Quindici anni

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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6 min readJun 18, 2016

Amore mio,
ho sentito dire che scrivere qualcosa equivale a possederla.
E io oggi voglio possedere.
Io oggi voglio esorcizzare.
Io oggi voglio provare.a ricordare, e dimenticare insieme.
Oggi, amore mio, io voglio scrivere a te, che non leggerai mai.

E’ passato tanto tempo, dalla prima volta in cui ti ho vista. Io non lo sapevo, ma l’immagine di quel momento non mi avrebbe più abbandonato. Mi invase gli occhi e scassinò il cuore, scolpendosi nella mia memoria come la rappresentazione incontestabile di una felicità altra. Così, in un secondo. Se lo avessi saputo, avrei fatto qualcosa per evitarlo. Forse. Ma in genere quando te ne accorgi il presente è già passato, ti svegli una mattina e ti rendi conto che non stai facendo altro che ricercare quell’immagine di felicità. E che ne sei tremendamente lontano.

Succede che ti svegli una mattina, amore mio, e ti accorgi che sono passati quindici anni.

È il 17 giugno 2001, oggi c’è Roma-Parma. Ho quindici anni, da qualche giorno ho finito il primo anno di liceo scientifico, mi piace un ragazzino della Juve. Tra poco esco, mi metto una maglietta della Roma troppo grande per me e vado allo stadio. Penso, da qualche mese, a come potrebbe essere quel momento.

E la cosa che ricordo meglio, di quel preciso istante, è una certezza. Quella che la mia vita fosse cambiata per sempre e che, da quel momento in poi, non avrei più vissuto senza quella felicità. La certezza, illusoria, che per me l’attesa era finita.
E il vero inganno, amore mio, è che per quanto mi sforzi, io non riesco proprio a ricordarlo, il momento esatto in cui ti ho perduta. Forse è successo subito. Forse ho cominciato a perderti un secondo dopo averti raggiunta. Quando ho riaperto gli occhi, già non c’eri più.

È il 17 giugno

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2001, mio nonno è socio vitalizio della Roma. Ho quindici anni e sei mesi, lui ne aveva sedici quando la Roma ha vinto per la prima volta. Gliel’ho chiesto, ma di quel momento non ricorda nulla. Mi chiedo perché. Sono piena di domande che mi bruciano in gola.

Da allora, solo un tormento di domande sempre più ricorrenti. Tornerai mai? E se tornerai, sarò pronto ad accoglierti? Quanto sarai cambiata? Quanto sarò cambiato? E quanto c’era, dei miei occhi di ventenne, in quella tua bellezza così esatta? Domande pesanti come macigni, tanto più in quanto non soddisfatte dal sapore mutevole dell’istante vissuto che possa in qualche misura confermare, sorprendere, uccidere.

È il 17 giugno 2001, mio padre finora ha vissuto solo uno scudetto, quello di quando avevo menotre anni. Mica è detto che la felicità ritorna, dice: mio padre aveva ventotto anni quando ha visto il suo scudetto. Gliel’ho chiesto, ma di quel momento non ricorda nulla, e io non capisco come sia possibile.
Ho quindici anni, sei mesi, undici giorni e paura che facciano invasione di campo prima del fischio della fine, ma lui ha più paura di me, perché mica è detto che la felicità ritorna, dice, anche se mio nonno dice di sì perché lui di scudetti ne ha visti già due.

Di quella giornata lontana ricordo che il sole si era preso la città e se l’era bevuta fin dalle prime ore del mattino. Ricordo che il vento era caldo ma forte e alzava la polvere. Che danzava, malinconica, fra i viali insolitamente deserti di una domenica pomeriggio di inizio estate. Mi sentivo pervaso da una strana commistione di sensazioni contrastanti.
Quella che finiva quel giorno era stata una settimana lunghissima, che avrei tanto desiderato non essere costretto a vivere. Ci arrivavo stremato da un preliminare d’amore interminabile, iniziato da mesi e divenuto con l’incedere delle settimane sempre più intenso, ma che non voleva proprio saperne di sciogliersi in orgasmica gioia.
Ricordo i miei piedi sull’asfalto. Se non calpesto la linea andrà tutto bene. L’ombra che si allunga. Se non calpesto l’ombra andrà tutto bene. Se andrà tutto bene mi passerà il mal di testa. Ricordo un vociare lontano come lo strascico di un tuono. Lo ricordo crescere, ad ogni mio passo.
Ricordo la vista confondersi .
Poi, centomila persone.

È il 17 giugno 2001, sto entrando allo stadio. Vedo un ragazzo sui vent’anni camminare cercando di non calpestare le linee. Lui vede me ma poi si dimentica.

Il resto è confuso, ma alcuni dettagli li ho conservati intatti. Potrei raccontarteli come se accadessero ora. Ad esempio, la nitida sensazione della pelle che mi si stacca dalla faccia. Non so perché. Negli occhi spalancati mi entrava di tutto, non riuscivo a ricordare da quanto tempo non sbattessi le palpebre. Forse dall’intervallo, nel cesso. La pisciata più lunga della mia vita. Ho risalito le scale e prima di tornare sugli spalti mi sono fermato, ho trattenuto il respiro e ho pensato a Bruce Springsteen. Ancora ricordi sparsi, sparpagliati come bugie disordinate. Il cuore che mi tira calci in petto come un cavallo incazzato. Il tempo che non era mai stato così lento. E più passava, più il piacere diventava reale. E più il piacere diventava reale, più la paura che quell’ipotesi di realtà non si concretizzasse, rendeva la sofferenza ancora più acuta.

È l’ottantesimo. Ho quindici anni e paura di perdere la voce per tre giorni come il mese scorso al goal di Nakata al Delle Alpi.
C’è invasione di campo e io ho paura. Centomila sul prato meno due, o tre, o quattro: ci siamo io, il ragazzo che non ha calpestato le linee, qualcun altro ma pochi, c’è anche il ragazzino della Juve, quello che mi piace, ma è seduto. Il resto è sul prato. Li risucchiamo ai loro posti, li riprendiamo con la moviola all’indietro, li rimettiamo seduti fino ai tre fischi.

Poi, tre fischi.
Tre fischi, e il tuo volto.
E’ là che ti ho vista, amore mio.

Le braccia alzate al cielo di Damiano Tommasi, e poi più niente.
Il ragazzo che non calpesta le linee ora ha qualcosa negli occhi e mi guarda. Anche io lo guardo e penso che noi abbiamo vinto e loro hanno perso.
Abbiamo pochi anni e camminiamo verso le feste dei quartieri nella massa, con pezzi di Olimpico sradicato tra le mani, eppure quel momento non lo potremo mai raccontare e non capisco perché.
Al ragazzino della Juve non ci penso più.

Passi una vita ad aspettare quel momento. Cresci, desiderandolo come si desiderano quelle cose che temi non accadano mai, a immaginare come potresti reagire, quali pensieri profondi potresti dedicargli a suggello. Poi, nel momento in cui accade, senti che dentro qualcosa ti esplode. Un bruciore improvviso, stavolta è piacere vero, ma violento, che provoca disastri, come un aereo in fiamme che ti si precipita dentro. Qualcosa di nuovo.

E’ forse per questo che, proprio in quel momento, per difesa o contrappasso, io ho pensato a Bonacina. Non so se è vero che quando stai per morire tutta la vita ti passa davanti come in un film, ma quello che posso dirti, amore mio, è che nel momento in cui abbiamo vinto il campionato, nel momento in cui ti ho vista, io ho pensato a Walter Bonacina. E alla neve, subito dopo. Che in questa città è un po’ come uno scudetto. Perché quando cade, accade. E diventa storia. E diventa festa. E diventa canzone.
Tra “La nevicata del 56” e “Grazie Roma”, in mezzo ci passa più di una generazione, quella a cui storicamente non è concesso di beneficiare di quel qualcosa che attinge bellezza dalla sua stessa rarità. E noi, portatori di una splendida e struggente natura perdente, di questa bellezza così rara siamo custodi, e in essa ci incontriamo. E quando poi, di tanto in tanto, quel qualcosa ci cade addosso, allora la gioia si mescola allo sgomento, in un papocchio di sentimenti che disarma ma incanta, e tutto abbraccia. E che per sempre ci innamora.

Ho quindici anni, ne ho diciotto, ne ho quarantuno. È venuto da me un uomo senza età e mi ha detto che fra tre mesi degli uomini si infileranno con un paio di aerei di linea dentro al World Trade Center.
Gli ho chiesto che cos’è il World Trade Center, poi gli ho chiesto di non dire cazzate, ché la storia mica ci mette così poco a cambiare.
Sono quasi arrivata a Testaccio a piedi dall’Olimpico. È venuto da me un altro uomo senza età e mi ha detto che tra quindici anni Totti sarà ancora il nostro Capitano. Gli ho chiesto di non dire cazzate, ché gli uomini ci mettono troppo poco a cambiare.
Cerco nella folla che festeggia il ragazzo di ventanni, lo trovo che calpesta tutte le linee di tutte le strade. C’è un motorino che gli gira intorno e sul motorino in incognito ci sono Delvecchio e Batistuta che festeggiano con noi, ma questo lo leggeremo domani sul giornale.
Dico al ragazzo che non calpestava le linee quello che mi hanno raccontato i due uomini senza età, ma appena glielo dico, lo dimentichiamo. Se qualcuno ci chiede com’è quel momento, non sappiamo più rispondere.

di Michela Monferrini e Fabio Imperiale

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