Quattro volte Fiandre

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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5 min readApr 6, 2016

Provare a raccontare il Giro delle Fiandre è sempre difficile, non ci si riesce neanche stando direttamente lì sul posto, figuriamoci sdraiati sul divano davanti al televisore. D’altronde ci sembra anche inutile. Ha senso fare un riepilogo piatto di quello che è successo domenica scorsa? Noi abbiamo scelto solamente quattro momenti, forse anche scollegati tra di loro in apparenza, ma che riassumono — o quantomeno provano a farlo — cosa significa per un corridore partecipare al Giro delle Fiandre. Che sia il campione del mondo in carica, un mezzo sconosciuto, o una leggenda al termine della propria carriera, poco cambia. In fin dei conti tutti e tre sono accomunati da un unica cosa: correre una delle gare più belle dell’anno soffrendo insieme.

#1 La sofferenza

Nel 1913 erano solo trenta corridori a partecipare alla prima edizione del Giro delle Fiandre. Un piccolo numero di pionieri lanciati a tutta per trecentotrenta km nel cuore della regione fiamminga del Belgio, tra Gent e Bruges. Ad ispirarli fu Karel Van Wynendale, fondatore del giornale Sportwereld, che nel maggio di oltre un secolo fa ideò quella che oggi è una delle corse più importanti dell’anno.

Ogni anno oltre 250 km di strada da percorrere, con due elementi diventati nel tempo caratteristica principale e simbolo della corsa: il pavé e i muri. Il Muur, il Koppenberg, il Vecchio Kwaremot, e il Paterberg: nomi di brevi e ripide colline fiamminghe, costituite da un fondo stradale in pavé, con pendenze che in alcuni tratti arrivano a superare il 20%. Veri e propri muri da scalare, strappi arcigni che rendono i corridori delle sagome sofferenti, figure da inferno dantesco che si sforzano anche di restare in equilibrio sulla bicicletta.

Il Giro delle Fiandre ha suscitato fin da subito l’interesse delle persone, inchiodate ai lati delle strada per assistere allo sforzo sovrumano dei corridori. Non è un caso se non tutti possono partecipare a questo tipo di competizione. Non basta essere un bravo passista, un bravo scalatore, o un buon velocista; prima di tutto è necessario essere un corridore completo, in grado di unire al massimo queste caratteristiche e proiettarle lungo tutto il percorso della gara. Più o meno le stesse qualità che servono per molte altre classiche, ma che qui diventano ancora più decisive in virtù dello sforzo a cui vengono sottoposti i corridori.

#2 L’invincibile

Dopo aver conquistato il campionato del mondo nello scorso settembre, Peter Sagan è entrato in una fase decisiva della sua carriera, uno spartiacque fondamentale per capire una volta per tutte se scrivere il proprio nome accanto alle leggende della storia del ciclismo.

All’inizio di questa stagione tutti si aspettavano da parte sua qualcosa di diverso rispetto allo scorso anno, forse una convinzione maggiore nei suoi mezzi, o una migliore lettura tattica delle corse. Non è così. La realtà è che tutti volevano — e continuano a volere — una sola cosa: che Sagan diventi un corridore in grado di vincere tutto. Non un campione, ma una categoria ancora oltre, un specie di reincarnazione di Eddy Merckx.

La straordinaria dimostrazione di forza di cui ha dato prova in questi ultimi anni in tutte le corse cui ha preso parte ha fatto sorgere nei tifosi — ma anche nella critica — la voglia di vederlo vincere in qualsiasi frangente possibile, sempre e comunque, in qualsiasi occasione. Questo per un motivo molto semplice: essendo Sagan uno dei pochissimi corridori fuori portata per chiunque, è anche l’unico su cui proiettare dei desideri inconfessabili, dei sogni ai limiti dell’immaginabile. Non bastano settantasette vittorie in carriera a soli ventisei anni, Sagan può e deve fare ancora di più.

Con la straordinaria naturalizza che contraddistingue ogni supereroe, Sagan è già riuscito in parte a rigettare ai suoi mittenti questo genere di pressioni che potrebbe far fuori chiunque. Oggi, solamente ad inizio aprile, ha già conquistato due delle corse più importanti di questo 2016: la Gand — Wevelgem, ma soprattutto il Giro delle Fiandre, la sua prima classica monumento.

Oggi Sagan sta per attraversare una sorta di punto zero da cui ripartire con un nuovo vestito: la corazza pesante degli invincibili.

#3 Il poker mancato

Quest’anno l’attenzione del pubblico si è concentrata, oltre che su Sagan, soprattutto su due corridori: Fabian Cancellara e Tom Boonen. Gli unici ancora in attività che abbiano vinto il Giro delle Fiandre per ben tre volte. Nessuno è mai riuscito a conquistare il poker nella centenaria storia di questa gara, ed è stato naturale veder crescere l’hype del duello tra i due sfidanti.

Se poi aggiungiamo il fatto che per Fabian Cancellara questo è l’ultimo anno da professionista, l’hype si è trasformato in una sorta di proiezione romantica, di narrazione idilliaca dove uno sportivo, al termine della sua carriera, scrive la pagina più emozionante della sua storia.

Ma non è andata così. A differenza di Tom Boonen, in una condizione meno brillante rispetto allo svizzero, Fabian Cancellara è stato l’unico che realmente si è avvicinato a sfiorare l’impresa. Una condizione strabiliante l’ha sorretto per tutto l’inizio della stagione e forse, se non avesse avuto tra i piedi Sagan, ora staremo qui a parlare di tutt’altro.

Fabian Cancellara ha disputato una grandissima gara, competitivo fino all’ultimo, l’unico che ha saputo tener testa allo slovacco, anche se stavolta non è riuscito a cogliere l’attimo. Nel momento in cui Sagan, a 32,5 km dal traguardo, è partito per riprendere Kwiatkowski, lo svizzero è rimasto attardato, e nonostante lo sforzo e l’inseguimento in solitaria non è più riuscito a riprendere il campione del mondo. Il paradosso è proprio questo: Cancellara ha perso la sfida in un terreno a lui ideale, la cronometro. Durante l’inseguimento — se eliminiamo per un attimo la presenza “inutile” di Vanmarcke — non è mai riuscito a rappresentare un serio pericolo.

A questo punto potremmo tirare in ballo qualche racconto nostalgico su come è bello ed emozionante che uno sportivo al termine della sua carriera esca di scena tra gli applausi delle persone, tra la commozione generale ecc. No, non è così, Fabian Cancellara si trova in un vero e proprio stato di grazia e la stagione è ancora lunga per mettere la parole fine alla sua storia o per fare gli elogi della sua straordinaria carriera. D’altronde domenica prossima c’è la Parigi-Roubaix.

#4 Senza paura

Imanol Erviti invece non sarà un uomo da copertina ma si fa i suoi 180 km in fuga e arriva settimo. Prima di lui un solo spagnolo, Juan Antonio Flecha (naturalizzato, perché nato a Buenos Aires) si era classificato nei primi dieci al Giro delle Fiandre. A Pamplona, dov’è nato, nonostante la vita da gregario, Erviti avrà d’ora in poi il sacro rispetto che viene portato ai toreri.

Sarà stato il sole che stranamente splendeva sulle Fiandre a farlo sentire un po’ più a suo agio e un po’ più a casa. A 32 anni suonati una grande prestazione e la desolazione che forse a scoprire prima la terra di Brel, dei muri e del pavé sarebbe stata una carriera diversa. 180 km senza paura, come il milione di tifosi riversati nelle strade nonostante il clima di tensione dovuto ai tragici fatti di Bruxelles del 22 marzo. Da tradizione, la corsa non si é fermata, come già era accaduto durante la seconda guerra mondiale. E come si spera sarà sempre.

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