Quasi tutti sanno andare in bicicletta

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
Published in
10 min readFeb 1, 2017

Crampi Sportivi, Ciclo Epico #1 (febbraio 2017)

Intervista ad Alessandra Giardini, giornalista

Purtroppo sì, “Ciclo epico” è un gioco di parole. Che rivela, per giunta, la pretesa di alludere ad un tempo al ciclismo (raccontato — per l’appunto — in chiave romanzata) e all’epica di argomento greco, che conosceva, accanto ai due poemi maggiori, un gruppo di poemi minori (p.es. “La Piccola Iliade”) conosciuti con il nome di “Ciclo epico”. A salvarci dall’imbarazzo provvede l’ospite con cui inauguriamo questa serie di interviste: Alessandra Giardini, giornalista sportiva del Corriere, si è gentilmente prestata a rispondere alle nostre domande, regalandoci importanti spunti di riflessione e ricordi dal sapore molto personale.

Tra stratagemmi per prendere appunti e parabole di atleti straordinari, Alessandra ci ha offerto una testimonianza di sport non semplicemente “raccontato”, ma vissuto in prima persona con tutta la passione del caso. A lei, come è ovvio, va il nostro sincero ringraziamento.

  1. Il mestiere di giornalista sportivo

1) Come si è avvicinata al giornalismo e come ha intrapreso questa carriera?

Ho sempre sognato di diventare giornalista sportiva: la prima volta lo scrissi in un tema quando era in quinta elementare. Mi piaceva lo sport — tutto — e volevo scrivere: avevo trovato il mestiere che metteva insieme le mie passioni. Ho cominciato facendo tutto quello che trovavo: uffici stampa, giornali (giornalini), radio, tivù. Poi ho scritto una lettera a tutti i quotidiani d’Italia. Mi ha risposto Tuttosport, e dopo una sorta di provino ho cominciato con Gianfranco Civolani, che era il corrispondente di Tuttosport da Bologna. Mi portava alle partite, mi spiegava, mi insegnava i trucchi del mestiere. Mi insegnò anche a dettare a braccio (e mi è servito tanto). Poi, quando è passato a Stadio, appena ha potuto mi ha chiamato. Sono tantissime le persone che mi hanno aiutato e insegnato qualcosa. Devo moltissimo a Mario Sconcerti, fra l’altro fu lui che un giorno… per punizione mi mandò al Giro d’Italia.

2) Una domanda di sicuro interesse per i “non addetti”: quali aspetti, del seguire lo sport per lavoro, le sembrano più significativi? E poi: quali sono — se ci sono — i sacrifici (personali?) che si è chiamati a fare e le soddisfazioni (professionali?) in ballo?

Seguire lo sport per lavoro per me ha voluto dire essere sempre in contatto con un mondo che mi affascinava fin da bambina, quando mio padre mi lasciava in tribuna mentre lui giocava i suoi tornei di tennis (da n.c.) o mi portava con lui in panchina quando faceva il presidente di una squadra di calcio di seconda categoria (io ero una bimba). Non potendo diventare un’atleta, perché non avevo talenti particolari, ho voluto raccontare la vita e le imprese degli atleti. In qualche modo assisti da vicino alla storia, e hai il privilegio di poterla raccontare. Questo è anche la soddisfazione: stare sotto il podio di un atleta che ha appena vinto l’oro olimpico o un Tour de France, poter condividere le sue emozioni è qualcosa di unico e indimenticabile. I sacrifici sono un mestiere che ti lascia un solo giorno di riposo a settimana (quasi mai nel weekend) e che ti impegna tutte le sere fino a molto tardi, azzerando o quasi la vita sociale. Ma, come dicono gli atleti, sono scelte, non sacrifici.

3) Rimanendo su questioni di carattere generale, cosa apprezza del giornalismo sportivo italiano (p.es. una certa formazione / un certo approccio) e cosa le sembra rivedibile?

Ultimamente trovo molto di rivedibile. Non vorrei che i giornali rincorressero le televisioni, che fanno un mestiere diverso, per certi aspetti più superficiale (anche se non sempre). Mi piacerebbe che i quotidiani puntassero sulla qualità dei servizi, sulla scrittura, sugli approfondimenti. E personalmente sogno giornali sportivi pieni di tecnica e — al contrario — di storie romantiche, dove l’uomo (o la donna) sono al centro della scena. Ma senza una riga di gossip. Magari il giornale che ho in mente io non venderebbe una copia, chi lo sa.

4) Qual è, a posteriori, il contributo — nella cronaca / narrazione sportiva — di uomini come Brera? C’è una continuità con l’attuale panorama?

I giornalisti che hanno dato un taglio letterario alla cronaca sportiva hanno contribuito prima di tutto a cambiare il linguaggio, liberandolo dalla retorica che aveva avuto ampio spazio nel Ventennio ma per la quale la guerra non era mai finita. Oggi viaggiamo fra due poli opposti: i tanti, troppi, che scrivono anche sui muri pensando che basti aprire un blog per fare giornalismo o letteratura; dall’altra parte però c’è una tendenza a raccontare lo sport con un passo letterario, tendenza che a volte è felice ma non sempre. Se ti limiti a scrivere in bella qualcosa che non hai veramente vissuto puoi essere bravo quanto vuoi ma nel tuo racconto mancherà sempre la passione. Per usare le parole di Samuele Bersani, sarai solo la copia di mille riassunti. Il problema oggi è che i media ci mostrano tutto ma il sistema di comunicazione che gira attorno allo sport professionistico sembra costruito apposta per tagliare tutti fuori. Ci sono troppi schermi, troppi intermediari, troppa distanza. Tu credi di vedere tutto ma in realtà non puoi raccontare niente. E’ una tragedia che sta rendendo difficile, quasi impossibile, fare buon giornalismo sportivo.

  1. Lo stato del ciclismo

1) A che punto è il ciclismo a livello di seguito? Da chi e come è seguito? Si trova ancora alla stregua degli sport secondari?

Il ciclismo è uno sport amatissimo dal pubblico, neanche i decenni neri del doping selvaggio hanno allontanato la gente dalle corse. Paradossalmente neanche la morte di Marco Pantani. La gente ama il ciclismo perché sa che cos’è, lo conosce: quasi tutti sanno andare in bicicletta, molti lo fanno abitualmente, e dunque sanno apprezzare la fatica e il talento di chi in bici corre e vince. Ma anche di chi perde, è lo stesso. Sui giornali quotidiani — Gazzetta dello Sport esclusa, ma i motivi sono evidenti — è spesso seguito come sport minore purtroppo. Lo dico io che lavoro a «Stadio», tradizionalmente il giornale del ciclismo. Ma parliamo di decenni fa. Ora per leggere di ciclismo bisogna andare sui siti specializzati, o accontentarsi delle riviste mensili. Qui il discorso sarebbe lungo, torniamo al giornale dei miei sogni che magari non venderebbe una copia. Anche se non ne sono affatto convinta.

2) Sembra, in ogni caso, che le due ruote siano spesso sinonimo di “epica”. Condivide questa opinione comune? E perché, secondo lei, il ciclismo si presterebbe alla narrazione?

Perché è fatica e sofferenza, due cose che fanno parte della vita di tutti, ognuno di noi sa leggerle sulla faccia di un corridore e riconoscerle. E ama leggere di imprese costruite sulla fatica e sulla sofferenza. Poi il ciclismo è viaggio, ed è più facile condividerlo: non sei tu a dover andare allo stadio, al palazzetto, a volte (non sempre, d’accordo) basta scendere in strada e veder passare la corsa davanti a casa tua. Ma il viaggio ti può portare lontano, anche dall’altra parte del mondo: e lì non sei tu a seguire la corsa, è l’epica che te la porta a domicilio.

3) Si sentirebbe in grado di tracciare uno scenario dei prossimi anni? Le sembra uno sport in evoluzione? Prevede migliorie, si auspica novità?

L’evoluzione va in due direzioni. La globalizzazione, che è sotto gli occhi di tutti, e che in questo sport dovrà combattere a lungo con la tradizione, attaccata alle corse classiche e ai luoghi epici. L’altra direzione è quella di tutte le specialità del ciclismo. Non c’è soltanto la strada, anche se fatalmente sposta più interesse.

4) Vede degli atleti dominare nel medio-lungo periodo? Qualche nome tra i maggiori? Qualche outsider?

Adoro Peter Sagan, un atleta (e un personaggio, perché no) che farebbe la fortuna di qualsiasi sport. Odio veder invecchiare Vincenzo Nibali, mi piace dalla prima volta che l’ho visto correre, da ragazzo, mi piace anche quando perde. Spero che Gianni Moscon riempia il buco che abbiamo nelle classiche. E non ho ancora perso le speranze di divertirmi con Moreno Moser, questo sarà un anno chiave per la sua carriera.

III. Personalia

1) Atleti che seguiva da piccola? Quali i legami tra lei e i suoi preferiti? Ricorda eroi e imprese particolari?

In camera mia avevo il poster di Gustavo Thoeni, e adesso che ci penso è un po’ strano perché non amo molto sciare e neanche andare in montagna (faccio un’eccezione soltanto per i grandi giri). Con mio fratello, da piccola, passavo i pomeriggi a guardare le gare di tuffi per veder vincere Klaus Dibiasi e Giorgio Cagnotto. Ma il mio eroe era John McEnroe. Come adesso è senza discussioni Roger Federer: atleti che non dovrebbero invecchiare mai. E poi il ciclismo: il mio papà non si perdeva una corsa, teneva per Moser, e io per Saronni, così potevamo discutere un po’. Ma il mio preferito è stato Gianni Bugno. In generale mi è sempre piaciuto seguire tutti gli sport. Il meno amato forse il basket, e per una che abita a Bologna non è il massimo.

2) Ci sono, di contro, casi in cui si è appassionata alle vicende di un atleta seguendone la carriera? Qualche caso eclatante?

Ho lavorato a Supervolley con Jacopo Volpi e Valentina Desalvo negli anni del boom della pallavolo. Ho vissuto da dentro gli anni d’oro della Nazionale di Velasco. Ma anche le grandi sfide fra Modena, Parma e Ravenna, vivevo al centro della pallavolo. Uno come Brusi mi ha insegnato tanto sullo sport, ogni tanto mi capita di citare le sue frasi. Dico cose come: fra vincere e perdere la differenza è più del doppio. Ho avuto la fortuna di seguire Agassi, Edberg, Sampras. Ho avuto un debole per Goran Ivanisevic e per Paolo Canè, sono sempre stata dalla parte dei talenti sprecati. I ricordi più belli sono i tanti giorni in cui ho visto un italiano vincere l’oro all’Olimpiade. Non riesco proprio a scegliere, scrivevo con le lacrime agli occhi, le imprese mi commuovono nel profondo. Ma l’ultimo giorno di Atene 2004 è inciso nel mio cuore: avevo conosciuto Stefano Baldini quando lavoravo all’ufficio stampa della Fidal a Bologna, lui correva ancora le campestri. Quella sera Atene era un unico gigantesco ingorgo, perché stava per cominciare la cerimonia di chiusura. Arrivai in redazione e mi accolse Dario Torromeo, che era il capo spedizione del Corriere dello Sport-Stadio. Mi disse: Baldini potrebbe vincere la maratona, corri allo stadio ad aiutare Franco Fava, serve qualcuno che intervisti Baldini appena taglia il traguardo. Non credo di avergli risposto, ero già fuori, con il portatile in spalla. Mi resi conto che avrei dovuto fare un’impresa anch’io: tutti gli accessi allo stadio erano blindati, c’erano misure di sicurezza enormi, correvo da una parte e appena mi avvicinavo trovavo un blocco dei soldati. Non ricordo più come riuscii a passare. Arrivai in tribuna che mancavano tre chilometri, e vidi arrivare prima di tutti l’ex ragazzino della Fidal Emilia-Romagna. Quella volta non riuscii a trattenermi: piangeva lui, e piangevo io.

3) Giusto per avere la sensazione di guardare dallo spioncino: ha aneddoti, curiosità da raccontarci? Qualche retroscena bizzarro, qualche corridore che ha conosciuto, un qualche imprevisto del suo lavoro al seguito delle grandi corse?

Ho cominciato a seguire il ciclismo al Giro del ’98, quello di Pantani. Ma io nella mia testa lo chiamo ancora «il giro di Bartoli» perché fu Michele il primo corridore che andai a intervistare — eravamo a Nizza, un paio di giorni prima che il Giro partisse — e fu una specie di colpo di fulmine. Da allora ho sempre avuto un debole per Michele. Anche se lo stesso giorno cominciai a seguire da vicino Marco Pantani, una lunga storia che mi ha portato sui Campi Elisi, sotto il suo podio. Ma anche all’obitorio dell’ospedale di Rimini. O fuori dalla chiesa il giorno del suo funerale, perché la Tonina, sua madre, cacciò tutti i giornalisti, senza fare differenza fra chi lo aveva usato (e ancora lo usa) e chi gli aveva voluto bene. Non parlo volentieri di Pantani, non ho letto i libri che sono stati scritti su di lui, né ho visto i film. Ho fatto eccezione soltanto per lo spettacolo teatrale di Marco Martinelli, ma in genere non sopporto che qualcuno mi parli di Panta, per me rimane il ragazzo che ho conosciuto e con il quale parlavamo in dialetto quando eravamo da soli. Non sopporto chi lo chiama Pirata, lui voleva essere chiamato Panta. Un aneddoto però è legato proprio a lui. Sui Campi Elisi, mentre aspettavo — assieme ai miei amici e colleghi Pietro Cabras, Angelo Costa, Pier Augusto Stagi, Cristiano Gatti e Giovanni Cerruti — che il Tour finisse e Pantani salisse finalmente sul podio, persi una lente a contatto. Il vento, la polvere, chissà. Non potevo tornare in albergo a prendere gli occhiali perché avrei perso l’arrivo di Marco, e allora rimasi lì con una lente sì e una no. Ci vedevo poco e male, ma riuscii a godermi lo spettacolo lo stesso. Ho una foto bellissima di Panta, alla fine di tutto, che ci viene incontro con un sorriso clamoroso. Eravamo tutti vestiti di giallo come lui (un colore che odio), ed eravamo la faccia della felicità. Fu un momento magico. Quando le migliaia di persone se ne furono andate, vidi brillare qualcosa sull’asfalto: era la mia lente. Davvero una magia.

--

--