Regola numero 3 — Rogério Ceni, O Mito
Immagine copertina tratta da SPFC em cartaz.
Articolo pubblicato il 3/12/2014. Ultima modifica 8/12/2015.
Seduto, guardo dalla panchina il pubblico che intona a tempo il suo nome. Lo acclamano, come sempre. L’uomo con la maglia numero 01 ha segnato l’ottavo gol di questa stagione, e lo implorano di non fermarsi. Di giocare ancora, un altro anno.
Ô, ô, ô, não para, Rogério.
Io questa scena l’ho già vista, più o meno dodici mesi fa. Lui alla fine decise di ascoltare il cuore ed i tifosi e di continuare per un altro anno. Un’ultima stagione, aveva dichiarato, e poi il ritiro: a gennaio avrà 42 anni. È anche ora, direte voi. E lo dico pure io, che sono il suo vice da cinque anni, e da cinque anni aspetto che sia il mio momento. Quando mi hanno chiamato in causa ho sempre fatto bene; mi assicurano che potrò essere il suo erede.
Non che non mi spaventi un po’, quest’eredità. Gente esperta sostiene che lui abbia cambiato per sempre il modo di interpretare il mio ruolo in campo. Più che per i gol segnati, per la centralità guadagnata nel gioco della squadra. Oggi nel settore giovanile della mia squadra si contano cinque o sei piccoli portieri che calciano le punizioni, fanno ripartire l’azione, forniscono assist. Non giriamoci troppo intorno: è uno dei calciatori più importanti della storia del Brasile. Ha battuto pure alcuni record di Pelé…
Io sono Denis Cesar de Moraes, umile portiere di riserva nel São Paulo Futebol Clube, e sto vivendo la crisi di identità più profonda della mia vita. Riguardo al mio collega e capitano, qualcuno si ostina a chiamarlo ancora Rogério Ceni. In realtà qui a San Paolo ha, per tutti, un nome molto più diretto e immediato. Lui è O Mito. E ha appena rinnovato il contratto anche per la prossima stagione.
[embed]http://www.dailymotion.com/video/x287gsm_ceni-marca-de-falta-e-torcida-canta-nao-para-rogerio_sport[/embed]
Il 5 aprile dell’anno scorso me la sono vista brutta. In una partita di Libertadores, Rogério, sbagliando completamente un’uscita, ci fece perdere. Mia moglie — siano bandite le donne che parlano di calcio — scrisse su Facebook — siano banditi i social network — che non è giusto che lui non lasci spazio a nessun altro e che debba giocare sempre e comunque, anche quando è fuori forma. Ci pensate? Avrei voluto sprofondare. Vidi la mia carriera al San Paolo concludersi improvvisamente; i sacrifici di una vita vanificati a causa della mia sposa e di Mark Zuckerberg.
La sera dopo, a fine allenamento, trovai il coraggio di andare a testa bassa dal mio capitano, per parlargli. Sì, ci vuole un bel coraggio perché, sapete, Rogerio, è un tipo spigoloso. Polemico, schivo, a volte permaloso. Non ha mai amato troppo i giornalisti, le telecamere e qualsiasi altra cosa o persona che possa distoglierlo dal suo lavoro. Il suo amato lavoro.
Insomma, gli dissi che era sempre stato il mio idolo e che l’unica cosa che desiderassi nella vita era di imparare qualcosa da lui. Non mentivo. Quando nel 2009 lasciai il Ponte Preta, mi cercava il Santos. Ma non dubitai nemmeno per un secondo: volevo giocare e allenarmi con Rogério.
Lui quella sera di aprile mi sorrise e disse di non preoccuparmi. Camminammo fino a uno dei bar che circondano Morumbi e, davanti a una Skol, iniziò a raccontarmi la sua lunghissima storia di passione e dedizione.
Mentre in queste ore mi guardo allo specchio e cerco di capire se ho voglia di essere la riserva di Rogerio Ceni ancora per un anno, quel racconto mi scorre davanti. Fresco e mitologico come allora.
Una volta ho letto che Allah nel Corano viene definito in 99 modi diversi, tutti bellissimi. Io non conosco tutti i 99 nomi attribuiti a Rogério, ma sono sicuro che un tifoso qualsiasi della Tricolor potrebbe elencarveli. Mito. Capitao. Idolo de milhões. Patrão. Indefinivel. Definitivo. Goleiro artilheiro, soprattutto. Significa portiere-cannoniere perchè, lo saprete già, è il portiere che ha segnato più gol nella storia del calcio.
Nel 2006 raggiunse ufficialmente Jose Luis Chilavert a quota 64. Il paraguaiano disse all’epoca: “Non è vero, io di gol ne ho fatti 70. Li ho contati tutti, e Ceni non mi ha superato.” Rogério non gli rispose a parole, ma è arrivato in pochi anni alla bellezza di 123 marcature totali. Una decina in meno di Kakà, per intenderci. Più di metà su calcio di punizione, le altre su rigore.
Armando Nogueira, un giornalista influentissimo qui in Brasile, ha scritto che “il calcio deve la trasfigurazione del ruolo del portiere a Rogério Ceni, un pioniere. Quello che prima era un elemento marginale in una squadra è diventato ruolo chiave in ogni impianto di gioco. Perché adesso ogni portiere deve giocare il pallone indifferentemente con le mani e con i piedi. E lo deve saper fare bene”.
Rogério mi raccontò che è bravo con le mani perché uno dei suoi primi amore sportivi era stata la pallavolo. A Sinop, Mato Grosso, dove si era trasferito con la sua famiglia da bambino, conquistò diversi titoli regionali. Nel 1989, sedicenne, fu convocato nella selezione statale per disputare i Giochi Studenteschi. Ah sì, è sempre stato uno studente modello.
Lavoricchiava pure, nel frattempo, assunto come ausiliario delle pulizie nella filiale cittadina del Banco do Brasil. Diventò ben presto il volante della squadra di calcio della banca: il portiere più grande della storia del Brasile ha iniziato da regista. Un giorno però il direttore della banca, che giocava in porta, diede buca. Il ruolo del portiere di riserva, per tradizione, toccava all’ultimo arrivato. Rogerio, l’ultimo arrivato, quel giorno parò qualsiasi cosa, con le mani e con i piedi. Non concesse nemmeno un calcio d’angolo, racconta.
Pochi mesi dopo diventò il terzo portiere del Sinop Futebol Clube, la squadra del paese. Tempo due settimane ed ecco la prima chance da titolare: una trasferta importante, contro il Cáceres. Rogerio respinse un rigore e salvò il risultato, un prezioso 1–1, guadagnandosi il posto da titolare per il resto del campionato. Il Sinop, per la prima volta nella sua storia, vinse il torneo.
Altri tre mesi e Rogerio ottenne un provino al San Paolo. Era il settembre del 1990. Andò alla grande: solo Leonardo riuscì a segnargli un gol e Pablo Forlan, il papà di Diego, lo selezionò.
Pochi sanno però che poteva saltare tutto, quel giorno. Rogerio, caso unico nella sua carriera, era arrivato in ritardo al provino.
Non ho mai conosciuto persona più precisa e puntuale di lui. Ogni giorno si presenta a Morumbi alle 8.30, prima di tutti, quando la sessione inizia alle 9. E’ così da un quarto di secolo. Tira, da solo, centinaia di calci piazzati. Dice che è un retaggio dei primi tempi nella grande squadra, quando era una riserva e telefonava a suo padre implorandolo di riportarlo a casa. Sei nato per essere uno sportivo, gli ribatteva papà Eurydes.
All’epoca il suo rinvio dal fondo non raggiungeva nemmeno la metà campo avversaria. Ma col tempo migliorò. Caralho, se migliorò.
“Me l’ha detto Beckham, il numero uno al mondo nelle punizioni è Rogerio Ceni del San Paolo”.
(Cicinho)
Telê Santana, il perfezionista del calcio verdeoro che riportò in auge il jogo bonito, fu l’uomo della svolta. Giusto per intenderci, Telê era uno che indicava ai giardinieri i ciuffi d’erba che andavano tagliati perché non di suo gradimento. Un giorno — era una trasferta in Messico — vide Rogerio armeggiare con un walkman. Funzionava a pile, e il portiere ne cambiò diverse durante il viaggio. “Cos’è, Rogério, sei diventato ricco? La prossima volta porto un mucchio di pile e te le vendo io stesso”.
Telê decise che Ceni (si cominciò a chiamarlo così perché in squadra c’erano altri due Rogerio, Pinheiro e Belem) si sarebbe incaricato di tutti i piazzati. Nel 1997, contro l’União São João, arrivò il primo gol. Fu un calcio di punizione, ma O Mito dice che fu piuttosto una ricompensa.
“Io do il 100% a questo club da anni. A molti piace giocare a calcio, ma non tutti possono farlo nella squadra che amano. L’impegno non è mai abbastanza, e io ho sempre lavorato più duramente di tutte le riserve, anche se adesso non mi interessano più i traguardi personali, ma solo quelli collettivi. A un certo punto ho smesso di scendere in campo per giocare a calcio: io scendo in campo per difendere i tre colori del San Paolo.”
Qualche tempo fa Rogerio, in cura dopo un brutto infortunio, ha noleggiato un piccolo aereo privato per seguirci in trasferta. Era una partita di secondo piano, ma lui disse che doveva stare con il gruppo a tutti i costi.
[embed]https://www.youtube.com/watch?v=WU1Vum9cDbE[/embed]
Lo scorso ottobre, in un prepartita, ero accanto a Rogerio durante uno dei suoi discorsi motivazionali. Il San Paolo non sarà di nostra proprietà ma è la nostra squadra, disse. Lui e Kakà poco prima leggevano un libro in cui è scritto che le vere bandiere di una squadra non sono i giocatori che vincono caterve di titoli, ma quelli che tengono duro nei momenti di tempesta.
Rogerio Ceni e Kakà sono la miglior spiegazione possibile del boom economico del nostro Brasile negli ultimi vent’anni. La loro professionalità e la loro voglia di arrivare sono le stesse che ci hanno spinto ad essere una delle grandi potenze emergenti, a trovare il nostro posto nel mondo. Per anni la nostra economia è cresciuta a ritmi vertiginosi, forse anche troppo. Abbiamo scoperto giacimenti petroliferi, investito in aerei e acciaio, avviato imponenti privatizzazioni.
Erano gli anni del presidente Lula, che promise di trasformare un grande Paese in una grande Nazione. Il cuore pulsante di questo processo travolgente è stata questa città. San Paolo, con i suoi grattacieli e il suo grande ponte sospeso, ha reso onore al suo storico motto: Non ducor, duco. Non mi faccio condurre, conduco.
Il São Paulo Futebol Clube ha condotto il calcio brasiliano in cima al mondo, nel 2005. A Yokohama, Rogerio guidò i suoi al successo sul Liverpool. Con la nazionale campione del Mondo in carica e Ronaldinho miglior giocatore del pianeta, il dominio verdeoro sul calcio planetario poteva considerarsi totale.
La Tricolor vinse tre scudetti consecutivi, dal 2006 al 2008, e si trasformò definitivamente da team elitario a grande squadra popolare, in grado di attrarre tifosi di ogni etnia ed estrazione sociale. La terza torcida del Paese, dietro solo a quelle di Flamengo e Corinthians.
In tutto ciò il portiere del San Paolo, che ve lo dico a fare, era sempre lo stesso. L’uomo che sembra aver deciso di farmi passare alla storia come la “riserva eterna”.
Rogerio è un simbolo del Brasile nonostante il suo rapporto con la Seleçao non sia stato memorabile. Il feeling con i diversi selezionatori, soprattutto con Scolari, non è mai sbocciato. In più la nostra nazionale poteva permettersi di schierare gente come Dida o Julio Cesar, ai tempi. Da riserva, il mio amico ha partecipato a due Mondiali (2002 e 2006) e ne ha vinto uno, in Giappone e Corea.
Chissà se io avrò mai la possibilità di partecipare a un Mondiale.
Nel 2002, la grande sfilata di Rio per omaggiare l’ultimo Brasile campione del Mondo, Rogerio la vide dal divano di casa. Atterrato a Brasilia con il resto della squadra, proseguì verso San Paolo subito dopo i festeggiamenti ufficiali. Al team manager disse: “Non vedo la mia famiglia da 51 giorni, è un’eternità. Abbiamo passato un sacco di tempo insieme qui in Nazionale ed è stato un piacere. Non ho giocato, ho lavorato, non mi sono mai lamentato. La mia parte l’ho fatta, ora vado a casa.”
Ha sempre considerato il San Paolo una seconda casa; la Nazionale, piuttosto, una specie di hotel. Ci sono alberghi che, per quanto lussuosi, non raggiungeranno mai lo stesso comfort del focolare domestico.
Abbandonata la parentesi incompiuta sulla Seleçao, decidemmo di abbandonare il bar e spostarci a casa di Rogerio. Fu lì che il racconto entrò nel vivo e assunse il ritmo cadenzato e la passione inesorabile di una ballata di Raimundo Fagner.
Nelle sue descrizioni apparvero i colori vividi di Santiago di Compostela, teatro del debutto ufficiale con la Tricolor: era un’amichevole col Tenerife. Arrivarono gli echi delle parole di Dino Zoff, che gli fece dei gran complimenti nel 1993; di Carlos Navarro Montoya, il modello per l’uscita a croce; di Michael Jordan, il campione preferito in assoluto.
Intervenne pure lo sconcerto dalla morte: nel 1992, quella del giovane portiere paulista Alexandre Escobar Ferreira (secondo Rogerio sarebbe diventato il più bravo di tutti); nel 1993 quella di donna Hertha, che non fece in tempo a godersi nessuno dei successi del figlio diventato Mito.
[embed]https://www.youtube.com/watch?v=ruofDiEj5P4[/embed]
Dalle parole di Rogerio cominciò a emergere un po’ di quel sentimento che a voi piace chiamare saudade. Nostalgia di un tempo che non c’è più e di una carriera che volge al termine. “Lo spirito è lo stesso dei 18 anni, ma adesso la gente mi chiama signore. Un po’ per educazione, un po’ per via dei capelli che non ho più.”
Gli chiesi del futuro. Magari qualche mese negli Stati Uniti, per imparare finalmente bene l’inglese. E poi in Europa, per carpire i segreti del calcio di Ancelotti, Guardiola e Mourinho. Qui molti sono convinti che Rogerio sarà il futuro del nostro futebol, l’ancora di salvataggio in questa fase di smarrimento. Allenatore, presidente o dirigente non fa differenza: se gli affideranno una responsabilità, o Mito non si tirerà indietro. Non l’ha mai fatto.
Dedizione totale e leadership. Parlando di questo, le mani di Rogerio cominciarono a sostenere parole sempre più incalzanti. I suoni delicati della musica popolare brasiliana presero a farsi rock. La narrazione sembrava adesso un pezzo degli AC/DC, il suo gruppo preferito. Il racconto del Mondiale per Club 2005 aveva Hells Bells come sottofondo. My temperature’s high, sembrava rimarcare.
Rogerio fu semplicemente perfetto, a Yokohama. Il miglior giocatore della competizione. Era stato già fondamentale pochi mesi prima, nella conquista della Copa Libertadores. Ma quello giapponese fu il miglior Ceni di sempre, senza dubbio. La parata su Gerrard, in finale, salvò l’1–0 e valse una carriera.
Chiuse la stagione 2005 con 21 reti all’attivo, da capocannoniere della squadra. “Quando vedo quei trofei, ritrovo ogni volta gli sguardi dei miei compagni, dell’allenatore e di tutti quelli che diedero un contributo.”
Tornato a casa dal Giappone, lo accolse sua suocera, donna Filomena:
-Adesso hai finito?
-Beh sì, ora ho il mondo.
-Io dico di no, invece. Ti conosco. Adesso ricomincerà il solito inferno: devo vincere, devo vincere, devo vincere.
La sua prima autobiografia, pubblicata nel 2006, si concludeva così: “Non che mi interessino le vostre finanze, ma vi consiglio di mettere da parte qualche dollaro per comprare l’aggiornamento di questo libro.”
Gli ultimi anni di carriera sono stati più avari di trofei e non privi di critiche e difficoltà: una volta Rogerio, visti i nostri tifosi contestare, ha pianto amaramente.
Ma sono stati anche gli anni dei record, battuti praticamente a giorni alterni. Io faccio fatica ad elencarli tutti, ma gli almanacchi no. O Mito aggiornerà qualche altra voce nei prossimi mesi; cancellerà dai libri del calcio altri nomi impolverati per inscriverci il suo. E quel nome resterà lì, immutabile, per lunghi anni.
Si fece tardi quella sera, a casa di Rogerio. Clara e Beatriz, le sue figlie gemelle, erano già andate a letto, accompagnate dalla placida mamma Sandra. Su una parete del salotto notai, incorniciata, la maglia indossata la notte della conquista dell’Intercontinentale. “Un giorno la metterò in un posto più adatto, ma non troverò mai un posto più adatto del mio cuore.”
Decisi di dirglielo. Prima di congedarmi, divenni brevemente narratore e spiegai a Rogerio che una volta mi aveva fatto tremare le gambe e piangere per la tensione. Era prima di un San Paolo — Atletico Mineiro di coppa. Noi eravamo abbracciati come sempre; Rogerio ci motivò come non mai.
Ci ricordò che le persone là fuori erano venute per vederci vincere, e noi dovevamo concentrarci solo su noi stessi. Ci disse di guardare in alto, una volta fuori, e osservare la gente che c’era e la maglia che indossava. Guardatelo anche voi, O Mito, mentre ci mostra il tricolore sulla sua divisa. Ascoltatelo, mentre urla di considerare l’opportunità che Dio stava dando alla vita di ciascuno di noi. Come squadra, come esseri umani, come uomini, come padri. Dio ci stava dando l’opportunità di scrivere la storia.
Gridammo qualcosa tutti insieme. Poi chiudemmo gli occhi e pregammo.
[embed]https://www.youtube.com/watch?v=POmn2J6EU-E[/embed]
Caro capitano, non mi sono mai sentito così vivo e così pienamente calciatore come quella volta. E questo tuo racconto di stanotte non lo dimenticherò mai.
Dissi questo, ci abbracciammo e andai via. Rinfrancato come dopo una remissione dei peccati a qualche minuto dalla Santa Pasqua.
“Tutte le squadre hanno un portiere, ma solo noi abbiamo Rogerio Ceni”
(Striscione della torcida del San Paolo)
Forse a questo punto potete intuire un po’ meglio quanto oggi non sia difficile confondere il São Paulo Futebol Clube con Rogerio Ceni. 1183 partite, di cui 878 da capitano. 597 vittorie con la stessa maglia. L’identificazione tra club e calciatore è totale. Nella storia è avvenuto poche altre volte: mi vengono in mente Cruyff e l’Ajax, Puskas e l’Honved, Maradona e il Boca, Di Stefano e il Real.
A San Paolo ci sono alcuni bambini molto piccoli che si chiamano Rogerioceni da Costa, o Rogerioceni Moraes. Alcuni ragazzi si sono tatuati il suo volto sul braccio, altri l’hanno dipinto sul cofano della loro auto. Nessuna distinzione di classe sociale: Antonio Correa Meyer, uno degli avvocati più in vista della città, ha dichiarato recentemente che uno dei suoi sogni più ricorrenti è di giocare una partita con Rogerio Ceni.
Di più: Raì gli ha ufficialmente ceduto il titolo di eroe più grande della storia del San Paolo e a Morumbi esiste già il progetto di una statua in suo onore. E’ stato calcolato che oltre venti milioni di persone hanno visto giocare O Mito dal vivo, allo stadio.
O Mito vuole ritirarsi da vincente. Quest’anno arriveremo secondi in campionato e siamo stati eliminati ai rigori dalla Coppa. Dopo l’ultima partita, il mio collega parlava fitto con Muricy Ramalho, l’allenatore. Si è convinto, ha rinnovato il contratto. Di nuovo. Fino all’agosto del 2015: “Un’altra Libertadores col Capitano”, titolava il sito ufficiale del club.
E Denis? Che ne sarà del povero portiere di riserva? Va a finire che si ritirerà prima lui di Rogerio, ridono alcuni. Farebbe meglio a trovarsi un lavoro, continuano altri ricordando il destino di un po’ tutti i portieri che negli ultimi 25 anni hanno riscaldato, come me, la panchina della Tricolor.
Devo essere forte, mi aspetta una decisione difficile. Ho ventisette anni e voglio giocare a calcio. Forse segnerò zero gol e nessuno costruirà una statua con le mie sembianze. Ma una parte di me è stanca di aspettare la grande occasione, come fossi Drogo in attesa dei Tartari.
Un’altra parte sostiene che invece la pazienza è una gran virtù, e talvolta nella vita le ambizioni personali vanno messe da parte in funzione di un disegno più grande.
La regola numero tre del regolamento del gioco del calcio prescrive che ogni squadra sia formata da dieci giocatori e un portiere. Io mi sono formato per anni alla scuola dell’uomo che più di tutti ha contribuito a spezzare questo incantesimo, ad aprire una strada. Ad azzerare la solitudine del portiere, che non è più costretto ad auto-convincersi, con il poeta, che della festa anch’io son parte.
Rogerio Ceni, maglia 01 sulle spalle, è riuscito a fare tutto questo qui in Brasile, dove di solito quei due numerini brillano se invertiti.
Gli vorrò sempre bene, e in fondo in fondo sono più che felice di vederlo giocare ancora. Farò le mie scelte e forse sbaglierò, come spesso capita a noi persone normali che ce la mettiamo tutta ma non diventeremo mai leggende.
Io sono ancora un umile portiere di riserva nel São Paulo Futebol Clube. Il mio capitano è tuttora Rogério Ceni. Come sapete, ha un nome molto più diretto e immediato. Lui è O Mito. Anche per me.
Rogerio Ceni, dopo aver completato la sua 23a stagione nel São Paulo e aver segnato altri 8 gol in competizioni ufficiali, ha annunciato il suo ritiro dal calcio giocato il 6 dicembre 2015. Denis Cesar de Moraes, tra pochi mesi, sarà il nuovo portiere titolare della squadra.