempes è un riferimento per moltissimi. Ala destra, centrocampista centrale, seconda punta o punta centrale, Mario ha tagliato il campo senza mai tirare la gamba, alla costante ricerca del pallone. Alla costante ricerca della giocata giusta. Come seconda punta o da esterno d’attacco riusciva ad essere imprendibile.

Come al mondiale del ’78. Non riuscì a prenderlo nessuno, tantomeno Jorge Rafael Videla, el General. Durante la premiazione fu l’unico a non stringere la mano al dittatore, dribblando anche la benché minima parvenza di sottomissione. Inafferrabile, imprendibile, instancabile. Un campionato argentino (1981), una Coppa di Spagna (78–79), una Coppa delle Coppe (79–80), una Supercoppa Europea (1980), un Mondiale (1978), finanche un campionato vinto in serie B austriaca (88–89). E poi, due volte capocannoniere argentino (1974, 1976), due volte capocannoniere spagnolo (76–77, 77–78), capocannoniere in Coppa del Re (77–78), capocannoniere in Coppa delle Coppe (79–80), Capocannoniere del Mondiale (1978). Ancora, miglior giocatore del Mondiale (1978), calciatore sudamericano dell’anno (1798) e miglior calciatore argentino dell’anno (1978), 651 partite, 351 goal, uno stadio dedicatogli (il Mario Kempes di Cordoba), due mogli e quattro figli. Ora è una delle voci più seguite di ESPN Latinoamerica. Monumentale.

Ángel Labruna

Nel 1926, quando aveva solo 8 anni, per paura che cadesse nella trappola di diventare tifoso di qualche altra squadra bonaerense i genitori lo fecero socio del River; trentatré anni dopo, quando ne aveva già trascorsi più di venti con la casaca dei Millonarios, la dirigenza lo mise alla porta senza nessuna ragione specifica diversa dalla noia. Lui, che era diventato questa specie di vessillo con gli scarpini, che si era ostinato, sempre anteponendo l’amore ai dollari, a non abbandonare il Vespucio Liberti per niente e poi niente al mondo. Né i dollari dell’El Dorado colombiano nel ’50, né la fama europea quando era l’Italia a chiamarlo, quattro anni più tardi, l’avrebbero schiodato da quel tunnel, da quelle gradinate ampie.

«Il River è un mostro che sa come proteggere le sue stelle», disse una volta. Lui, la fortuna di essere uno di quei protetti speciali, finché è durata se l’è tenuta al fianco, a carezzarsi reciprocamente. Poi, però, maledetto tempo: «Io dal River non me ne sono andato: mi hanno costretto ad andarmene, che è diverso. Era tutto così confuso. Non dormivo più la notte, uscivo di casa e facevo dei giri per dimenticarmi quella maglia».

Nel mezzo di una storia dal finale troppo amaro per quanto è stata idilliaca, le cosmogonie di Cesarini, de La Máquina, del River che sconquassava il Sudamerica degli anni ’40: un esperimento sociale prima che calcistico fondato sul concetto che il talento non è qualcosa che si può inserire in un meccanismo (anche questa è sua), ma sul quale il meccanismo, sì, può essere forgiato. Cesarini lo ha plasmato, come pure fece con Pedernera, con Losteau: chi giocava wing si è ritrovato centravanti, chi giocava da nueve è scivolato sulla fascia. Lui, Angelito, i crismi del Diez ce li aveva anche quando giocava interno sinistro: intelligente ma anche passionale, leader talentuoso tanto quanto polemista verborragico. In quasi 500 partite sulla polvere del Monumental, l’ha buttata dentro 300 volte. Spesso contro il Boca, in quelle protoforme di Superclásico conservate nella naftalina di vecchi video caricati su YouTube.

Frequentava gli ippodromi perché diceva essere «il passatempo dei re», specie i re scapestrati. Quando perse il figlio ventenne, che giocava con la 10 nelle giovanili del River e sembrava pronto per raccoglierne l’eredità, si convinse che potesse parlargli nei «momenti difficili, anche durante le partite».

Ci metteva quel tipo di ostinazione che appartiene ai pazzi. Fu il primo a tapparsi il naso di fronte alla Doce boquense. E poi non ha mai scavalcato nessuna linea del rettangolo di gioco — l’area di rigore, il fallo laterale, la linea di centrocampo — con il piede sinistro: neppure una volta in ventuno stagioni coi Millonarios. Non credeva nella fortuna, eppure ci credeva fortissimo: come tutti quelli che scommettono sul talento e l’intuizione, soprattutto i propri.

Erik Lamela

Erik Lamela è un fantasista argentino che il T9 del cellulare corregge in Lamellare, caratteristica del legno di particolare solidità e resistenza. Non è tuttavia il caso dell’eterno giovane talento, capace sì di aggirare gli equilibri difensivi di ogni squadra si trovi di fronte, attraverso tagli del campo improvvisi a rasoio, ma anche di passare più tempo alle prese con problemi fisici che a disposizione dei propri allenatori. Arrivato in Italia, alla Roma, dal River Plate a 19 anni, solo due anni dopo il mancino ha raggiunto Londra, sponda Tottenham, per andare a diventare un vero top player.

Ma niente. I più informati giurano il problema sia sorto in virtù della capigliatura che, spostata verso la parte sinistra del capo, pare abbia impedito al fantasista un’aerodinamica adeguata al clima londinese. Ne conveniamo. E a 25 anni aspettiamo decida di tagliare i capelli. Come aveva abituato a tagliare la trequarti avversaria.

Ezequiel Lavezzi

Prima di andare da Zhang Sen agli ordini di Manuel Pellegrini, Ezequiel Lavezzi era un calciatore di cui era impossibile non innamorarsi. Prima di andare da Zhang Sen agli ordini di Manuel Pellegrini, Ezequiel Lavezzi era un calciatore di cui era impossibile non odiare. Solo un popolo lo ha amato in tutto e per tutto, il popolo napoletano. Lavezzi è stato il profeta arrivato sulla terra dopo un diluvio universale durato 4 lustri dopo l’avvento sulla terra di un Dio, o meglio, di un D10S.

La sua rapidità, la sua grinta, la sua voglia di fare, resteranno indimenticabili, così come l’inventiva. Non esiste napoletano che non conosca a memoria la telecronaca di Compagnoni sul gol da terra in pallonetto a superare Abbiati in un Napoli-Milan, o ancora non esiste napoletano che non conosca a memoria la telecronaca di Carlo Alvino su una ripartenza che ha portato la vittoria al Napoli in trasferta a Cagliari e ancora, quel gol al Chelsea invocato letteralmente dallo stadio San Paolo.

Finisce qui: Lavezzi non ha mai lasciato la 22 del Napoli, è andato al PSG? Boh. E’ andato in Cina? Boh. Lavezzi è ancora nel cuore di tutti i napoletani e lì resterà per sempre.

Claudio López

Ci sono dei calciatori con cui condividi qualcosa, qualcosa che una volta era importante e che oggi non potrebbe più esserlo — ma che intanto ti ha segnato. Qualcosa che, a distanza di tempo, è bello ricordare. Ecco, Claudio Lopez è uno di questi, almeno per me. Mentre El Piojo esplodeva col Valencia, io iniziavo a seguire in maniera “seria” il calcio internazionale, mi interessavo dei risultati e dei giocatori, e allora non può che piacerti fin da subito un calciatore del genere, una specie di macchina supersonica della transizione; dopo è passato alla Lazio, ed io ero contento del fatto che una squadra italiana della quale non ero e non sono tifoso acquistasse un calciatore così, per poi metterlo addirittura insieme a Crespo, che meraviglia. Poi sono stato grande abbastanza per fare il fantacalcio, e allora Claudio Lopez è diventato una garanzia, un rifugio, il quarto-quinto attaccante dei sei che riesci a strappare per dieci milioni (mai usati i fantacrediti, roba da pivelli) e sai che giocherà, che sarà in campo quando avrai bisogno di lui.

È andato via dall’Italia che ero pronto a lasciarlo andare, ero preparato al distacco. Anche perché nel frattempo il calcio stava cambiando, il contropiede si stava trasformando in un’idea romantica ma demoniaca e Claudio Lopez stava per diventare obsoleto, e questo non avrei potuto sopportarlo. Mi è capitato di rivedere tutti i suoi gol per scrivere di lui, ne ha segnati tantissimi in situazione di uno contro uno con il portiere, normale quando sei un contropiedista — come si diceva un tempo. Ho visto una rete realizzata direttamente da calcio d’angolo, col sinistro, in Champions League, e ho scoperto che oggi Claudio Lopez è il direttore sportivo dei Colorado Rapids, in MLS. Mi sono affezionato ancora di più a lui, se possibile.

Félix Loustau

Quanto a Félix Loustau si può parlare, per prima cosa, del suono del suo cognome (quanto al nome, diremo solo: c’è un racconto di Cortazar basato tutto sul nome Felix, e tanto basti): con l’accento sulla finale, come Gardel, o come tante parole del lunfardo. A differenza di Gardel, Loustau non viene dalla Francia; ma, come il lunfardo, è di Buenos Aires, anzi di Avellaneda. Come Gardel, è elegante e popolare; come Gardel, il fisico lo frena: il cantante tolosano è troppo grasso per essere un tanghero credibile, Loustau, invece, Loustau è piccolo e gracile, e per questo al Racing lo scartano.

Dovrà arrivare un altro argentino alla seconda, un argentino così argentino da potersi permettere il fatto di essere nato in Europa, Renato Cesarini da Senigallia, per vedere e capire Loustau. Il centrocampista esile e assurdo diventa un’ala sinistra, uno wing come dicono in Argentina: e presto diranno un grande wing, e poi diranno il più grande wing argentino di sempre (scusate se è poco). Le folle lo chiamano Chaplin, uno buffo, esile, improbabile, un altro che, come Loustau, è però il più grande di tutti.

Eppure Loustau, così grande, torna piccolo quando c’è da diventare un pezzo di un meccanismo più vasto e bello: è la macchina, anzi la Maquina, quella che gioca soltanto 18 partite e che pure rende il River Plate una meraviglia per più di dieci anni (e otto campionati vinti). Per via delle follie europee non può giocare il Mondiale del 1946, in cui la sua Argentina straripante avrebbe certo fatto bene, e anche per questo è un mito più argentino che mondiale. Ma, per l’Argentina, è un mito vero: come la Maquina, come il lunfardo, come Gardel, “Chaplin” Loustau appartiene a Buenos Aires e di tutta la nazione. Come il lunfardo, come d’altronde l’Argentina intera, Loustau, con quel nome francese, converte i suoni europei, e il gioco degli europei, in una storia propria. E ne fa un’epopea, una leggenda, una Maquina.

Silvio Marzolini

Non è privilegio da tutti potersi riconoscere in una statua all’interno del Museo de la Pasión Boquense, quella sorta di genius loci del sentimento xeneize stuato all’ombra della Bombonera. Lo possono fare solo pochi eletti, tutti grandissimi, iconici, inimitabili: oltre a Diego Armando Maradona, più scontato di un gol di Martín Palermo sotto la Doce, ci sono proprio il Titan, Juan Román Riquelme, Guillermo Barros Schelotto, Antonio Rattín, Angel Clemente Rojas, ma forse Rojitas vi suona più familiare, e dal 2015 pure Silvio Marzolini. Doppelgänger sudamericano di Giacinto Facchetti, terzino propulsivo, ma non indisciplinato, Marzolini ripiegava come un argentino e stantuffava senza soluzione di continuità alla maniera dei brasiliani. Sempre di corsa, naturalmente: bel problema anche per i fotografi. Bello e impossibile come un attore hollywoodiano e slanciato come un maratoneta, faceva strage di riconoscimenti così come di cuori, anche quelli degli inglesi, che nel ‘66 lo hanno nominato miglior terzino del loro Mondiale.

Erano impazziti vedendolo giocare sempre a testa alta, aggraziato come un Dio, con un portamento ed un’eleganza da far invidia al miglior Honorè de Balzac. In patria, invece, col Boca Juniors ha vinto cinque campionati, diventando un’icona immortale a La Ribera. Uno di questi festeggiato addirittura nella cancha del River Plate, che per risparmiarsi l’umiliazione della vuelta olimpica azul y oro in casa propria aveva pensato bene di azionare gli irrigatori del Monumental. Gli hinchas millonarios pensavano di garantirsi un po’ di tranquillità, ma non avevano fatto i conti con la caparbietà di Marzolini: punzecchiato dal getto degli idranti al massimo della pressione, il giro di campo di campo se lo fece da solo, trotterellando con le braccia alzate in mezzo a un oceano di insulti. L’eleganza si, ma fino a un certo punto.

Javier Mascherano

Battere un rigore sul 5–1 contro un Osasuna già retrocesso non è proprio un’impresa. Eppure il pallone pesa moltissimo per Javier Mascherano, perché tutto il Camp Nou lo segue mentre si fa il campo e si avvia sul dischetto. L’argentino tira centrale, Sirigu si tuffa e il risultato cambia: 6–1 e primo gol di Mascherano con la maglia del Barca. In sette anni sono riusciti a fare gol tutti, non lui. Non ce l’ha fatta con Guardiola, quando segnava pure il magazziniere. Dal 2008 al 2017 senza gol, contando anche l’esperienza al Liverpool. Poi il contentino, un po’ come quando si fa battere il rigore del 20–1 a calcetto al portiere.

Eppure dietro quel penalty c’è molto di più: lo testimoniano Iniesta e Suarez che lo guardano dalla panchina ed esultano con lui e con i 100 mila del Camp Nou. Mascherano è stato per il Barcellona molto più di un Jefecito, con quell’abbreviazione che non si è mai meritato. Preso dal Liverpool nel 2010, al Barcellona fatica a imporsi perché Guardiola gli preferisce Busquets. Lo spagnolo è perfetto davanti la difesa, Mascherano non riesce a dettare i tempi come vuole Pep. L’intuizione arriva qualche mese più tardi, complici gli infortuni in difesa, e gli cambia la carriera. Diventa centrale, sia a tre che a quattro. La porta avversaria si allontana sempre più, ma El Jefecito diventa finalmente El Jefe. Il fisico non è colossale, la tecnica nemmeno, eppure Mascherano riesce sempre a bloccare gli avversari. Non sarà il miglior difensore della storia, ma la retroguardia culé segue il suo respiro.

E lo stesso fa l’Argentina, con cui gioca 141 volte, a meno quattro dal recordman Javier Zanetti. Che sia blaugrana o albiceleste, la maglia è sempre sudata, come dicono gli allenatori di provincia. Solido, questo probabilmente è l’aggettivo più calzante per Mascherano. Come poteva un giocatore così imporsi tra River, Liverpool, Argentina e Barcellona in mezzo a fuoriclasse come Torres, Messi, Neymar, Eto’o e compagnia bella? La risposta sta nel rendimento. Sempre al massimo, sempre attento, mai mediocre. Per riuscire a imporsi in un modo di fenomeni bisogna fare di necessità virtù. La carriera del Jefe è una continua battaglia alla normalità.

Lionel Messi

Rosario, 24 giugno 1987. Quando nasce Lionel Messi sono passati un anno e due giorni dall’apparizione del “Barrilete Cosmico” all’Azteca, dal gol del siglo e dalla Mano de Dios, e nessuno può ancora sapere che quel bambino sarà quanto di più vicino a Maradona l’Argentina e il calcio intero avranno mai visto in 30 anni.

Lionel Messi poteva restare un sogno incompiuto, un desiderio inespresso, una allucinazione confinata in un universo parallelo e distinto. Piccolo, troppo piccolo per sfondare a calcio, senza un club disposto a pagare quella costosa cura ormonale per permettergli di crescere. Se oggi abbiamo Messi è merito di papà Jorge, che ha preso il suo piccolo e l’ha portato a Barcellona. E di Charlie Rexach, che ha saputo convincere la dirigenza blaugrana a fare uno sforzo economico notevole per un ragazzino di 13 anni. Da quando è iniziata la sua epopea, critici ed esperti di tutto il mondo litigano per stabilire se sia o meno il più grande di tutti i tempi, se sia meglio o no di Cristiano Ronaldo, se possa essere accostato a Maradona. E nessuno, probabilmente, avrà mai una risposta definitiva al quesito.

Quello che conta, però, è che quando Messi avanza palla al piede si ha la sensazione che qualcosa di magico stia per accadere. A ogni tocco, a ogni passo. In un mondo in cui i fuoriclasse si sono misurati a colpi di trick e giocate spettacolari per cui inventarsi ogni volta un nome nuovo, Messi ha votato la sua vita a un solo scopo: il gol. Poco importa che a segnarlo sia lui (cosa che capita piuttosto spesso) o un suo compagno di squadra. Guardate una giocata di Leo: nessun doppio passo, nessun elastico, mai una rabona. Persino il tunnel (caño, pardon) e il colpo di tacco — unico vezzo di uno stile di gioco lineare — sono subordinati alla creazione della superiorità numerica. Messi si limita a spostare la palla da destra a sinistra e da sinistra a destra, tutti lo sanno, il problema è che lo fa a una velocità fuori dal comune, col pallone che non si allontana mai più di 30 centimetri dal suo piede, toccandolo anche tre o quattro volte nello spazio di un secondo. Messi è prevedibile ma immarcabile, è leggibile ma non arginabile. Messi è la cosa più vicina all’essenza pura del calcio che abbia mai toccato un pallone. Messi è Messi, e tutto il resto non conta.

Diego Milito

C’era una volta la principessa Beneamata che disponeva di un manipolo di abilissimi soldati. Essi erano tornati a vincere le più importanti battaglie sul suolo nazionale dopo anni di umiliazioni e derisioni, restituendo onore e prestigio al loro esercito. Ma Beneamata si era quasi stufata di conquistare sempre gli stessi trofei e chiamò a corte lo stratega José: “Basta, di battaglie in patria ne abbiamo vinte abbastanza”, tuonò la principessa. “Ora voglio allargare i miei confini”. E così un bel giorno fece il suo ingresso a palazzo il principe azzurro, anzi nerazzurro, come i colori sullo stemma reale: aveva gli occhi cristallini e un accento sudamericano, anche se parlava poco. “Vostra maestà, farò del principe Diego un valoroso soldato”, bisbigliò José a Beneamata.

Il nuovo arrivato dimostrò che le parole dell’astuto stratega non erano un vano proclama: sul campo di battaglia diede saggio delle sue straordinari doti e con un colpo da maestro consentì di portare brillantemente a termine la difficile campagna d’Ucraina, quando alle porte di Kiev il gelo sembrava intirizzire l’esercito dei Nerazzurri. Diego rubò il cuore della principessa con quattro gesti d’abile cavalleria in poche settimane: una sua micidiale incursione regalò il primo trofeo in una ricorrenza infausta per il popolo di Beneamata, con una stoccata mise in ginocchio l’esercito guelfo e soprattutto regalò il trofeo più ambito con un paio di fendenti in una calda notte a Madrid. I Nerazzurri, quarantacinque anni dopo, erano tornati a conquistare l’Europa. E vissero tutti felici e contenti. Anzi no, perché a dispetto delle sue gesta Diego Milito — per tutti, semplicemente, ‘el principe’ — nel 2010 non fu nemmeno inserito nella lista dei candidati al Pallone d’Oro. Una bestemmia che ancor oggi grida vendetta.

Gabriel Milito

Gabriel Alejandro Milito è una creatura squisitamente argentina, o forse lo è diventato. Per meglio dire, e per essere più chiari: argentino lo era, come d’altronde il fratello Diego — che occorre citare subito, perché sarà importante in questa storia — fin da subito, ma squisitamente argentino, tanto argentino da risultare borgesiano. Gabriel Milito è una persona compiuta e un ottimo difensore, per un certo periodo di tempo, diciamo fino ai 27 anni e a tutta la permanenza a Saragozza. Poi passa al Barcellona, in altri termini la sua carriera dovrebbe ragionevolmente decollare, e invece finisce. Cosa succede? Gli infortuni, si risponderà, ed è molto razionale. Ma, a un livello un po’ più profondo, un po’ più, in un certo senso, veritiero: che succede?

Succede Diego, succede l’altro Milito. Diego Milito, che ha un anno più di Gabi, quando arriva al Saragozza è, tuttavia, il fratello minore. Ha promesso molto, sia al Racing sia al Genoa, ma non ha potuto confermare granché; mentre Gabriel, che pure è già stato scacciato una volta dalla gloria — al Real Madrid, nel 2003, lo prendono e poi lo rifiutano per un ginocchio infortunato; un ginocchio di cui, in quattro anni a Saragozza, non si accorge nessuno -, Gabriel è una certezza.

Ma forse il problema è proprio il Saragozza, o meglio la convivenza. Finché erano lontani i due potevano esistere autonomamente, ognuno per fatti suoi; invece a Saragozza qualcosa dev’essere capitato, qualcosa di argentino e di borgesiano. I due fratelli, le due gemme del Saragozza, diventano una cosa sola, un gioiello solo, anzi una sola moneta: ma non si tratta di una moneta normale, bensì di quel disco con una sola faccia che proprio Jorge Luis Borges ha scoperto e descritto. E dal 2008 in poi Diego, che trionfa in Italia e poi in Europa, diventa l’unica faccia visibile di quella medaglia, mentre Gabriel scompare, letteralmente scompare, giocando una manciata di partite in quattro anni a Barcellona, dimenticato da tutti, quasi fosse divenuto opaco, quasi il suo volto e il suo corpo non fossero più visibili. Alla fine di quei quattro anni a faccia in giù, Gabriel viene accostato al Genoa: da lì, forse, da lì sarebbe potuto ricominciare tutto, annullando la stessa magia che aveva permesso a Diego di diventare l’unico Milito.

Gabriel però non se la sente, non ci crede, forse non ha capito, forse invece ha compreso tutto e non vuole causare rivolgimenti. Torna a casa, ad Avellaneda, e si ritira presto, concludendo una carriera a cui, sicuramente, è mancato qualcosa. O forse siamo noi che non l’abbiamo visto.

Maximiliano Nicolás Morález

Un proverbio cinese dice che “l’altezza che conta è quella che riesci a raggiungere, non l’altezza che hai tu”. Se lo sarà ripetuto centinaia di volte Maximiliano “Maxi” Nicolás Morález, el Frasquito. Molti di voi conosceranno il perché di questo soprannome tipicamente argentino. Quello che non tutti fanno è immedesimarsi in lui. Quando nell’estate del 2011 un medico sociale dell’Atalanta registra la sua altezza (1,59 m) e le sue condizioni fisiche (in ottima salute ma rientra tra i primi 5 giocatori più bassi ed esili della storia della serie A) molti storcono il naso.

Mi ricorda il giudizio, analogo, che fu dato ad un altro argentino nato in una villa di Lanùs nel 1960: «es une nano, lo sabìa!». El Frasquito avrà pensato che non c’era abbastanza spazio nel suo corpo per contenere sia il coraggio che la paura: «Al diavolo! Fatevi sotto!». Sfida i suoi avversari, sforzandosi di ignorare che non ha il fisico per farlo. La classe potrebbe non bastare. Quindi, Maxi pensa che appoggiarsi ad un gigante potrebbe solo aiutarlo a migliorare il suo rendimento, così come quello della sua squadra. Lo capiscono al Velez Sarsfield affiancandogli el Tanque Silva. Lo intuiscono a Bergamo dove gli affiancano El Tanque Denìs. Maxi Morález non segna molto ma fa segnare a ripetizione. Crea spazi lì dove sembrano non esserci. Genera occasioni nitide tra linee difensive schierate e aree di rigore intasate. Nel momento di massima forma saluta tutti e vola in Messico, intuendo la nascita del nuovo mondo del calcio a occidente. Ora è in MLS al New York City. Ci gioca un talento italiano che gli somiglia fisicamente. Che abbia smesso di cercare un Tanque dietro il quale proteggersi? Che abbia smesso di cercare un gigante sul quale salire per guardare lontano?

José Manuel Moreno

Nato nel 1916 a due passi dal tempio pagano della Bombonera, “El Charro” non ha mai vestito la maglia del Boca Juniors; anzi, farà invece la storia con quella del River Plate. Basterebbe questo per inquadrare il personaggio “El Charro”, eclettico esterno d’attacco della famosa Maquina che nella prima metà degli anni ’40 fece tremare l’Argentina futbolista. Fumava, beveva, tirava tardi quasi ogni notte, ma le sue prestazioni in campo non ne risentivano: El Charro abbinava infatti atleticità fuori dal comune e lucidità, qualità che lo rendevano tanto letale sottoporta quanto determinante per la manovra dei millionarios. C’è chi lo ha definito un “regista d’attacco”, ma Moreno era davvero un attaccante completo, in grado di offendere, ripiegare, rifinire o concludere l’azione sempre con la stessa abilità. Per fisicità ed abilità palla al piede spesso era schierato anche come prima punta, ma fondamentale per lui era potersi considerare libero di esprimersi. In anticipo di circa trent’anni sulle sregolatezze dell’iconico George Best, nonché di quasi un secolo sull’evoluzione tattica e concettuale del ruolo di esterno d’attacco, non deve stupire che ancora oggi in patria venga definito come il calciatore sudamericano più forte di sempre. Anche più di Maradona e Pelé, anche più di Messi e Neymar, di Di Stefano e Caniggia…

Mateo Musacchio

Appena atterrato a Malpensa andava un sacco di moda il format “Cinque cose da sapere su Musacchio” ma è bene ricordare che Mateo, uno dei maggiori intellettuali argentini mai visti in Italia, ha anche all’attivo delle pubblicazioni di spessore. Ne cito cinque per la rubrica “Cinque libri scritti da Musacchio”:
1. Io non sono Mattia Mustacchio, scritto a causa dei continui fraintendimenti;
2. A me ricordi Portocannone, per ricordare le sue origini italiane
3. Infortunio lo dici a tua sorella, trattato esemplare su come gestire le accuse di fragilità
4. Marcelino, racconto sulla rissa con l’ex allenatore con conseguente esonero dello stesso
5. Mobbasta, più che un libro un manifesto per chiedere di smetterla con le foto della sua ragazza
Più bravo con la penna che con i piedi, rimarrà per sempre avvolto dal fascino del centrale albiceleste, che hai sempre la speranza che si dia una svegliata e diventi il nuovo Walter Samuel.

Jorge Mario Olguín

Una volta Maradona cantò in TV un vecchio tango del 1943, El sueño del Pibe, cambiandone il testo e passando in rassegna i nomi che più accendevano la fantasia dei ragazzini argentini in quel 1982: “Diventerò un Maradona, un Kempes, un Olguín”.

Come ci fosse arrivato Jorge Mario Olguín, uno zaguero (difensore), nell’Olimpo di quelle fantasie è presto detto. Difensore centrale di grande tecnica — anche se Menotti in nazionale lo utilizzò più spesso come terzino destro — Olguín preferiva l’arte dell’anticipo a quella del tackle, e non disdegnava di portar palla con grande sicurezza. La capacità nel tiro dalla media distanza e nei calci piazzati gli lasciò in dote una cinquantina di gol nella carriera divisa tra San Lorenzo, Independiente e Argentinos Juniors: solo con la maglia della Selección non trovò mai la rete. Segnò uno dei rigori nel decisivo replay che portò la Libertadores all’Argentinos Juniors nel 1985, mentre con la nazionale giocò due Coppe del Mondo: la fallimentare campagna del 1982 e il trionfo del 1978.

Ariel Ortega

La prima volta che vidi Ariel Ortega (anzi, Ariel Arnaldo Ortega: quando si è bambini i nomi dei calciatori, specie quelli sudamericani, si tende a pronunciarli per intero, per far vedere che si sa) fu nella finale di Coppa Intercontinentale del ‘96 tra River Plate e Juventus. In quella che si sarebbe scoperto poi essere il manifesto di una carriera, si segnalò per un tentativo di pallonetto a Peruzzi ai limiti dell’irreale che nessuno ricorda visto che, traversa a parte, qualche minuto Del Piero si prese partita, coppa e auto del migliore in campo. Lo rividi, poi, ai Mondiali del 1998, divertito e divertente, mentre irrideva con un pallonetto il povero portiere jamaicano, certamente meno bravo e fortunato di Peruzzi.

Fu allora che, in una visione fortemente iconoclasta del calcio e della vita (ammesso che un bambino di 10 anni abbia familiarità con il concetto di iconoclastia), nel trovarmi di fronte a un diez argentino dal tocco morbido e dai capelli arruffati, mi venne da pensare “ok, è il nuovo Maradona”. Ortega, in realtà, sarebbe poi finito nel tritacarne (lo stesso che ha inguaiato Aimar, D’Alessandro e parzialmente Riquelme, sfiorando persino Messi) di chi, tra fine anni ’90 e inizio 2000, cercava a tutti i costi l’epigono di uno che non passerà mai più. Nel caso di Ariel, poi, la sinistra tendenza a disfare con la testa quello che faceva con i piedi ha contributo al progressivo viaggio nell’oblio da Valencia a Buenos Aires (passando anche per Genova e Parma), cullando il mito dell’eterno ritorno. Al River Plate, mica di Diego.

Pablo Daniel Osvaldo

Un po’ italiano un po’ argentino, un po’ calciatore un po’ rocker, decisamente meglio come punta che come frontman, ha voluto essere troppe cose per essere davvero qualcuno. Troppo bizzoso per stare in uno spogliatoio senza fare casini, troppo stonato per fare il cantante, il suo genio si mostrava solo sul rettangolo verde, quando univa estro e atletismo sfrontato, classe e voglia di superiorità. Era forte in quei gesti tecnici che potevano offendere in tutti i sensi: pallonetti, tiri insidiosi, girate, rovesciate, gol pesanti, gol da ex, prepotenze tecniche varie. Lo faceva per sé stesso, mica per la squadra. Ha regalato gioielli, ma nessuno li ha potuti apprezzare.

Rodrigo Palacio

Dai, arriviamo subito al punto. La treccina è, semplicemente, un modo clamoroso di far fronte alla pelata. Troppo facile sarebbe stato essere Zidane, che ha sempre avuto una bella forma della testa e, in virtù di questa imperfezione, è sempre risultato un bell’uomo pure agli occhi delle nostre madri: per lui novanta minuti di Mogwai, per Rodrigo dieci ore di Ixindamix. Perché questo mi è sempre sembrato, Palacio: un tekno-raver che ha dimenticato il dogo sottocassa per andare a smazzare le ultime bags di ketch agli ingordi delle nove di mattina.

Quando conobbi Tévez lo sfregiato, nel giorno della “zolla” di Billy Costacurta e dell’inutile gol di Tomasson, avevo — come molti altri milanisti, quel giorno — marinato la scuola; quando conobbi i guizzi di Palazzo, invece, riuscivo solo a pensare che Letteratura Italiana era stato un esame più tosto del previsto e che Cofferati aveva tolto la Street, che Guazzaloca — per assurdo — lo rimpiangevano tutti e che i calciatori sono i soli a subire meno il trauma, tutto maschile, dello stempio o della chierica. Non avremmo mai amato Lombardo, altrimenti, e Robben avrebbe vinto per certo almeno un Mondiale e una Champions in più. Non restai sorpreso nemmeno un po’ delle annate di Rodrigo tra Genoa e Inter; fu solo a causa sua che, nel corso della Finale mondiale 2014, tra un Klose e l’altro, mi successe di empatizzare brevemente con i rivali biancazzurri.

Martín Palermo

Martín Palermo intanto è il giocatore –credo- con la testa più grande del mondo. Poiché non si è mai vergognato di questa cosa, si è sempre tinto i capelli di giallo in modo che sembrasse ancora più grande. Potremmo anche fermarci qua con la storia bellissima del calciatore con i capelli tinti di giallo sulla testa pià grande del mondo, invece Martín Palermo non voleva solo fare la storia, voleva fare la leggenda, e ci si è impegnato una carriera per raggiungere lo status di calciatore eroico. Sul serio amici alieni, tutta la sua carriera è leggendaria, lui da solo potrebbe fermarvi a mani nude, rendendo inutile la presenza anche di altri dieci qualsivoglia compagni. Per farvi capire chi è Martín Palermo (sentite come suona bene il nome, ditelo a voce alta, riempitevi le guance e masticate bene queste due parole, Martìn Palèrmo) vi dirò che una volta, in una partita di Copa America, con la sua nazionale, riuscì a sbagliare non uno, non due, ma ben tre rigori, uno dopo l’altro, con la tigna e la disperazione che solo uno con il capoccione grosso e biondo come il suo poteva avere.

Una tripletta al contrario che avrebbe distrutto la carriera di chiunque; invece lui si intignò, come solo i capoccioni sanno fare, e risorse come un cristo colla testa grossa, andando a fare mezze carrettate di gol in Spagna: ma anche lì il leggendario Martin Palermo subì un’ingiustizia tanto atroce quanto grottesca, ritrovandosi la gamba fratturata dal crollo dei tabelloni pubblicitari dello stadio sotto i quali lui stava esultando dopo un gol. E poi gol, infortuni, gol e infortuni e poi la medaglia al valor leggendario: Maradona –nei panni del mister della nazionale- richiama Palermo per l’ultima partita decisiva delle qualificazioni mondiali; lo richiama dopo dieci anni da quella tripletta di rigori falliti Quell’Argentina è una delle peggiori Argentine messe in campo nella storia delle Argentine, nonostante i Messi gli Higuain ecc. In vantaggio di uno striminzito golletto, sotto una bufera d’acqua e di vento, l’Argentina subisce il pareggio al 90’. Maradona è disperato, l’Argentina è fuori dai mondiali e lui non sa che fare e allora butta in mezzo il nostro capoccione biondo.

Calcio d’angolo al 93’, dalla televisione non si vede davvero niente per quanta acqua sta venendo giù, la palla flippa in area di rigore e poi sta uscendo fuori dal campo rimbalzando sbilenca, l’arbitro ha già il fischietto gocciolante in bocca e tutti i giocatori sono statue di stracci bagnati, le lagrime di gioia o di disperazione degli uni e degli altri si mischiano all’acqua del diluvio, quand’ecco che dalla cascata d’acqua spunta un piedone in spaccata, e dietro il piedone c’è il capoccione biondo, e la palla finisce nelle paludi della rete del perù e le lagrime di gioia diventano di disperazione e viceversa e nessuno crederà mai a questa storia ma fossi in voi starei molto attento amici alieni, perché questa è la storia di Martin Palermo.

Daniel Passarella

Vedersi affibbiato il soprannome di caudillo, specie se si è dell’America Latina, non è proprio da prendere come un complimento. Quella parola è stata usata nella storia per designare leader militari populisti e, in taluni casi, pure sanguinari aguzzini. Non che Daniel Passarella, il libero dal gol facile, godesse della fama dell’agnellino: in campo sfoggiava un temperamento da gran condottiero e ricorreva sovente alle maniere forti — chiedere all’olandese Neeskens, uscito con due denti rotti dalla finalissima dei Mondiali 1978, o al raccattapalle di Marassi che si prese un paio di calcioni -, in panchina ha imposto ai tempi dell’Argentina una disciplina da caserma tanto da punzecchiare Batistuta e Redondo per le loro folte chiome (“I capelli lunghi tolgono concentrazione ai giocatori perché in campo perdono tempo a sistemarseli”, parole sue). E comunque è tuttora l’unico argentino ad aver vinto due Mondiali. In Italia i tifosi della Fiorentina lo ricordano con affetto per le eccezionali stagioni in Toscana e per i gol alla Juventus, quelli del Parma un po’ meno per le cinque sconfitte consecutive da allenatore e gli altrettanti miliardi di lire presi come buonuscita dopo il tremendo filotto.

Javier Pastore

Non ho capito del tutto Javier Pastore fino a quando la mia amica Elena mi ha parlato del concetto, molto francese, del “le kiff”, ovvero il momento-piacere fine a sé stesso scevro da qualsiasi utilità. Solo allora ho compreso che dal Flaco non ci si poteva (e doveva) attendere niente più di una giocata dalla bellezza atemporale ed eterea, non necessariamente collegata al momento decisivo di una partita, di un campionato, di una stagione (anche se i suoi quarti d’ora di celebrità se li è presi, eccome).

Tutto del suo essere è concepito in funzione di quell’attimo di bella “giovinezza che si fugge tuttavia” perfettamente incarnata dalla sua giocata classica, pettinando il pallone con la suola per poi cambiare passo in una frazione di secondo, lasciando l’avversario incerto se inseguire oppure applaudire e i tifosi in balìa dell’eterno dilemma tra ragione e sentimento, tra testa e cuore, tra la ruleta oggi e il campionato domani, tra il divertente e l’utile, tra il bello che sfiorisce e il concreto che dura.

Forse ha ragione Eric Cantona: “Per me il miglior giocatore al mondo, il più entusiasmante, è Javier Pastore. Ho guardato delle partite ultimamente solo per vederlo giocare, per vederlo fare quei passaggi che sa fare solo lui. Il calcio è un gioco di interazione, è una delle ragioni della sua popolarità, e Pastore riesce a fare cose sorprendenti. E’ molto creativo, il più creativo al giorno d’oggi. E io amo i giocatori così”. E noi con lui.

Adolfo Pedernera

Adolfo Pedernera ha legato la sua carriera a due squadre in particolare: il River Plate e i Millonarios.

Due epoche d’oro, La Maquina argentina e l’El Dorado colombiana. In mezzo sempre lui, una boa d’attacco divenuto poi un trequartista o falso nueve, come si direbbe oggi. In realtà una sola definizione lo costringe in un ruolo non suo: era un attaccante e al tempo stesso un regista in un calcio fuori dal tempo.

Vince tutto con il River Plate, poi viene sorpassato nelle preferenze del club da un altro giovane attaccante, Alfredo Di Stefano. I due si inseguono e si ritrovano nuovamente quando il calcio argentino migra a fine anni ’40 in Colombia. Colpa di Peron e dei soldi di Bogotà.

Ai Millionarios convivono per 4 stagioni finché Pedernera non decide di chiudere con il calcio in Argentina, all’Huracan, mentre Di Stefano sceglie l’Europa, il Real Madrid e la gloria eterna. Tutti infatti conoscono e ricordano Di Stefano, in pochi il grande Adolfo Pedernera. Pochi, ma tra questi c’era lo stesso Di Stefano: “Pelè, Maradona o io? Chi è stato il migliore tra noi? Si vede che non avete mai visto giocare Pedernera”.

Roberto Perfumo

Lo conoscete quel giramondo di Bruce Chatwin? Dai, oh, quello di “In Patagonia”, ci siamo capiti. Lui una volta ha scritto che per conoscere la storia di Buenos Aires basta semplicemente sfogliare le pagine del suo elenco telefonico: Romanov, Rotschild, Rommel, de Rose. Tradotto: russi, tedeschi, inglesi, francesi.

Uno che si chiama Roberto e di cognome fa Perfumo, invece, può provenire solo da una parte: dall’Italia. Mica una novità: dopotutto, come diceva De Cecco, siamo stati un popolo di migrati, ci siamo sparpagliati ai quattro angoli del globo, ma solo in due paesi costituiamo la maggioranza della popolazione. Quali? Che domande: Italia e Argentina, ça va sans dire, due mondi cosi lontani, eppure così vicini. Deve averlo pensato pure Roberto Perfumo quella volta che gli Azzurri si li è ritrovati di fronte in un Mondiale. E non c’ha capito più nulla, segnando nella porta sbagliata: quando sei argentino di Cuneo — come lo ha definito Giovannni Arpino in quel capolavoro che è “Azzurro Tenebra” —, si sa, il cuore prende a batterti a mille all’ora, la salivazione si azzera e può capitare di confonderti. Mica c’è da vergognarsi. Anzi, semmai è un attestato di umanità.

Ma non affezionatevi troppo all’idea. E non fatevi nemmno ingannare dall’apparenza di un patronimico dall’aria così vagamente gentile. Colonna portante, e mica solo in senso metaforico, del Racing Avellaneda campione del mondo nel 1967, Roberto Perfumo è stato uno dei difensori più forti della storia dell’Albiceleste. Avete presente il prototipo dello zaguero argentino, tutto garra e huevos? Aggiungeteci anche una tecnica eccellente, eredità di un passato da regista, o da cinco come si dice Argentina, e otterrete Roberto, un lider maximo come lo era stato Colman prima di lui e come lo sarebbe stato Passarella dopo: erculeo e indistruttibile tipo un carro armato, smaliziato come ogni caudillo che si rispetti e audace alla maniera di un guacho impertinente delle pampas. Insomma uno di quelli che, dopo averli osservati governare ogni tipo di persona o cosa con la stessa naturalezza con cui respirano, fai fatica a convincerti su come diavolo sia possibile che un essere umano possa contenere tutto quel carisma. Ma d’altronde se ti chiamano “Mariscal” mica può essere un caso.

Nery Pumpido

Mocho è stato l’arquero del Mondiale ’86, quello vinto dall’Argentina in Messico, quello che il popolo Albiceleste sente di più, quello di Maradona, della Mano de Dios e dei tedeschi che ti rimontano in finale. C’era anche nell’82 e nel ’90, ma nel primo non ha giocato e nel secondo ci sono state solo sfortune (l’errore in porta nel gol-vittoria del Camerun e un infortunio che ha di fatto concluso la sua carriera in nazionale). Ha giocato in Europa e per il River Plate, ma è rimasto legatissimo a Santa Fe, la sua terra di origine: ha iniziato e concluso sia la carriera da giocatore che quella da allenatore con l’Unión de Santa Fe.

Antonio Rattín

El Rata è uno di quei giocatori che ha cambiato il corso della storia del calcio.

Non solo grazie alle indubbie qualità tecniche, che gli hanno permesso di esordire giovanissimo in maglia xeneizes, l’unica della sua vita, in un Superclasico del 1956. È stato il carattere a renderlo grande. L’umiltà di un gregario e la regalità di un 5–10 nato per essere capitano.

Se nasci a Tigre Partido conosci l’umile povertà nella sua forma più pura e “positivamente” sincera. Non ti è concesso mollare, tirarti indietro, e soprattutto, anche quando ti allontani da casa, non riesci (e non puoi) mai dimenticarti da dove sei partito. Così quando va alla Bombonera per esordire contro il River Plate, arriva allo stadio con una Chevrolet 47 guidata da un vicino assieme a un’altra decina di amici/tifosi.

Il suo nome però è e resterà nella storia per una partita. Anzi per 10 minuti di una partita. È il Mondiale del 1966, l’Argentina di capitan Rattin sfida l’Inghilterra, i futuri campioni, nei quarti di finale. Dopo 25 minuti avviene l’evento che rende quella partita per gli argentini “el robo del siglo” e che spinge il Ct Rasmey a definire gli avversari “animals”. L’arbitro tedesco Kreitlein, impaurito dalle proteste di Rattin, decide di cacciarlo dal campo. Tutto avviene a voce, nessun cartellino (non esistono e proprio da qui si inizia a capirne la necessità). Rattin vuole un interprete, non capisce il motivo dell’espulsione e non lascia il campo per 10 minuti. Deve essere scortato via, ma la rabbia contro Kreitlein lo spinge a non andarsene del tutto. Da “regale” centrocampista, decide di sedersi sulla stoffa rossa poggiata a bordo campo di Wembley destinata alla famiglia reale. Il pubblico inglese lo vive come un affronto e viene cacciato via, stavolta davvero, a suon di oggetti. “God save Rattin”.

Fernando Redondo

Cinque è la metà di dieci, il cinque è la metà del dieci, il cinque è legato al dieci. Un rapporto matematico che è anche umano e tecnico. Nel calcio argentino, poi, tutto numerologia, soprannomi e rivalità più o meno sopite nel tempo, la connection tra volante ed enganche è il topos narrativo per eccellenza. Per questo non esiste modo migliore per raccontare Fernando Redondo che attraverso il suo rapporto con Diego Maradona: IL cinque e IL dieci di un’Argentina che non c’è più, di un calcio che non c’è più.

A unirli una visione del gioco non comune, in una dimensione in cui prevale l’istinto, il tocco di prima, la velocità di piede e di pensiero indipendente dall’effettiva capacità aerobica; a separarli, l’estrazione sociale e un modo di stare in campo che poi era un modo di stare al mondo. Una sfida sfacciata agli avversari e alla logica per Diego, una questione di logica trigonometrica da risolvere con l’eleganza e la levità di chi è superiore al limite della supponenza per Fernando. Tre istantanee, tra il 1993 e il 1995, a simboleggiare tutto: nella prima, in occasione di un Siviglia-Tenerife che, più che una partita di Liga spagnola, è il confronto tra le due opposte filosofie calcistiche di Bilardo (allenatore degli andalusi) e Valdano (che siede sulla panchina canaria insieme ad Angel Cappa), Redondo entra su Maradona in maniera sufficientemente dura da scatenare un parapiglia in cui viene espulso Pizzi. Diego, però, è furente e protesta con l’arbitro facendogli notare (sbagliando) che a essere cacciato avrebbe dovuto essere proprio il cinque.

Un gesto inspiegabile solo per chi non conosce il sottobosco. Qualche tempo prima Redondo aveva rinunciato a vestire la maglia della Selección per poter completare i suoi studi in Economia: un affronto intollerabile per Diego, livoroso come e più di Re Lear verso i pretendenti alla sua corona: “Ognuno è libero di fare quello che vuole, ma non mi è piaciuto che quel ragazzino si sia fatto fotografare su El Grafico con i libri in mani di fronte all’università: che cosa vuole dimostrare? Che noi siamo asini e che lui è un genio?”. Nella seconda, a Usa ’94, in una Nazionale devastata dalla squalifica del Diez prima e dall’eliminazione per mano della Romania poi, pare sia stato Redondo a esprimere il sentimento di una squadra, anzi di un popolo intero: “In campo ti cercavo, ma non riuscivo a trovarti: ero abituato ad averti davanti a me e ho continuato a giocare come se tu fossi lì. Ma tu non c’eri e io non avevo nessuno a cui passare il pallone”.

Nella terza Fernando finisce in mezzo all’oggi quarantennale rivalità tra Maradona e Passarella. Il suo non voler sottostare al diktat del taglio di capelli obbligatorio che il caudillo, da ct della Selección, aveva imposto ai reduci dal mondiale americano gli valse la difesa di chi, a Passarella, aveva sottratto la fascia di capitano quasi dieci anni prima: “Una volta è la rinoscopia, una volta il taglio di capelli… finirà che i ragazzi si gratteranno una palla e Passarella gliela farà tagliare”. Tutto quello che sarebbe venuto dopo nella carriera di questo Hidalgo prestato all’arte pedatoria, di quel che è stato al Real, di qual che non sarebbe potuto essere al Milan, è quasi secondario. Bastano, infatti, queste (poche) righe che gli sono state dedicate qui: “Exquisito y elegante para trasladar la pelota”. Davvero vi serve altro? Nel caso…

Juan Román Riquelme

“Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi”. Con le parole di Jorge Valdano la descrizione potrebbe finire qui, ma non è possibile arronzare l’ultimo 10 nato su questo pianeta.

Riquelme nasce a Buenos Aires, nel quartiere La Boca, il barrio genovese della capitale argentina dove la camiseta azul y oro non è un capo, è una divisa con cui fare una missione, portare nel mondo il Verbo della religione del Calcio.
Uno come Riquelme non può non farsi notare con il pallone tra i piedi, nato per giocare al calcio e stare zitto, un trequartista che danza con il ritmo del tango sul prato verde elevando la pelota non più a semplice oggetto, ma ad amante focosa con cui fare giravolte sensuali su una pista tutta verde davanti ad 80mila persone. I primi a notarlo sono gli osservatori dell’Argentinos Junior (toh, anche lui), poi passa al Boca Junior per la bellezza di 800mila dollari vincendo la concorrenza spietata del River Plate ma tanto i Millionarios avrebbero perso in partenza, i genitori lo avevano avvisato: “Se indosserai quella maglia non verremo mai allo stadio a vederti giocare”. Che Boca sia.

All’esordio, appena maggiorenne, esce dal campo con un’ovazione della Bombonera affidando Riquelme al racconto mondiale, perché è un predestinato, e porterà ogni titolo nella bacheca gloriosa della squadra della capitale. La maglia numero 10 gli sta d’incanto e dopo il Boca arriva il Barcelona (Argentinos-Boca-Barcelona, film già visto) ma con Van Gaal non può sbocciare l’amore e l’olandese arriverà a dire la celebre frase “Con la palla al piede sei il miglior giocatore al mondo, senza ci fai giocare in dieci”. Il romanticismo che accompagna questo giocatore però impenna proprio in questo momento, perché vola al Villarreal, un piccolo club di una piccola città spagnola e lo porta in semifinale di Champions League trasformando el Madrigal nello Stadio San Paolo, facendolo esplodere come solo Diego sapeva fare.

Torna poi in Argentina, torna nel suo Boca per poi concludere la carriera lì dove tutto ebbe inizio, nell’Argentinos Juniors sprofondato in Serie B, prima di ritirarsi, dopo aver diviso pubblico e stampa, dopo aver scritto una carriera d’altri tempi, da sogno, dopo essere entrato in polemica con Sua Maestà Diego Armando Maradona, perché sì, la sua carriera ha camminato sulle sue orme, ma sono stati profondamente diversi, come un tanghero ed un ballerino di calisthenics, un Mudo ed un D10S, El Diez e l’Ultimo Diez. Ma chi dice che non si possono amare entrambi?

Carlos Angel Roa

Ci sono storie che bruciano intense e rapide come candele. Carlos Angel Roa è stato tutto, ma lo è stato per un tempo brevissimo. Attaccante, da ragazzo, prima di diventare portiere; predicatore avventista, in una parentesi lunga un anno all’interno della sua carriera; uomo di fede che crede nei miracoli, che ne ha saputo fare qualcuno tra i pali, che ne ha ottenuto uno nella vita. Al top, Roa, è rimasto solo due anni, ma in quel periodo è stato uno dei migliori al mondo nel suo ruolo.

Arrivato al Mallorca di Hector Cuper nel 1997, ha vinto una Supercoppa di Spagna e ha perso una finale di Coppa del Re con il Barcellona e una di Coppa delle Coppe — l’ultima di sempre — con la Lazio. Ha parato, soprattutto, tantissimo. Così tanto da guadagnarsi il Premio Zamora nel 1999. Ha parato persino il rigore decisivo contro l’Inghilterra negli ottavi di finale del Mondiale di Francia 98, in una delle sue 16 apparizioni con l’Albiceleste. E in quello stesso Mondiale è stato testimone del primo gol in nazionale di Michael Owen e del capolavoro griffato da Dennis Bergkamp ai quarti. Tra il 1999 e il 2000 la pausa per omaggiare Cristo, lui, Avventista del Settimo giorno, amico degli esseri umani e degli animali, vegetariano convinto al punto di guadagnarsi il soprannome di “lechuga”, lattuga.

Un anno intero dedicato allo spirito prima di tornare al Mallorca, ma senza più giocare il sabato, giorno di Dio, e solo per intraprendere il ramo discendente di una parabola che qualche anno dopo, quando era ormai all’Albacete, l’avrebbe portato a combattere e vincere un’altra partita ancora più importante, quella col cancro ai testicoli. Ora Roa prepara i portieri del Chivas di Guadalajara, agli ordini di un allenatore argentino, Matias Almeyda. E insegna loro a parare, sì, ma anche ad amare la terra che calpestano.

Maxi Rodríguez

A Lipsia è notte fonda. Sono le 23 passate e l’Argentina, dopo 97 minuti di gioco, è ancora incastrata sull’1–1 contro un Messico che non ha alcuna intenzione di mollare la presa. Sono gli ottavi di finale del Mondiale di Germania 2006, nell’Albiceleste gioca Riquelme, Crespo è uscito al minuto 76, Messi — che quel giorno compie 19 anni — è entrato all’84. Ma il lampo che accende quella notte è scagliato dal sinistro di Maxi Rodríguez, che va a recuperare una palla nella sua metà campo, la cede a chi ha il compito di sviluppare la manovra, e segue l’azione sulla fascia destra. Quando, qualche tocco e qualche secondo più tardi, Sorin cambia gioco con una pallaccia dalla sinistra, Maxi se la aggiusta con il petto, la lascia cadere e la calcia col mancino, non il suo piede migliore, spedendola all’incrocio dei pali più lontano.

In che ruolo gioca Maxi Rodríguez? Sugli almanacchi leggerete centrocampista, in campo lo avrete visto spesso partire dall’ala. Ma Maxi è stato un giocatore completo e assoluto, un esterno di corsa più che di dribbling, di tiro più che di cross, di sostanza estrema e di gol. Sono 124 finora, in una carriera ciclica cominciata con la maglia del Newell’s Old Boys e che tra i leprosos sta vivendo la sua fine. Quindici nella stagione più prolifica, 2004–05, l’ultima con l’Espanyol prima di passare all’Atletico, dove Maxi avrebbe continuato a segnare. Che giocatore è Maxi Rodríguez? Un centrocampista che segna come un attaccante, un fantasista alto 1 metro e 80, fisicamente fortissimo, finito su una fascia per esigenze di squadra. Ma che di essere imbrigliato in una definizione non ha mai voluto saperne.

Marcos Rojo

Ho sempre avuto un profondo rispetto per chi sceglie — per mestiere — di impedire agli altri di divertirsi difendendo. È ancora più profondo questo mio rispetto per chi ha scelto di farlo nella terra di Maradona, che come ti viene in mente dico io? Ma Marcos Rojo non aveva nessuna intenzione di fare il difensore, glielo si legge in faccia. Deve essere uno di quei casi in cui un allenatore particolarmente intransigente ti dice “Dai Marcos, mettiti dietro che sei bello tignoso e qui già c’abbiamo dodici cazzo di mezze punte”.

Rojo deve aver obbedito ad un ordine così, poi succede che riesci bene perché sei alto, veloce, cattivo, allora arrivano i soldi, la fama e allora va bene così, facciamo il difensore: tanto che sono quindici venti anni a spazzare palloni? Però la scintilla rimane e Marcos Rojo è di quei difensori che vorrebbero fare i terzini di oggi che sono praticamente attaccanti, inventarsi le cose, giocare bene, ma pure menare (quello piace sempre). Solo che il calcio non è un gioco così semplice e finisce che l’unica cosa che fai per distinguerti sono le rabone in situazioni pericolose. Ecco Marcos Rojo è il tipo di difensore che fa le rabone, e ditemi voi se non era meglio se avesse fatto il trequartista.

Antonio Roma

783 minuti di quiete, 783 minuti di pace per la porta del Boca, generosamente concessi da Tarzan, al secolo Antonio Roma, nel 1969. Per non parlare di quella volta che parò un rigore al brasiliano Delem durante un clàsico contro il River e l’invasione di campo che seguì bloccò l’intera Bombonera per undici minuti. Negli anni ’60, in porta, se dicevi Boca dicevi Roma.

Leandro Romagnoli

Alzi la mano chi è riuscito a resistere al fascino di prenderlo a Championship Manager 2001, quando Scudetto era un termine ancora resiliente allo scorrere del tempo e il gioco dei manager immaginari era una sorta di culto underground. Romagnoli è un “10” pieno di mistero e magia, che rivaleggiava con i coetanei Aimar e D’Alessandro per la palma di “diez più affascinante”, ma che alla fine ha avuto una carriera nettamente inferiore a quella degli altri due. Ha giocato per l’Argentina appena una volta, nonostante fosse stato parte della magica squadra che ha vinto il Mondiale U-20 in casa nel 2001. Una vita dedicata al San Lorenzo, che l’ha ricompensato con una Libertadores nel 2014.

Sergio Romero

Si può avere una delle nazioni più forte nella storia del calcio ed esser un filo carenti in un ruolo? Sì, si può, sebbene poi quella storia porti dietro nomi come quelli di Pumpido, Fillol e Abbondanzieri. Dopo aver giocato Mondiali con Roa, Caballero o Lux, passare a Sergio Romero è certamente uno step avanti. Tuttavia, guardando la carriera del portiere dell’Albiceleste, è strano testimoniare come il suo CV racconti di un inizio appena accennato al Racing, il passaggio olandese sotto van Gaal, fortune alterne alla Sampdoria e poi la carriera da riserva nei club. Prima a Subasic nel Monaco, ora a de Gea al Manchester United. Eppure il posto in nazionale non gliel’ha tolto mai nessuno: El Chiquito — con quell’aria sbarazzina e la fama di para rigori — è sempre rimasto al suo posto.

Oscar Ruggeri

Quando Isidoro Gómez viene catturato allo stadio, nel film “El Secreto de sus ojos”, la spiegazione di Esposito è eloquente: “El tipo puede cambiar de todo: de cara, de casa, de familia, de novia, de religión, de dios… pero hay una cosa que no puede cambiar… no puede cambiar de pasión”. E in una nazione dove la pasión per il futbol è così vigorosa, passando per una lunga serie di sfumature due sono gli estremi in cui si manifesta: il Boca Juniors e il River Plate. Come guelfi e ghibellini, come ateniesi e spartani: Xeneizes e Millonarios, divisi sin dalle origini risalenti allo stesso quartiere della Boca, si pongono come due sponde inconciliabili, la cui definizione non può prescindere dal porsi come totale antitesi del proprio opposto.

In questo contesto, è chiaramente quasi impossibile immaginare qualcuno che possa cambiare sponda e sposare la causa opposta: quel “quasi”, più di tutti porta il nome di Oscar Ruggeri.

El Cabezón è stato uno dei più grandi difensori della storia dell’Albiceleste: recordman di presenze in nazionale finché il primato non gli fu strappato da Simeone e Zanetti. Il suo pezzo forte era chiaramente il colpo di testa, che lo rendeva leader della difesa argentina in cui esordì nel 1983 per lasciarla nel 1994, passando per tre Coppe del Mondo disputate, fra cui quella vincente di Messico ’86. L’immagine iconica che però lo rappresenta è quella del 17 febbraio del 1985. Idolo del Boca (dove esordì dopo la trafila delle giovanili), Ruggeri debutta con la squadra ad averlo appena strappato ai gialloblu, in gravi problemi economici: il River Plate, divenendone un caposaldo. Completò un’annata storica nel 1986, sommando alla Coppa del Mondo la vittoria col club di Primera Divisiòn, Coppa Libertadores e Coppa Intercontinentale.

Mentre gli Xeneizes lo bollavano come il peggior traditore, con il gol dell’ex messo a segno dallo stesso Ruggeri in quello del 30 aprile del 1988, la carriera del centrale continuò fra estremi opposti quando passò in Europa. Dopo la breve parentesi al Logroñés, arrivò addirittura al Real Madrid (con annessa vittoria del campionato da titolare); successivamente, dopo un rapido passaggio per il Velez Sarsfield, raggiunse il suo punto più basso firmando per l’Ancona, neopromossa in Serie A, giocando solo sette partite in un club che retrocesse mestamente. Da lì il declino, fra América, Real Jaén, San Lorenzo e Lanús da giocatore, con una carriera da allenatore mai decollata segnata da tanti esoneri e poche soddisfazioni. Ma nei Superclásicos la figura di Oscar sarà sempre fra le più importanti, lo stesso che a fine carriera dichiarò di aver rifiutato l’abbonamento perenne allo stadio da parte del River, col cuore sempre rimasto legato al Boca.

Walter Samuel

Arrivò in Italia dal Boca nella piazza peggiore in cui un giovane difensore sudamericano possa ritrovarsi: Roma. La prima partita ufficiale della stagione 2000/01, quella dopo la vittoria dello scudetto della Lazio, fu un Roma-Atalanta, con i bergamaschi che eliminarono subito i capitolini dalla competizione. Rivolta, sassate alle macchine fuori Trigoria e quel ragazzone appena insignito del Pallone d’oro Sudamericano ribattezzato “Pecorino Samuel”, per ricordare la presunta “scarsezza” di Pancaro. Invece quell’anno la Roma vince lo scudetto e Samuel si rivela al pubblico europeo come un difensore clamoroso, forte, potente, cattivo e carismatico. Un fenomeno, nel suo ruolo. Dopo la brutta esperienza in un Real che all’epoca comprava a tanto giocatori che tritava, svalutava e rivendeva a due soldi facendo le fortune di mezza europa, se ne va (come altri suoi compagni in maglia bianca) all’Inter. In nerazzurro diventa un pilastro del filotto di vittorie in campionato e del Triplete. Proverbiale la sua “Entrata alla Samuel®”: tacchetti sul polpaccio alla prima occasione e attaccante avversario avvisato. Probabilmente un difensore d’altri tempi che, però, ha strafigurato negli anni 2000.

José Sanfilippo

José Sanfilippo è o è stato un cannoniere argentino. In questo, data l’ineguagliabile capacità del paese biancoceleste di produrre attaccanti di ogni genere, non ci sarebbe nulla di straordinario; benché, certo, le cifre di Sanfilippo, tra i dieci migliori marcatori di sempre sia del campionato argentino sia della nazionale, non siano sicuramente banali o semplici. Sanfilippo è inoltre un simbolo del San Lorenzo de Almagro, club per cui ha giocato per una decina d’anni e del quale è tutt’ora il primo marcatore di ogni tempo. Ma di primatisti così, per ovvia definizione, ne ha uno ogni squadra.
Una cosa che rende Sanfilippo particolare, se vogliamo essere onesti, è la sua curiosità, che lo spinge a giocare in Brasile e in Uruguay (e, in Brasile, addirittura a scegliere club meno facili, come il Bangu e il Bahia; mentre per la sua annata uruguagia si accontentò del Nacional); però, di nuovo, forse non basterebbe per renderlo unico e particolarmente memorabile.

Quello che solo Sanfilippo può dire di aver fatto è un gol in un supermercato, il supermercato Carrefour sull’Avenida La Plata. Si tratta, per la verità, di un rifacimento immaginario, avvenuto anni dopo, di un gol segnato nel 1962 contro il Boca Juniors; Sanfilippo, decenni dopo, lo rievoca allo scrittore Osvaldo Soriano, mentre i due passeggiano nel supermercato: nel 1962, infatti, dopo poi è sorto il Carrefour, c’era ancora il Vecchio Gasometro, lo stadio storico e leggendario del San Lorenzo de Almagro. Il gol di Sanfilippo non è, dunque, un gol vero; ma gli riesce talmente bene che poi le cose, forse anche per un senso di giustizia verso quel gol, decidono di rimettersi a posto. E, dove c’era lo stadio e poi il supermercato, tornerà presto a sorgere uno stadio: lo stadio dove José Sanfilippo ha segnato decine di volte e poi di nuovo una, e quell’una ha voluto dire che tutto sarebbe tornato al suo posto.

“El Nene (il bimbo) Sanfilippo aveva segnato di nuovo quel gol del 1962. L’aveva rifatto solo perché io potessi vederlo”.

Guillermo Barros Schelotto

Suo fratello gemello Gustavo ha raccolto di meno, mentre Guillermo è tutt’oggi al centro della galassia Xeneize. È stato uno di quegli elementi che hanno fatto la storia del Boca Juniors, ma che hanno ricevuto poco spazio in nazionale (appena 10 presenze). Recentemente ha vinto il titolo da allenatore, dopo averne già conquistati sei da giocatore: pensare che a Palermo — dove sarebbe dovuto essere l’allenatore nel gennaio 2016 — gli avevano impedito l’accesso per la mancanza del patentino. Ma può una leggenda — comunque già distintasi sulla panchina del Lanus — essere oggetto di questi paletti? No, non si può. Specie se hai vinto quattro Libertadores.

Roberto Néstor Sensini

Se chiediamo a 10 persone prese a caso, ma con qualche vaga nozione calcistica, quale sia il ruolo di Alessandro Florenzi, potremmo ricevere circa tre risposte differenti: terzino, mezz’ala, ala. Ecco, ora se pensiamo allo stesso “gioco” con Nestor Sensini, il divertimento è assicurato: stavolta però non scegliamo 10 persone a caso, ma 5 allenatori, Nevio Scala, Carlo Ancelotti, Alberto Malesani, Sven Goran Eriksson e Carlos Bilardo. Le risposte sono 5: centrocampista, terzino sinistro, difensore centrale, mediano, esterno sinistro. A cavallo degli anni ’80, ’90 e 2000 Nestor Sensini ha interpretato al meglio il ruolo del jolly, indispensabile ma senza una collocazione fissa nel campo.

Su questa duttilità ha costruito la sua ciclica carriera, partita, in Italia, dall’Udinese, passata dal Parma e dalla Lazio e da lì ricominciata ma a percorso inverso (Parma e Udinese). Un solo, vero, enorme errore da giocatore: il rigore su Voller ad Italia ’90. In realtà però se lo chiedete a lui il rimpianto coincide con la consapevolezza che quel pallone lui “lo ha toccato”. Neanche in questo caso esiste una sola risposta giusta.

Diego Pablo Simeone

Diego Pablo Simeone è la realizzazione teorico-pratica del mediano incontrista. Tuttavia, come sempre accade a ciò che si formalizza per idealità, la concretizzazione diviene una quasi cristallizzazione e si fa d’improvviso paradigma. Quindi, quel che prima era un uomo, diviene un aggettivo sostantivato. Simeone divenne sinonimo di incontrista e il campo non bastò più a definire il luogo di applicazione: durante la sua carriera italiana (Pisa, Inter, Lazio) o spagnola (Siviglia, Atletico Madrid), con difficoltà si poteva aggirare l’incontro con il centrocampista; la sua capacità, quasi ossessione, di trovarsi sempre nel posto giusto al momento del passaggio di un calciatore con maglia diversa dalla propria, non era ben vista dai fantasisti avversari che lamentavano una certa sindrome da accerchiamento.

Anche dopo, quando si è seduto sulla panchina dell’Atletico per farla diventare una delle squadre più forti d’Europa, è forte il rischio di vederselo spuntare al limite della propria area di rigore, in giacca nera e cravatta, per sventare un’azione pericolosa, per arginare una chiara volontà di arrivare almeno un metro più in là. Bah, fantasticherie. Giusto fantasisti, li possono chiamare.

Omar Sívori

“Sivori è più di un fuoriclasse; per chi ama il calcio, è un vizio”.

Con la solita classe, l’avvocato Gianni Agnelli ha racchiuso in poche parole l’essenza di Omar Sívori. L’inventore del tunnel è stato un vizio in tutto e per tutto, sempre e solo in campo perché al netto del suo caratteraccio (che gli è costato 33 giornate di squalifica) era uomo d’onore e le scenette in televisione con la moglie e la figlia con l’accento torinese sono state uno spaccato di un’Italia con non c’è più semplicemente indimenticabile. Con la Juve ha vinto tutto, grazie al sinistro magico che si è ritrovato, per poi passare al Napoli e far innamorare anche i napoletani che cominciarono a prendere confidenza con i campioni argentini mancini e dal carattere particolare. Resterà per sempre legato alla Juventus, tant’è che costruì una fazenda in Argentina con lo stemma dei bianconeri in rilievo, che intitolò “La vecchia signora”. Omar Sívori resterà un giocatore irripetibile ed unico, in grado di far innamorare tutti di lui, sprezzante del pericolo e rissoso, un vizio in tutto e per tutto.

Juan Pablo Sorín

Probabilmente uno dei giocatori più iconici dell’Argentina a cavallo tra anni ’90 e 2000, senza mai effettivamente alzare chissà quale attesa nei suoi confronti. Eppure ha giocato con molte squadre prestigiose ed è stata la Juventus a portarlo in Europa: poi River Plate, Cruzeiro, Lazio, Barcellona, PSG e Villareal. Un bel curriculum vitae, che porta con sé una Libertadores con i Millionarios di Almeyda, Ortega, Crespo, Gallardo e Francescoli; in più, tanti sogni mai realizzati con l’Albiceleste, di cui è stato persino capitano al Mondiale 2006.

Alberto Tarantini

“Non vinciamo per quei figli di puttana, vinciamo per alleviare il dolore del popolo” aveva detto Menotti e lui, un po’, ci aveva creduto. Lui era Alberto Tarantini, un paio di denti da coniglio e un difensore centrale. El Conejo giocava terzino nel Boca Juniors e di dolore, a livello personale, se ne intendeva molto. Quella sera vinse, fece come disse Menotti e poi rimase in silenzio, come si doveva fare, per quasi un quarto di secolo.

Argentina Olanda 3-1, la finale della Coppa del Mondo più chiacchierata della storia.

L’ha giocata nel suo ruolo abituale, da terzino sinistro, con un’inedita maglia numero venti, rompendosi i denti in uno scontro con Neeskens. L’ha giocata pur sapendo che stava succedendo qualcosa al di fuori dal campo, perché non era normale avere i militari poco dopo la linea bianca, di quello se n’erano accorti tutti. Eppure nessuno parlava. Tarantini parlerà 27 anni dopo. Dirà che qualcuno sapeva, che lui stesso chiese a Videla della sorte di alcuni suoi amici risultati poi desaparecidos, parlerà della marmelada peruana nella quale aveva segnato pure un gol. Non dirà nulla su Jorge Carrascosa, e Jorge Carrascosa non dirà mai nulla sul 1978.

Alberto Tarantini non è stato un’icona di quell’Argentina, ma potrebbe diventare un personaggio da romanzo. Un romanzo di Julio Cortazar, per scomodare un grandissimo. Nato povero, cresciuto povero, diventato calciatore del Boca e poi del River per ripicca, riuscendo a vincere con entrambe. Perse tre fratelli, uno dei quali durante un’operazione per correggere le orecchie sporgenti, e l’amato padre poliziotto, che su di lui riponeva le speranze. Rifiutò il Barcellona perché avrebbe dovuto sposare una modella e divorziare il giorno dopo. Ruppe col Boca perché il presidente Armando pagò i funerali del padre, ma volle indietro i soldi dal Conejo. Entrò nel tunnel della tossicodipendenza e ne uscì, tardi ma ne uscì.

La storia del calcio non premia i Tarantini, i giocatori che si fanno in quattro in campo e poi vengono ricordati solo nelle formazioni a memoria o nelle foto coi trofei. A proposito di foto, ce n’è una del Conejo con Videla che ha fatto clamore a lungo. Il terzino e il dittatore si stringono la mano. Anni dopo, Tarantini rivela: “Videla inizia il giro di saluti, io guardo Passarella e dico ‘scommetti mille dollari con me che prima di stringergli la mano mi metto la mano nelle palle?’”. Passarella gli deve ancora mille dollari.

Carlos Tévez

Se volessi fare della retorica spicciola direi che la storia personale di Tévez, tra povertà, difficoltà, cicatrici e infine rinascita e ricchezza possa averne forgiato così tanto il carattere da lottatore da renderlo perfetto come calciatore degli anni 2000. Se invece volessi essere giusto un pelino più scientifico potrei dire che la corporatura di Carlos Tévez, il suo baricentro basso, le gambe corte e scattanti, il momento storico-calcistico in cui è apparso e la sua capacità balistica hanno creato uno dei generi dell’attaccante contemporaneo, raccordo tra centrocampista, classico diez e punta.

Se si mettono insieme questa retorica spicciola e questo scientismo spicciolo si può forse ottenere uno scorcio dell’inesorabilità che accompagna Tévez nel suo gioco, la sua fame calcistica, il fatto che ci sono dei momenti in cui Tévez vuole segnare e segna, senza farsi troppi problemi, senza pensare all’ambiente che lo circonda. Però non basta: vanno viste le immagini, le gif, le facce e i corpi dei difensori che non sanno cosa fare di fronte ad una sua cavalcata, e quella furia mai doma e senza senso nello spingere il pallone dietro il portiere altrui.

Pedro Troglio

Si narra che, durante l’estate del 1988, a Modena nella sede della Panini fu indetta una riunione straordinaria con tutti i dirigenti della casa editrice. Motivo della convocazione straordinaria sembra essere stata la notizia dell’acquisto, da parte dell’Hellas Verona, di un centrocampista argentino che aveva passato già 5 anni al River Plate e si apprestava a fare il suo ingresso nel campionato italiano. Il suo arrivo, ben accolto dai tifosi scaligeri, gettò gli editori nel panico per l’incredibile mole dei suoi capelli ricci che rischiava di far esplodere il modello di figurina fino ad allora vincente. Si optò per una mediazione e, per risolvere il problema, al giocatore fu imposta da contratto una pettinatura a cattedrale gotica, slanciata verso l’alto e con qualche gargoyle appeso sopra le orecchie. Solo in questo modo il centrocampista poté continuare una carriera italiana che lo portò a vestire le maglie di Lazio e Ascoli, prima di finire in Giappone. Dove mi sa non le facevano, le figurine.

Jorge Valdano

Incastonato dentro un fotogramma. Nel calcio, da quando ha debuttato a 18 anni con il Newell’s Old Boys. Jorge Valdano è stato tutto. “Calciatore in Europa e Sudamerica, in prima e seconda divisione, allenatore di piccole squadre come il Tenerife e del grande Real Madrid”. È stato dirigente, direttore sportivo, il ragazzo che a 21 anni dava del tu a Cruijff, da sempre refrattario agli ego smisurati. Ha vinto due Coppe Uefa con il Real Madrid della Quinta del Buitre (c’erano Emilio Butragueno, Michel, Martin Vazquez, Manolo Sanchis, Miguel Pardeza) e costruito la squadra dei Galacticos, che ha investito 200 milioni di euro per mettere insieme Figo, Beckham, Zidane e segnato un gol nella finale mondiale contro la Germania Ovest che ha fatto grande Maradona.

È convinto che la paura sia la vera forza motrice delle grandi rivoluzioni calcistiche degli ultimi trent’anni e continua a rifiutare l’idea che il valore del collettivo venga prima del talento dei singoli. E nessuno ha più titolo di Jorge Valdano per affermarlo. Perché El Poeta nel calcio è stato tutto ma sarà sempre l’uomo che aspettava la palla mentre Maradona trasumanava in aquilone cosmico.

Juan Sebastián Verón

Alieni, ma voi lo usate il compasso? Si tratta di uno strumento che, una volta trovato il punto centrale dove fissare un perno, permette la costruzione di geometrie circolari di ampiezza variabile secondo l’estensione raggiunta dalle assi che legano il punto di partenza al punto di arrivo. Ecco, Juan Sebastiàn Verón è stato al calcio come il compasso alla geometria: la sua qualità di visione di gioco faceva sembrare il prato geometrico come un semplice perimetro in cui agire, quasi dando l’impressione che, una volta fissato il perno nella sua posizione a centrocampo, il rettangolo fosse misurabile solo a partire da quel punto, come gli girasse intorno.

Dopo una carriera onorevole in giro per l’Europa che conta, quando ha deciso di tornare in patria all’Estudiantes un certo delirio di onnipotenza l’ha fatto essere contemporaneamente giocatore, allenatore, dirigente e presidente della stessa squadra di La Plata. Aveva trovato, evidentemente, un punto ben piantato dove fissare il perno al compasso.

Héctor Yazalde

Detto “Chirola”, ha portato a termine solo cinque anni di scuola, dall’età dei 7 a quella dei 13, poiché era troppo povero per iniziare prima e per continuare dopo, tanto che per studiare usava i libri del suo amico Horacio Aguirre. Un giorno, accompagnando lo stesso Horacio a un provino per il club del Piraña, squadra amatoriale di Buenos Aires, ebbe l’occasione di indossare gli scarpini e di sbalordire i dirigenti del club con il suo senso del gol e la sua garra, e quelli finirono per ingaggiarlo il giorno stesso. Da lì a quattro anni passò all’Independiente, dove si guadagnò la ribalta nazionale.

L’apice della sua carriera lo raggiunse però tra i Leões dello Sporting Clube di Lisbona, con la cui maglia nel 1974 segnò 46 reti in 29 partite, siglando il record internazionale della stagione e portandosi perciò a casa la Scarpa d’Oro europea. A Yazalde, delantero umile ma letale, fu regalata una Toyota come premio. Lui pensò bene di venderla e di dividere la somma ricavata con tutti i compagni di squadra. Dato che era un tipo così preciso vale la pena ricordare che in Portogallo, prima di una breve parentesi nel Marsiglia e del successivo ritorno in Argentina, raggiunse lo score tondo tondo di 104 reti in 104 incontri totali.

Pablo Zabaleta

Se sei in metro a Buenos Aires e guardi con attenzione il tratto che va tra le stazioni Pasco e Alberti puoi vedere una figura bianca che piange. Così dice la leggenda: una ragazza, obbligata da suo padre a sposarsi con un uomo che non amava, preferì togliersi la vita. Se guardiamo la carriera di Pablo Javier Zabaleta Girod, bonaerense, di posizione e di carriera laterale, a destra, acconciatura distefaniani, ecco: una figura bianca potremmo riconoscerla distintamente. Nato nel gennaio 1985, mese e anno in cui da quest’altra parte dell’oceano c’è il grande freddo, con tutte le possibili under dell’albiceleste vince tutto: arriva a mettersi pure i cinque cerchi d’oro a Pechino. Poi però, nel mondo dei grandi, la fascia destra che calpesta e diagonalizza a ogni partita diventa quella di una nazionale troppo forte per vincere un mondiale o una Coppa America.

“La nostra sconfitta è stata sempre implicita nella vittoria degli altri; la nostra ricchezza ha sempre generato la nostra povertà per accrescere la prosperità degli altri” sentenzia Eduardo Galeano. La stessa figura bianca lo accompagna con il club: San Lorenzo, Espanyol e poi nove anni di Manchester City, 333 presenze col numero cinque sulle spalle, tutto quello che si può vincere tra Premier e coppe nazionali varie, ma niente da fare se guardiamo fuori dal Regno Unito. Non segna tanto, ma c’è sempre e entra nel cuore dei tifosi del City che nell’ultima partita con il City l’Etihad gli tributa in piedi il giusto thankyou #ourZab. Dal prossimo anno lui e i suoi 2,65 milioni di follower cinguettanti saranno a Londra, al West Ham, chissà se a confermare quello che Eduardo Galeano chiama il sempre “caduco soffio della gloria e il peso duraturo della catastrofe” che contraddistingue l’America Latina da dove viene Zab, laterale di carriera, di posizione e centrale di cuore.

Javier Zanetti

Secondo me Zanetti è stato l’esterno di fascia destra più fico che sia mai esistito. Non perchè avesse il cross perfetto di Beckham o il dribbling in velocità di Maicon o l’educatissima tecnica di Cafù: Zanetti era il calcio di quelli che non sono nati con la camicia, di quelli che si sono dovuti fare il mazzo per essere tra i migliori del mondo, per vincere, per essere titolari sempre, comunque, con qualsiasi allenatore, in quasi ogni ruolo. Per me Zanetti è stato questo, una macchina perfetta nell’equilibrio tra fisico e mente, tra corpo e spirito, l’aria si apriva al suo passaggio in corsa come volesse cedergli il passo, aiutandolo a raggiungere il fondo del campo per poi tagliare verso la porta o allargarsi un po’ e crossare.

Articolo collettivo a cura di Gabriele Anello, Damiano Benzoni, Andrea Cardoni, Federico Castiglioni, Leonardo Ciccarelli, Massimiliano Chirico, Lorenzo De Alexandris, Adriano D’Esposito, Marco D’Ottavi, Luigi Di Maso, Alessandro Fabi, Alfonso Fasano, Armando Fico, Fabrizio Gabrielli, Tommaso Giancarli, Vin Lacerenza, Gabriele Lippi, Gianmarco Lotti, Alessandro Mastroluca, Elena Chiara Mitrani, Daniele V. Morrone, Marco A. Munno, Saverio Nappo, Claudio Pellecchia, Mattia Pianezzi, Simone Pierotti, Valerio Savaiano, Simone Vacatello

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