Progetto Avengers

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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6 min readOct 4, 2016

Facile che anche con un occhio bendato quel pelato seduto in panchina riesca ancora a recapitare dei cioccolatini nei pressi del ferro qualora ci sia qualche bongustaio pronto a deliziarne. In verità ci vede bene Jason Kidd, molto meglio del colonnello Nicholas J. Fury: i due sono accomunati dall’esigenza di escogitare qualcosa di diverso per fronteggiare nemici sconosciuti e sulla carta imbattibili.

Loki a Cleveland ha finalmente conquistato il regno che è sempre stato suo di diritto, mentre dalle parti di Oakland (CA) c’è squadra di Ultron che non ti fa vedere il pallone, se non in fondo alla retina. Sulla carta imbattibili, sul parquet è tutto da vedere, ma a oggi non esiste un sistema cestistico convenzionale che possa fermare il primo e il secondo marcatore della lega su 82 partite o su una serie al meglio delle sette.

Ore 8:00 Milwaukee, Wisconsin: Kidd bussa alla porta di Giannis. Non sa pronunciare il suo cognome, ma sa che l’unico modo per giocare una pallacanestro mai giocata è partire da un giocatore che non è mai esistito. Kidd è stato la quintessenza del playmaking, la luce che ha permesso a una squadra sgangherata come i Nets (ancora domiciliati nel New Jersey) di raggiungere le Finals in back-to-back.

Lui vuole smembrare quella parte del gioco che prevede un giocatore cerebrale, quasi un professore in mezzo a tanti gorilla, per far spazio all’anarchia funzionale del greco. Perché intendiamoci: Antetokounmpo è caduto nel pentolone dentro il quale il professor Abraham Erskine cucinava il siero del super soldato, ma Madre Natura gli ha concesso anche un trattamento di palla niente male. Vedere per credere.

Parliamo di un atleta anacronistico, ma non è rimasto congelato per quasi un secolo, bensì è stato rimandato indietro nel tempo per gettare nel caos gli equilibri configuratisi. Dopo aver imbracciato lo scudo con la topografia dell’Ellade ed essersi armato di maschera e mantello, Giannis accompagna Kidd alla ricerca del secondo Avenger.

Lo trovano appollaiato sulle tribune del Bradley Center, scruta il perimetro per carpire ogni informazione possibile. Kidd lo indica al suo compagno di viaggio come l’uomo da cui rifugiarsi quando il pallone non entra. Khris Middleton ha chiuso la passata stagione guidando le statistiche di squadra per minuti giocati a partita, media punti, numero di tentativi da oltre l’arco (convertiti con un onesto 39%) e numero di palle rubate a partita. Quest’ultima caratteristica lo rende imprescindibile nelle idee di coach Kidd, perché questa squadra di super dotati dovrà migliorare il dato di punti provenienti da un recupero (18,5 a partita) e punti in contropiede (13,8).

Middleton può fare tutto: è il primo luogotenente in campo. Magari non ha le peculiarità fisiche dei restanti componenti del team, ma possiede un’intelligenza e una linearità nelle scelte che normalizzano il gruppo. In una stagione massacrante come quella NBA, serve anche questo.

Giannis lo guarda, Kidd gli dice che per i primi sei mesi dovrà prenderne le veci. Uno strappo al bicipite femorale della coscia sinistra lo terrà ai box per buona parte della stagione. Toccherà al greco addossarsi le responsabilità di risolutore, lasciando magari qualche pallone in più a Michael Carter-Williams. Pochi punti nelle mani, non un assist-man di primo livello, ma sfiora i due metri e porta in dote un imprevedibilità che se in serata può fare la differenza. A questo punto tanto vale.

Il terzo elemento è giovane, famoso, discontinuo, ma capace di fare più o meno qualsiasi cosa sul parquet. L’hype che lo circonda dai tempi del liceo è qualcosa con cui ha imparato a convivere. Anche dopo l’infortunio, è rimasto concentrato per educare il suo corpo a un basket più fisico, giocato a ritmi più elevati. La sua prima armatura era difettosa, ma adesso sta lavorando per costruirne una impenetrabile, capace di conferirgli forza, velocità e tiro perimetrale.

Kidd lo guarda attentamente: gli ricorda l’upgrade del suo vecchio compagno Richard Jefferson, che adesso lo scettro di Loki ha portato nella fazione opposta. Captain Giannis ha passato buona parte dei suoi quasi 22 anni a vendere scarpe usate per mettere qualcosa sotto i denti, almeno un paio di volte al giorno. Nello stesso periodo Jabari Parker conquistava le copertine di Sports Illustrated. Lo scetticismo c’è, è palpabile, ma le dichiarazioni del prodotto di Duke muovono verso un giocatore cosciente delle sue responsabilità e disponibile ad addossarsi onori e oneri spettanti a un progetto di fenomeno.

La squadra è quasi al completo: adesso bisogna capire se il martello di Thon sarà devastante fin dal principio. Viene da un altro pianeta, non solo perché abbina i suoi 216 centimetri con un apertura alare di 2,22m, ma anche perché il contesto è veramente altro. Per chi è abituato a respirare il lifestyle americano, il Sud Sudan è un paese lontano non solo geograficamente. La guerra civile costringe la maggior parte delle famiglie a cercare rifugio altrove. Gli zii di Thon Maker portarono lui e suo fratello più piccolo lontano dagli orrori di un conflitto intestino, puntando la bussola verso l’Australia.

Qui il martello viene scagliato contro gli avversari ripetutamente, tanto da suscitare l’interesse di osservatori a stelle e strisce. A sedici anni si trasferisce negli States, riuscendo ad ottenere un diploma alla Orangeville Prep in Ontario. In campo scherza con i suoi pari età, tanto che per lui si muovono tutti i college di alto livello. Niente da fare: preferisce aspettare un anno la chiamata del NBA piuttosto che allontanarsi dal fratellino Matur e viene scelto alla 10 dai Milwaukee Bucks.

Verticalmente parliamo di un mostro, capace di stoppare qualsiasi cosa e di catturare ogni pallone vagante nei pressi del ferro. Giannis apprezza il fatto che il background culturale sia simile al suo e anche per Kidd questo qui è uno che farà strada.

Ci siamo. Mancherebbe l’ultimo tassello del puzzle, quello più insidioso da inserire in un contesto, quello più altalenante in campo. La scorsa stagione era arrivato con l’idea che potesse aiutare la squadra nel salto di qualità. A oggi, i tifosi dei Bucks hanno visto soprattutto il dottor Banner. La verità è che in un team così atletico, così propenso a correre e in grado di cambiare su tutti, il lavoro di Monroe non deve limitarsi ad un gioco di isolamenti e tiri dal post.

Il colonnello Kidd sa che gran parte del lavoro consisterà nel rendere più istintive certe giocate del prodotto di Georgetown, cercando di farne una minaccia credibile dal mid-range per aprire l’area o per punire i pick and pop raddoppiati. A dir la verità, in molti preferirebbero che lo spot venisse occupato da John Henson. Più decisivo in difesa, leve più lunghe, capacità di correre il campo estremamente migliori.

Kidd lo sa e vuole che Monroe conviva con queste aspettative deluse, trasformandole in carburante. Adesso l’ex Pistons sa che, qualora non diventasse verde nemmeno quest’anno, dietro di lui c’è un temibile concorrente pronto a soffiargli un posto nella storia. Perché gli Avengers — pardon, i Bucks — faranno la storia, indipendentemente dal risultato.

Big Bucks.

Proveranno a distruggere definitivamente il concetto dei ruoli, risponderanno allo “small ball” con un “giant ball” talmente atletico e talmente ossessivo in difesa da far desistere qualsiasi teppista californiano in cerca di fortuna dai sette metri e venticinque.

“Vi credevate una squadra? No, siamo una mistura chimica che produce il caos. Siamo… pronti ad esplodere!”. Bruce Banner docet. Adesso godiamoci l’esplosione.

Articolo a cura di Paolo Stradaioli

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