Quel leggero senso di angoscia che accompagna la premiazione del Pallone d’Oro

Crampi Sportivi
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11 min readJan 9, 2017

Alla fine ci sono riusciti, era soltanto questione di tempo. I nostri occhi, gli occhi di chi sfogliava ogni weekend la margherita dei possibili candidati, quegli occhi iniettati di goduria si dicevano già tutto da quando abbiamo iniziato ad apprezzare i sorteggi di Champions, simpatizzando per Gianni Infantino, sostituendo ogni porzione di quell’oggetto lucente con porzioni di accoppiamenti casuali. Passavano gli anni, si ammassavano i giorni, avevamo già capito che iniziava a non interessarci più perché (molto semplicemente) non lo capivamo e le cose comunque non andavano più bene come anni prima.

Chi monitora attentamente gli sviluppi del Pallone d’Oro avvertiva da tempo l’avvicinarsi del momento decisivo, l’attimo in cui nessuno ci avrebbe più capito nulla, come nei tentativi a vuoto col cubo di Rubik, ripetuti freneticamente fino alla resa. Prima la fusione, poi ancora la scissione, processi di modifica come operazioni sugli atomi, cerimonie che si sovrappongono tra loro mischiando sorteggi e premiazioni, mistificando il concetto di casualità fino a renderlo omologato per entrambe le manifestazioni. E poi quel bisogno di celebrare, sollevare al cielo un trofeo che però col tempo incomincia a sbiadirsi, a essere opaco, brutto.

Il calciatore simbolo della razza pallonara mondiale, questa volta sorprendentemente Cristiano Ronaldo, cerca di incastrare impegni e comparsate come una rockstar e si concede la vittoria del suo secondo Pallone d’Oro France Football (o del suo quarto Pallone d’Oro di sempre, precisazione che ti eleva nelle chiacchiere da bar). Ma annega tutto nella possibilità concessagli di non presenziare alla premiazione.

Le sedie in sala tremano, anche i vertici della nota rivista francese non riescono a individuare le concause della sonora caduta di appeal del premio individuale più ambito e affascinante del Mondo mentre, molto casualmente, Ronaldo è costretto a partire per il Mondiale per Club FIFA proprio nel giorno della cerimonia finale. Nessuno si spiega come sia successo: era nato come un passatempo redazionale, il classico giochino del “piace a noi, facciamolo piacere agli altri” che col tempo è diventando tendenza, cultura pop e ambizione.

Ora giace inerme quasi come fosse stato ammaccato, trasformato negli ultimi otto anni in una corsa a due tra i dominatori celesti del calcio terrestre, ancora una volta impegnati nel testa a testa più emozionante/noioso di sempre. Talmente ambivalente da rendere più interessante la diatriba Pelè/Maradona, perché ormai non ci sono più aggettivi o storie nascoste da tirar fuori sulla pseudo-rivalità tra Cristiano Ronaldo e Lionel Messi.

Per l’ottavo anno consecutivo si sono contesi il leggendario Ballon d’Or a suon di giocate fulminee, voli illuminanti e autarchici tra le difese avversarie, gol impossibili anche solo da disegnare con un joystick in mano. Messi o Ronaldo, prima uno e dopo l’altro, nello stesso campionato, nella stessa nazione ma in due squadre rivali, due storie profondamente diverse e ispiranti che hanno dato alla luce film, libri, long-form, noie galattiche.

In ognuna di queste storie si è sempre parlato del tanto atteso momento in cui la sfera di lucente metallo passa dalle mani del responsabile della serata a quelle del suo vincitore, sotto gli occhi dello sconfitto di turno tra i due e di un altro uomo piccolissimo, messo in un angolo e lontano dal mondo, sconfitto già al momento dell’annuncio dei tre finalisti che di solito avviene settimane prima.

In nove anni di interregno sono uscite fuori otto storie di giocatori fortissimi che verranno ricordati come appiedati, semplici spettatori de La Rivalità, vestiti come l’arbitro di turno che assiste al match tra i due wrestler che si prendono a pugni. Sono partiti tutti da lontano, armati di scarpette e fagotto e diretti verso la serata finale, speranzosi nel tentativo di interrompere la furente lotta.

El Niño de Liverpool

La prima volta — sembra quasi un’epoca fa — l’infausto ruolo di spettatore non pagante è toccato alla trasformazione finale di Fernando Torres, la versione definitiva del centravanti che avrebbe dovuto e potuto spaccare in due il pianeta semplicemente passeggiando nelle aree piccole dell’Anfield. A.D. 2008.

Il Pallone d’Oro finisce in mano a Cristiano, ancora ragazzino vestito di rosso e dribbling in slow motion: Ronaldo porta a casa Premier League con annessa classifica cannonieri e miglior giocatore, Community Shield e Champions League da miglior marcatore, praticamente un giocatore scatenato che non teme rivali. Già l’anno precedente si era piazzato al secondo posto dietro Ricardo Kakà, l’ultimo mortale a vincere il premio, relegando alla terza piazza la sua emesi argentina.

Nel 2008 la legacy ha ufficialmente inizio e Ronaldo mette ancora una volta dietro di sé Messi: i due lasciano un angolo libero sul palco parigino e questo piccolissimo cono di luce viene occupato dal Bambino, Fernando Josè Torres Sanz, al suo primo anno al Liverpool dopo esser stato il più giovane capitano dell’Atletico.

Torres non è il bug visto a Londra, sponda Chelsea, e non è nemmeno il giocatore opaco di Milano o la vecchia volpe del replay madridista: l’aria dell’Anfield spalanca i polmoni al ragazzo che, alla sua prima stagione da Reds, segna 33 gol in 46 partite senza vincere assolutamente nulla, poi parte per l’Austria/Svizzera e si laurea campione d’Europa con il suo Paese, torna indietro e dimentica tutto, per sempre.

Ce la siamo dimenticati, vero? La versione deluxe di Torres.

Fernando perde pezzi del suo talento, ostacolandosi con infortuni e sliding doors imboccate male che non gli permetteranno mai più di ripetersi ad altissimi livelli. All’ombra del primo capitolo di questa storia si nasconde un bimbo a cui la terza piazza ha rubato per sempre la voglia di giocare: non avrebbe meritato il gradino più alto del podio, forse poteva ambire al secondo posto grazie alla terrificante mole di gol e alla vittoria con la Roja, ma passata la premiazione è rimasto solo il ricordo di un centravanti che per 10 giorni è stato Campione del Mondo e d’Europa con la sua Nazionale, campione d’Europa per club e detentore dell’Europa League. Incastri celestiali per una carriera da incompreso, una volta toccato il cielo bisognava precipitare inesorabilmente.

Il contingente spagnolo e l’olandese nerazzurro

Il 2009 è stato l’anno in cui Xavi Hernandez ha capito che nessuno mai gli avrebbe riconosciuto di essere il cervello in scarpette più forte del Mondo, ma tre terzi posti consecutivi sarebbero potuti essere un giusto lasciapassare per l’immortalità, incastonata in quel “tre terzi” prettamente scioglilingueo. Sia chiaro, non c’era certo bisogno dei tre podi per certificare un talento sconvolgente, ma sicuramente nella storia di Xavi spicca il suo essere sottile, quasi un passeggero all’interno di una macchina da guerra di cui lui stringe saldamente il volante.

Nel 2009 France Football consegna il suo ultimo trofeo prima di convolare a nozze con la FIFA: la prima piazza è tutta per il devastante Lionel Messi, scudiero dei culè tripletisti e al secondo posto ovviamente si accomoda il portoghese mezzo dello United e mezzo madrileno per via del trasferimento record avvenuto in quella stagione. Sul gradino più basso Xavi apre un ciclo da strepitoso perdente che durerà per tre stagioni consecutive: tre stagioni in cui Xavi si piazzerà sempre al terzo posto, arricchendo la narrazione del fenomeno ex-Rosario e riempendola di assist goniometrici, linee di passaggio cadute dal cielo e varchi aperti come se fosse aperta campagna.

Prima dell’esilio qatariota (ma perché l’hai fatto?), Xavi si è concesso il lusso di vincere qualsiasi cosa ostentando una classe impareggiabile, ma quello che più impressiona del lavoro svolto dalla coppia Xavi-Iniesta è come i due siano riusciti a diventare quasi l’alter ego di Messi, esaltandone le capacità fino a esasperare le proprie, dando vita alla domanda delle domande: “Come giocherebbe Messi lontano dal Barcellona e lontano da Xavi e Iniesta?”.

Piccolo spoiler: senza Xavi e Iniesta cambia poco, lontano da Barcellona le cose sembrano un tantino più elaborate e di difficile interpretazione.

Xavi-Iniesta, il ping pong nevralgico e nevrotico che regala due podi anche a Don Andrès. Il Palllone d’Oro 2010, quello della svolta nella sua concezione, diventa appannaggio dei blaugrana con Messi, Iniesta e Xavi in ordine sul podio. Anche nelle due stagioni successive la storia cambia solo marginalmente, con Messi primo nel 2011 e nel 2012, Ronaldo secondo entrambi gli anni e la coppia di centrocampo culè che si divide equamente la terza piazza. Iniesta raccoglie il terzo posto nel 2012, così da poter ereditare definitivamente lo scettro di centrocampo del compagno prossimo al passo d’addio.

Ma qualcosa cambierà.

Quando la Champions e un Mondiale NON bastano

Ribéry non è mai parso come un giocatore buffo e anche gli sponsor hanno spesso giocato col suo aspetto da orco cattivo e temuto, ma la terza piazza del 2013 è forse la cosa più particolare e comica che riesco a trovare nella sua storia. Dopo quel terzo posto, semplicemente, Ribéry ha deciso che non voleva giocare più. È un concetto difficile, che non si aggrappa a dati statistici o ad analisi di chilometri percorsi: 41 presenze e 11 reti nella stagione dell’exploit prima di un lento e costante declino di rendimento e di impiego.

Le grane fisiche iniziano a farsi sentire e Franck si concede sempre più spesso alla camera iperbarica, ma il suo tracollo verticale — molto simile a quello di Torres — può avere diversi nomi come sentirsi appagati, rinnovo del contratto, fama inesauribile e immortalità ottenuta. Ribéry non ha certamente dimenticato come si gioca, ma lo smacco (inavvertito da parte del giocatore, queste sono semplici elucubrazioni) del terzo posto ha cambiato il modo di vedere le cose e ora, con la bacheca piena di trofei, scendere in campo vuol dire onorare la maglia e le firme sul contratto, deliziare la platea, chiudere la carriera evitando di rompersi qualcosa fino alla fine.

Anche Manuel Neuer, la stagione immediatamente successiva, ha voluto proseguire il discorso iniziato dal compagno di squadra francese senza cadere nell’oltraggioso, senza andare a disturbare il duopolio là davanti.

Dalla sommità del palazzo più alto del Mondo, dove vi si può accedere soltanto una volta sollevata al cielo la Coppa del Mondo, Neuer siede su una poltrona regale ricamata a mano e rivestita di gemme: scruta la terra sotto di lui, osserva divertito migliaia e migliaia di piccoli omini che inseguono un pallone nella speranza un giorno di poter sedere vicino a lui. Il suo sguardo abbraccia tutto ciò che può e che deve ma si ferma all’orizzonte, dove Manuel non riesce a distinguere alcune sagome circondate da un’aura dorata. Possibile? No, non può essere vero.

Tutta la Nationalmannschaft viene chiamata a rapporto, i giocatori bardati di bianco seguono il dito guantato di Neuer che si perde all’orizzonte: lì, al confine del nostro regno c’è qualcosa che si cela ai nostri occhi, agli occhi dei campioni del Mondo. Neuer parte, prepara un fagotto mettendoci dentro il titolo di giocatore dell’anno della Bundesliga, la Coppa di Germania, il Mondiale per Club, il titolo di Miglior portiere del Mondo assegnato dall’IFFHS, la Supercoppa UEFA, la Coppa del Mondo.

Si mette in viaggio, cammina per quattro lunghi giorni quando riesce a distinguere qualcosa di definito nell’informe melassa color oro all’orizzonte. Manuel guarda il podio, i podisti guardano Manuel e Manuel ritorna indietro. Non basta tutta la gloria accumulata quell’anno, non basta per scalfire il cuore dei votanti al Pallone d’Oro. Lev Yashin se la ride, Manuel torna indietro e da casa qualcuno pensa che a Parigi si siano bevuti il cervello, che forse nel sistema di allenatori e capitani c’è qualcosa che si inceppa.

Novello terzo

Rimbalzati dal Pallone d’Oro: potrebbe essere la prossma produzione Netflix, arricchita ogni anno da un nuovo capitolo almeno finché le ginocchia di quei due rimarranno coese. Accantonato Neuer è toccato a Neymar Jr. che, poveretto, si è fatto anche convinto mettendosi l’anima in pace. Quelli venuti prima di lui hanno dimostrato che i successi con il proprio Paese non sono importanti, ciò che conta sembra siano definitivamente le reti segnate a grappoli.

Perfetto, allora la presentazione di Neymar quella sera a Parigi inizierà così:

“Signore e signori, chiamiamo sul palco Neymar da Silva Santos Junior, attaccante dell’Football Club Barçelona. Nato a Mogi das Cruzes, ha iniziato a calciare il pallone nelle giovanili del Santos, prima di passare al Barcellona nell’estate 2013. Un valore stimato di circa 100 milioni, Neymar in questa stagione 2014/15 ha messo a segno 22 gol e 10 assist in 33 partite di campionato, 7 gol e 1 assist in 6 partite di Copa del Rey, 10 gol e 1 assist in 12 partite di Champions League.”

Bene ma non benissimo: in quella stagione Messi & Ronaldo, scritti talmente tante volte insieme da sembrare una coppia di fatto, segnano la surreale cifra di 91 reti in due solamente in Liga BBVA. Spostano in una dimensione bionica le normali statistiche di rendimento e O’Ney si accomoda ben volentieri sulla terza piazza, dietro a Lionel primo e Cristiano secondo, consapevole di quanto sia stato impossibile, nella stagione passata, stare appresso a quei due che finalmente legittimano il loro duopolio.

Adesso ci siamo, lo abbiamo capito. Il Pallone d’Oro sta per ingoiare il trofeo di miglior cannoniere del Mondo. Bastava dirlo prima.

This is the end

12 dicembre 2016.

France Football pubblica una nota sul suo sito. Il vincitore del Pallone d’Oro 2016 viene annunciato così. Prima di andare avanti soffermatevi sulla qualità dell’immagine superiore per un semplice gusto per i dettagli.

Sono grato a Crampi Sportivi per avermi dato la possibilità di mettere per iscritto le mie ansie, le mie angosce sul mondo del calcio e sul mio personalistico modo di interpretarlo: precisamente un anno fa mi interrogavo sul futuro del Pallone d’Oro e oggi provo a guardarci attraverso, a capire cosa succede. La guerra FIFA-France Football e il mancato rinnovo dell’accordo di quest’anno si sono inevitabilmente rovesciati sul Pallone d’Oro 2016, con gran parte degli appassionati che hanno scoperto per puro caso il nome del vincitore (tra cui io), quel casuale Cristiano Ronaldo.

La consegna del premio è passata sottotraccia, nessuno si è accorto di questo ritorno alle origini e la polverina magica che circondava un evento fatto di glamour elevato a n-esima potenza sembra svanita nel nulla. I quotidiani si sono limitati a uno scarno commento puramente statistico e ampiamente inutile. Pare che sia stato consegnato un premio, da qualche parte vicino a noi, non si è capito bene cosa ma lo ha vinto Cristiano Ronaldo.

Ronaldo primo, Messi secondo, terza piazza per Antoine Griezmann. Vice campione d’Europa con Atletico e Francia, praticamente un elogio al fallimento di una stagione che lo ha visto sempre sconfitto. Primeggiare tra gli sconfitti, questo è oggi (forse) il Pallone d’Oro.

Qualcosa ci sfugge, ma è evidente che tutti questi stravolgimenti e questi premi che sbucano ogni anno ci hanno un po’ distratto. Con una mano sul cuore, possiamo dire che il Pallone d’Oro non ci interessa più, guardarci tra di noi e sentirci più tranquilli dopo averlo ammesso. Allo stato attuale delle cose è diventato un indicatore e quindi quest’anno ha vinto Ronaldo, però guardate che il suo modo di giocare sta cambiando, non è più quello di una volta e tira molto di meno da fuori.

Una cerimonia glitterata utile a permetterci di dire che CR7 sta diventando inesorabilmente vecchio. Ma da una parte c’è da stare allegri, perché se non altro queste ultime nove stagioni hanno portato alla ribalta il discorso “guarda un po’ tutti quelli che non l’hanno vinto e se lo meritavano”. Qualche anno fa riflessioni del genere hanno portato alla consegna di Palloni d’oro alla carriera e a correzioni che dichiarano che Pelè ne avrebbe vinti sette.

Però forse non ci interessa neanche questo, ecco che è rientrato in campo Domenico Berardi, il miracolo della palla che rotola sta compiendosi ancora.

Articolo a cura di Massimiliano Chirico

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