Quando Tex giocava a football

Crampi Sportivi
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3 min readMar 7, 2016

Si ritira Peyton Manning, quarterback dei Denver Broncos, dalla NFL, la lega americana di football. Uno considerato da molti, se non da tutti, probabilmente il miglio interprete del ruolo nella storia di questo sport. Come già successo per Michael Jordan o Diego Armando Maradona, quando un giocatore che ha avuto un impatto talmente importante sul proprio sport si ritira, è sempre difficile determinarne le conseguenze future, e non è certo questo il momento per fare tali considerazioni.

Per quanto mi riguarda, si può dire che Peyton Manning abbia sempre fatto parte della mia vita. Fin da bambino mi piaceva leggere i numeri del fumetto Tex che mio padre, vero amante dei vecchi western, quelli con John Wayne e Clint Eastwood per intenderci, aveva relegati in soffitta tra polvere e ragnatele.

Con il tempo ho imparato ad apprezzare quel personaggio così diverso dai protagonisti dei film e fumetti della mia generazione, forse perché più semplice, senza poteri o capacità straordinarie, forse proprio perché diverso. Ecco, quando penso a Peyton Manning io penso a Tex Willer.

Innanzitutto sembra che Bonelli lo abbia preso da modello per disegnare il ranger del fumetto: fronte alta e spaziosa, sguardo serio e severo, riuscendo perfino a mettere su carta quell’aria da condottiero e leader che i suoi stessi compagni di squadra hanno sempre elogiato.

Con il mondo che viene avvolto dalla globalizzazione e diventa sempre più social, in mezzo alle stravaganze dentro e fuori dal campo degli odierni sportivi, di fronte alla spettacolarizzazione ad ogni costo, Manning rappresentava quella strenua resistenza della sobrietà e della compostezza.

Anche il suo stile di gioco si fa portatore di questa tendenza.

Nessuna strabordante qualità atletica e nessun elettrizzante fuoriprogramma: Peyton aveva mani di fata e un cervello che non si fermava mai.

Quando la palla arrivava tra le sue mani tutti sapevano cosa avrebbe fatto, ma lo faceva con un’abilità tanto straordinaria quanto impercettibile, che lasciava chiunque, anche chi come me seguiva le sue gesta ad un oceano di distanza, in un limbo tra lo stupore e l’ammirazione.

Da stratega eccezionale sapeva leggere le azioni ancora prima che si sviluppassero e vedeva il gioco meglio di chiunque altro, riuscendo ad apportare gli accorgimenti necessari ad ogni reazione delle difese.

Nervi d’acciaio, come quelli di Tex quando in una situazione difficile sapeva sempre trovare la giusta via d’uscita e faceva addirittura sbagliare mira ai nemici più pericolosi.

Il braccio di Manning era fermo e preciso, come Tex con la sua carabina Winchester 1873, non sbagliava quasi mai, riuscendo a mandare i suoi uomini in touchdown con una frequenza spaventosa.

Le statistiche recitano 6.125 passaggi completati sui 9.380 tentati (una percentuale del 65,3 %) e 539 realizzazioni a fronte di soli 251 passaggi intercettati, la maggior parte dei quali arrivati negli ultimi anni di carriera, quando l’età ha cominciato a farsi sentire

Vi assicuro che in 18 anni di football sono numeri incredibili.

L’ultimo Super Bowl giocato, alla fine della stagione da poco conclusa, da cui Manning è uscito vittorioso nello scontro con Cam Newton, quarterback dei Carolina Panthers e considerato il futuro della NFL (a proposito di fumetti, lui è soprannominato “Superman”. Americani!), è stata la consacrazione finale di un giocatore che ai miei occhi ha rappresentato il trionfo della “normalità”.

Per me è stato un po’ come leggere un crossover di un fumetto in cui, in uno scontro all’ultimo sangue, Tex Willer con le sue pistole riesce ad avere la meglio sullo sguardo laser e la super-forza del figlio di Krypton. Straordinario.

Ora “Lo Sceriffo” ha terminato il suo mandato e può finalmente cavalcare verso il tramonto abbracciando la gloria e diventare leggenda di questo sport, mentre io aspetterò il prossimo eroe che mi farà venire di nuovo voglia di raccontare di quanto è bella quella “normalità”, che poi, in fondo, tanto normale non è.

Ciao Peyton. Ciao Tex.

Articolo a cura di Luca Pangrazi

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