Primo turno Playoff, pt. I — Il vento dell’Est

Atlanta Hawks (1) vs Brooklin Nets (8) 4–2

Crampi Sportivi
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14 min readMay 8, 2015

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Da due estremi di un sogno. Da un lato gli Hawks di Budenholzer, arrivati da testa di serie ad Est grazie ad una regular season quanto perfetta tanto inaspettata in cui hanno fatto meglio delle corazzate Cavs e Bulls. Rappresentano l’esaltazione del collettivo, un sistema che, assemblando e migliorando ogni pezzo del puzzle, aumenta costantemente la somma totale. Dall’altra parte c’erano i nuovi Brooklyn Nets, riportati a casa dopo la parentesi in New Jersey e non più sotto il branding di Jay-Z. Un monumento alla hybris del Capitale. I rubli di Prokhorov hanno improvvisato un accozzaglia di giocatori a fine carriera nel tentativo di vincere tutto e subito ma si sono infranti sulla morale del sogno americano. Dopo la diaspora quei pochi rimasti sotto la guida di Lionel Hollins hanno agguantato l’ultima posizione utile per rimandare di un paio di settimane le vacanze estive e, armi e bagagli, sono partiti verso Atlanta.

I ragazzi di Coach Bud, che dopo una vita sotto Pop ha avuto il privilegio di seguirlo nell’albo del Coach Of the Year, avevano il compito di smentire gli scettici. Chi non credeva a questo miracolo cestistico ripeteva come un mantra “Hawks meravigliosi in una Conference disastrata, con LBJ a mezzo servizio per buona parte della stagione e Bulls tormentati da infortuni a catena ma sapranno diventare una realtà anche quando le partite cominceranno a contare davvero?” Ovvero l’organizzazione difensiva e la pulizia esecutiva nell’altra metà campo saranno così efficienti anche in una serie di sfide fatte tutte di scouting e aggiustamenti? Gli Hawks riporteranno l’Nba ai tempi felici in cui non c’erano prime donne e tutti si passavano allegramente la palla e facevano sempre la giusta rotazione difensiva o la mancanza di un go-to-guy e dell’esperienza alla postseason giocheranno un brutto scherzo alla prima della classe?

I Nets non erano la prova più attendibile contro cui misurare le aspettative dei falchi. Ormai a fine di un ciclo mai aperto, sputtanati ad ogni intervista da Pierce e Garnett e abbandonati dalle stars dello spettacolo che ormai snobbano il Barclays Centre, hanno fatto la triste fine di Tidal. Joe Johnson è la sbiadita copia del giocatore che ha messo Atlanta sulla mappa nella seconda metà degli anni zero, Deron Williams da quando ha lasciato i mormoni ha perso la retta via e Brook Lopez è il classico giocatore che applaudi ad un’azione e imprechi a quella dopo.

Detto ciò, visto che il basket è una scienza ma non è esatta, a Brooklyn hanno rischiato il colpaccio. Dopo che Atlanta ha fatto rispettare il fattore campo alla Fortezza, seduta su un comodo 2 a 0, arrivati a New York la serie è improvvisamente girata.

Saranno gli influssi del Doctor, che qui ha iniziato la carriera, sarà la passione popolare verso l’unica franchigia professionistica al di la del ponte di Verrazzano, sarà che gli Hawks da veri signori volevano concedere il Gentleman’ s Sweep. Com’è, come non è i Nets passano 91–83 trascinati da Lopez e Bogdanovich, che costringe Korver a tirare 1 su 8 dal campo, 0 su 5 da tre. L’intera squadra di Bud tira il 35%, dieci punti percentuali in meno della media stagionale. Potrebbe essere la gara che mette d’accordo tutti, i Nets non finiscono la serie davanti al loro pubblico, gli Hawks commettono il classico passo falso che serve a crescere. Ora si riporta la concentrazione ai livelli di guardia e si va a chiudere in casa. Invece succede ciò che non ti aspetti. Dopo aver collezionato uno 1/8 e un 1/7 nelle precedenti uscite, ecco la partita mensile che fa pensare a tutti i paganti che Deron Williams è ancora quel play che venne scelto prima di Chris Paul nel 2004. Per il prodotto da Illinois ci sono trentacinque punti con 7/11 da tre, compresa quella che rimette Brooklyn davanti per l’ultima decisiva volta, accompagnato dalla doppia-doppia di Lopez, che è evidentemente il giocatore che meno si accoppia con il quintetto di Atlanta. Troppo grosso e capace di finire intorno al ferro per essere tenuto da Horford che gioca pure con una stecca all’indice della mano destra. La sua abilità in post è l’arma su cui si sono appoggiati i Nets per craccare la difesa di Bud sfruttando il più classico degli inside out.

Con un Williams ritrovato e un Lopez dominante la serie è totalmente riaperta, vacillano gli Atlanta Hawks, riemergono i Brooklyn Nets, gongolano gli scettici, applaudono tutti i rimanenti che cercano una serie combattuta nella desolazione di questo primo turno (tranne Clippers — Spurs sia chiaro). Si torna ad Atlanta con la convinzione che davvero a sorpresa ci possa essere il ribaltone. L’ottava del tabellone che sbatte fuori la prima della classe. L’ultima volta che è successo fu nel 2011 quando i rampanti Grizzlies stupirono il mondo eliminando gli Spurs detentori del miglior record della lega. Era la nascita della grit culture, dei Conley mascherati e dei Gasol Jr., dei Randolph per la prima volta separati dalle barrette ipercaloriche. Il demiurgo di quella operazione di basket nostalgia fu Lionel Hollins, lo stesso che siede ora sulla difficile panca dei Nets. E su quella degli Spurs, da primo vice di Pop sedeva Mike Budenholzer, fidato braccio destro nella buona e nella cattiva sorte. Corsi e ricorsi storici?

Fatto sta che gli Hawks tornavano a casa a giocarsi la stagione, perdere un’altra volta voleva mettere un piede nella fossa senza alcun modo di tornare indietro. E quando bisogna tirar fuori il risultato solitamente spuntano fuori quelli che dall’altra parte dell’oceano vengono chiamati “unsung hero”, gli eroi per caso. In una squadra di cui i quattro quinti sono finiti all’All Star Game, il giocatore decisivo diventa l’unico ad esserselo visto da casa. Dopo un pellegrinaggio infinito tra Memphis, Houston, Denver e Salt Lake City, DeMarre Carroll è sbarcato finalmente nel sistema che lo valorizza al massimo. E’ il collante degli Hawks, il glue guy, quello che copre le mancanze difensive di Korver, che va forte a rimbalzo superando i due lunghi non esplosivissimi, che finisce in angolo durante le penetrazioni di Teague ed che da quell’angolo ha cominciato a metterla con regolarità. Il ball movement offensivo predicato da coach Bud ha trovato il Carroll l’attore non protagonista ideale. Sempre in movimento, sempre pronto a fare la scelta giusta quando il pallone gli finisce in mano. La sua fase offensiva è migliorata esponenzialmente ad Atlanta ed ora non ha paura a prendersi i tiri che la difesa avversaria gli concede, troppo occupata a rincorrere Korver sui blocchi o a ruotare sul pick’n’roll Teague-Horford. E quando anche Carroll comincia ad attrarre attenzioni difensive l’intero campo si apre per le altre bocche di fuoco, in un attacco che fa del bilanciamento la sua arma principale. In gara 5, il pivotal game della serie, ne mette 24. In gara 6, per chiudere una serie che si era già allungata troppo, ne mette venti con un’incredibile efficienza offensiva, coinvolgendo anche alcuni suoi compagni rimasti nell’ombra.

Paul Millsap guida il break che all’inizio del terzo quarto allontana sempre di più gli Hawks dai Nets e gli avvicina al secondo turno contro gli Wizards. Korver lo sigilla con la solita pulizia del jumper dai 7.25, ormai divenuto un culto pagano. Al Phillips Centre quando si alza dietro la linea il pubblico indica il soffitto con le mani prima di esplodere in un urlo orgiastico collettivo.

Ma qui siamo al Barcleys, distretto di Brooklyn, le stars se ne sono già andare a smaltire la delusione in qualche sofisticato loft, il palazzetto è così silenzioso che quando la palla entra si sente solo il rumore del cotone. Il sogno Nets si è spezzato un’altra volta prima di cominciare. Strozzato da una squadra che ne rappresenta il pieno Nadir. Una tirata su spendendo bigliettoni al supermarket delle superstar dismesse, l’altra con un instancabile e continuo assemblaggio di mattoncini a basso costo. Ora Hollins avrà il difficile compito di rifondare un programma dalle abitudini sbagliate, che pensava di aver vinto tutto prima di essere mai sceso in campo, e di cui ormai rimangono solo le briciole. Salutato The Truth l’anno scorso, lasciato andare Garnett a finire la carriera a Minnesota a Gennaio, rimangono un DWill che anche secondo il suo allenatore non è più un giocatore franchigia e un IsoJoe con cui il tempo non è stato clemente. Tutti contrattoni che appesantiscono il futuro già traballante dei Nets e promettono una bella rivalità cittadina con i Knicks su chi resterà sul fondo della East Conference più a lungo. Atlanta invece supera il primo ostacolo e vola al secondo turno contro la Capitale dove il compito sarà molto più difficile. Dovrà dimostrare anche hai più scettici che si può vincere più di una serie di playoff senza una vera superstar e che il collettivo is the new heroball, come sostiene il claim della Tnt quest’anno. Dovrà scontrarsi contro la cabala, che dice mai gli Hawks alle finali di conference negli ultimi quarant’anni. Dove hanno fallito Pistol Pete, Dominique Wilkins e Joe Johnson riuscirà il gruppo allenato da Budenholzer? Si vedrà contro i Wiz. One down, three to go. The Pac Is Back.

Cleveland Cavaliers (2) vs Boston Celtic (7) 4–0

6 cose da sapere su Cavs — Celtics per rimorchiare una ragazza (in un mondo utopico dove le ragazze stanno in fissa con l’Nba)

1- Cleveland vince easy 4 a 0 senza farci capire di che pasta è fatta, data l’estrema fragilità degli avversari. Anche Lebron non si capisce se stia giocando allegramente in pantofole conscio di poter scalare ancora 3–4 marce, oppure preoccupato, consapevole che non basteranno solo lui e Irving ad arrivare in fondo.

2- Kyrie Irving intanto si iscrive a un corso di ninja.

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3- Gigi Datome fa il suo esordio ai playoff prendendosi il tiro per l’eventuale -3 a 30 secondi dalla fine, sbagliando, ma dimostrando in ogni caso quelle che i francesi chiamano “palle”.

4- LBJ, nonostante tutto, fa le prove generali per una nuova finale.

5- J.R. Smith salterà le prime 2 gare del secondo turno perché è un ragazzo un po’ troppo vivace.

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6- Kevin Love invece se ne torna a casa e finisce qui i suoi playoff, dando ai Cavs non pochi grattacapi, proprio quando sembrava crescere la sua alchimia con i compagni e soprattutto privandoli di un’arma tattica importante. Tutto questo perché Kelly Olynyk gli fa una mossa di judo che ha visto su youtube una notte mentre si faceva le canne.

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Toronto Raptors (3) vs Washington Wizard (6) 0–4

5 cose da sapere su Toronto — Washington per rimorchiare due ragazze (in un mondo utopico in cui se ti vedi tutta la serie Toronto — Washington arriva Dio e per pietà ti fa uscire con due ragazze)

1- Washington vince 4 a 0 perché Toronto è una banda di ragazzini scalmanati. A dire il vero una banda di ragazzini cazzuti, ma troppo giovani e non è ancora il loro tempo.

2- Louis Williams viene nominato sesto uomo dell’anno, ma la cosa non cambia nulla nè per lui, nè per i Raptors, nè per noi a dire la verità.

3- “That’s why I’m here”. Paul Pierce ci spiega una delle principali differenze tra Toronto e Washington: la presenza di lui medesimo da una parte e non dall’altra.

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4- Non pago va su Twitter e percula Drake e i tifosi Raptors.

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5- Non pago va a vedersi gli Washington Capitals e percula avversari random anche lì.

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Chicago Bulls (3) vs Milwaukee Bucks (6) 4–2

Ad un certo punto di Gara 6 i Bulls avevano segnato più del doppio dei loro avversari. Ma questo disavanzo non era causato da una run pronti via. Era la fine del terzo quarto e il punteggio recitava 90–44. Ormai al Bradley Centre gli unici spazi non color seggiolino brillavano dell’iconico rosso toro, i cervi si erano da tempo ritirati nei loro appartamenti senza aspettare la fine di quella che sarebbe diventata una delle più pesanti sconfitte nei playoff. Così si è conclusa, come tutti avevano pronosticato, una serie che di prevedibile non ha avuto davvero nulla. Al pronti, partenza, via i Bulls sono usciti fortissimo dai blocchetti di partenza. Finalmente festeggiavano i primi playoff con il loro concittadino Mvp in quintetto a tre anni di distanza dal famoso incidente in gara-1 contro Philly. Appena il nome di Derrick Rose è uscito roboante dagli speakers dell’United Centre, l’intero palazzetto si è unito in un fremito collettivo, una scossa tellurica che ha messo le ali ai tori di Coach Thib. I giovani e acerbi Bucks arrivavano ai playoff più insperati della storia della franchigia. Dopo aver toccato il fondo l’anno scorso con la peggior stagione della loro storia, l’arrivo in Wisconsin di Jason Kidd ha elettizzato l’ambiente.

Il sesto posto ad Est è stato salutato da molti come il miracolo dell’allenatore scartato dai Nets, che ha saputo motivare e instradare un gruppo giovane e talentuoso inserendogli subito quel principio competitivo che era il marchio di fabbrica del playmaker di San Francisco. Nonostante l’infortunio che ha concluso anzitempo la stagione della seconda scelta assoluta Jabari Parker e la trade che ha allontanato Brandon Knight direzione Phoenix, i Bucks si sono raggruppati attorno al loro carismatico allenatore e hanno sfruttato la debolezza di una conference non estremamente competitiva per guadagnarsi un posto al sole dei playoff. Una chance che è stata onorata da una prestazione solida, che lascia ben sperare per il futuro dei Bucks, troppo giovani ed inesperti ora per reggere anche mentalmente una serie con questi Bulls in missione, ma con un margine potenziale notevole. I futorologi dell’Nba, quelli che guardano le partite oggi cercando di profetizzare chi vincerà tra dieci anni, sono ossessionati da questo tipo di atleti, dotati di arti infiniti, velocità non allineata all’altezza e senza alcuna tecnica di tiro di cui sono pieni i Milwaukee Bucks. Sulle rive del lago Michigan, versante Wisconsin, ha trovato casa una nuova classe di freaks da cui tutti si aspettano una imminente esplosione.

MCW, Middleton, Giannis, Parker, Henson e qualche ulteriore innesto garantiscono un nucleo che si confà perfettamente alle nuove regole vigenti nella cartomanzia cestistica. Due pollici più alti di ogni pariruolo, cinque pollici più lunghi, una selva di braccia che ostruisce qualsiasi linea di passaggio e che è in grado di correre i ventotto metri più velocemente di centometristi medagliati. I Bucks hanno seriamente messo in crisi i Bulls con la loro straordinaria fisicità difensiva, qualcosa contro la quale non puoi allenarti in palestra per mancanza di doppioni, e l’insospettabile vena realizzativa di qualche ramingo della lega. Anche se, quando Mayo, Bayliss, Ilyasova e persino Pachulia trovano spesso il fondo della retina qualche campanello d’allarme a Chicago dovrebbe suonare. Che la difesa non sia più quella imperforabile di qualche anno fa è chiaro anche solo leggendo i numeri. Per anni i Bulls hanno dominato nella Defensive Efficiency, mentre quest’anno hanno terminato alla base della top10 con 101.5 (statistiche Espn). Certo gli infortuni sono un alibi di ferro. Thibodeau ha potuto schierare il suo starting five completo poche volte durante la regular season, impedendo quindi di trovare il giusto ritmo nelle fasi di non possesso. Sono anche cambiati gli interpreti nella Windy City. Boozer è stato tagliato per firmare Pau Gasol, ancora un manuale aperto d’istruzioni offensive ma poco affidabile come intimidatore, e alla free agency di Luol Deng ha ovviato l’acquisizione di Dunleavy, tiratore affidabile ma lontano dall’all around play del nazionale inglese, specialmente nella metà campo difensiva. Questi nuovi Bulls, forse gli ultimi sotto il giogo di Tom Thibodeau, sono una squadra più bilanciata, con un efficienza offensiva maggiore, sia grazie al recupero di Rose, sia per la presenza di due lunghi europei che passano la palla benissimo come Noah e Gasol. Queste nuove capacità però non si sono viste contro i Bucks. Tranne rare fiammate di un Rose che ogni volta che accelera crea quel miscuglio di euforia e paranoia, o i jumper di Pau, l’attacco dei Bulls è rimasto troppe volte impigliato nelle lunghe braccia dei giovani cervi, che sono comunque la difese che forza più turnovers dell’intera Nba (17.5 per game). Il movimento di palla non è mai stato così rapido e preciso da aprire quelle fessure che le guardie di Chicago sono in grado di trasformare in layup e spesso si è assistito a tiri contestati alla fine dei ventiquattro secondi. Non importa che questi tiri miracolosamente a volte entrino, ogni difesa sfiderà i Bulls a batterli dal perimetro congestionando l’area e raddoppiando sistematicamente in post.

Quando si hanno poi difensori in grado di cambiare sistematicamente sul pick’n’roll, tenendo le accelerazioni di DRose, e concedendosi il lusso di abbandonare per una rotazione il rollante nel caso non sia Gasol, in quanto ne Noah ne Gibson hanno fiducia nel loro jumper, le difficoltà dei tori aumentano esponenzialmente. Nel basket moderno aprire il campo avendo percentuali significative da dietro l’arco è divenuto troppo importante nell’economia di una produzione offensiva e i Bulls necessitano qualcuno che gli apre la scatola da fuori. Può farlo Rose, che lavorando in palestra per recuperare dai vari infortuni si preso anche il tempo di costruirsi un tiro più affidabile, può farlo Dunleavy che dovrebbe essere lo specialista designato ma non ha particolari giochi chiamati per lui e si prende solo quattro tentativi a partita da fuori. Chi nel bene o nel male ha tirato la carretta nella serie contro Milwaukee è stato Jimmy Butler. Colui che ha vinto il premio dedicato al giocatore più migliorato dell’anno è cresciuto nel Ground Zero del post Rose, arrivando come uno specialista difensivo e imponendosi come una delle migliori guardie del gioco. Il prodotto di Marquette è un demone sui due lati del campo, quando è sul portatore di palla avversario è più simile ad un mastice a presa rapida che ad un difensore piegato sulle gambe, in attacco gestisce l’agenzia di viaggi in lunetta per i Bulls, andandoci con regolarità hardeniana. Sgomitando nell’affollato spogliatoio di Chicago, pian piano è riuscito a conquistarsi un ruolo predominante nella squadra, scavalcando gerarchie fossilizzate negli anni. Non sarà un leader carismatico come Noah, ne il figlio prediletto della città come Derrick Rose, ma è stato di gran lunga il miglior giocatore della serie contro i Bucks chiusa da miglior realizzatore con 24.8 punti di media, il 44% dal campo e più dell’80% dalla lunetta, dove va più di sette volte ad incontro.

Numeri importanti, quasi inaspettati pensando al giocatore che era entrando in NBA in punta di piedi dopo una formativa esperienza sotto Buzz Williams a Marquette, salvato da una borsa di studio mentre viveva di espedienti in Texas. Ora da All-Star è il miglior Robin che Rose poteva trovare ritornando nei playoff e sta ripagando Thibodeau della fiducia concessagli. D’altronde quale giocatore meglio di Butler incarna la dottrina Thib? Lavoro, difesa e mentalità da guerriero sono le armi con le quali ha conquistato la lega. Ci sarà poi un motivo se Mayweather lo ha indicato come il più indicato a compiere il passaggio dal parquet al ring o no?! (Butler — Money potrebbe essere il vero incontro del secolo, io la butto là). I suoi career high costantemente ritoccati hanno sospinto i Bulls ad un secondo turno contro Cleveland che promette di essere un’altro scintillante capitolo delle battaglie tra Chicago e Lebron James. Per affrontare la corazzata Cavs, nonostante le menomazioni di Kevin Love per tutta la serie e di J.R. Smith per le prime due partite, i ragazzi di Thib dovranno però scendere in campo con tutta un’altra mentalità rispetto a quella a tratti mostrata nel derby del lago. Contro dei Bucks generosi, talentuosi ma inesperti e ancora fondamentalmente in fieri, spesso hanno concesso punti facili in transizione, addormentandosi in situazioni di gioco cruciali come è successo a Rose sul possesso decisivo di Gara 3.

Regalare due partite ai volenterosi ragazzi di Jason Kidd ha almeno dato la possibilità di una bella gita fuori porta ai tifosi che non trovano mai posto allo United Centre e che in un paio d’ore di macchina costeggiando il lago Michigan sono arrivati fino a Milwaukee, dove i biglietti si trovano più facilmente. I 140 chilometri tra le due città del Midwest hanno dato vita ad una vera e propria rarità sul suolo americano: le trasferte. I tifosi Bulls si sono riversati a vedere la loro squadra anche al di fuori delle mura amiche mostrando come si viva questa stagione a Chicago, in un misto tra euforia, voglia di riscatto e profonda inquietudine. Rose è di nuovo al livello da Mvp? E’ l’ultima stagione di Thibodeau? A quanto va rifirmato Butler? Quanto reggerà ancora Gasol? Tutte queste domande sciabordavano a lato della serie contro Milwaukee, forse distraendo i Tori. Contro i Cavs del loro acerrimo nemico Lebron scommettiamo che torneranno a vedere rosso, dimenticandosi per una serie tutti i loro problemi, una partita alla volta.

Articolo a cura di Lorenzo Bottini e Valerio Coletta

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