Il sistema rende liberi

Marco A. Munno
Crampi Sportivi
Published in
7 min readApr 5, 2017

Torniamo con la memoria a un’estate fa, alla fine della stagione 2015/16. I Rockets, conquistato l’ultimo posto utile per i playoffs con una sola vittoria di vantaggio sui Jazz, sono spazzati via dagli indomabili Warriors, di fatto privi di Stephen Curry per l’intera serie.

Sconfitti per 4–1, l’unica vittoria arriva di misura grazie a questo canestro di Harden, probabilmente viziato da un fallo commesso.

Specchio del morale della squadra, alla giocata del compagno la reazione è questa.

Forse a qualcuno era scaduta l’assicurazione da viaggio per il ritorno a Oakland?

Il pick’n’roll fra le stelle Harden & Howard ha avuto ancora meno successo di quello fra McGrady & Yao Ming, vista la caduta dell’alibi degli infortuni che hanno afflitto la precedente coppia di stelle; i due alpha dogs non sono riusciti a trovare un equilibrio e in estate, alla scadenza del suo contratto, la dipartita di Superman Dwight è la mossa più ovvia (Atlanta lo accoglierà con luci e ombre).

Persi anche Terrence Jones e Josh Smith, i Rockets puntano su Ryan Anderson, tanto eccelso al tiro da fuori quanto evanescente in difesa, e uno stagionato Nenè. La voragine lasciata dalle partenze sotto le plance non sembra per niente colmata.

Il resto della campagna di rafforzamento estiva porta inoltre in dote solamente Eric Gordon, che negli ultimi anni ha saltato più partite di quante ne abbia giocate.

A questo sommiamo l’ingaggio del particolare coach D’Antoni: Coach of the Year nel 2005 con gli sfavillanti Suns, Mike ha sulle spalle i fallimenti consecutivi a New York e Los Angeles, sponda Lakers, a rafforzare il dubbio che i successi a Phoenix fossero quasi esclusivamente frutto delle magie di Steve Nash.

Insomma l’offseason non sembra granché; nelle previsioni di inizio anno, nella Western Conference i Warriors sono accreditati come primi, con i soli Spurs a tallonarli, i Clippers leggermente dietro e una ridda di squadre di simile livello a giocarsi i posti dal quarto all’ottavo, col rischio di ritrovarsi fuori dalla post season. Tra queste ci sono Grizzlies, Jazz, Thunder, Trail Blazers, (i deludenti) Mavericks e appunto i Rockets.

D’altro canto, le fortune della squadra sono affidate al Barba James Harden: giocatore fra i primi 3 della Lega per talento offensivo, con una mano mancina superiore a quella del modello Ginobili (che gli fu indicato dal GM Sam Presti come riferimento a inizio carriera ai Thunder), ma dall’applicazione difensiva rasente lo zero.

…neanche se gli passa vicino.

Il GM però è Daryl Morey, uno dei pionieri nell’uso delle statistiche analitiche applicate al gioco, seguendo la via tracciata sul grande schermo dal film Moneyball: la linea impostata ai Rockets già da qualche anno prevede che il gioco debba indirizzarsi verso la ricerca di tiri dal pitturato o da 3 punti, eliminando i tentativi dalla media distanza, giudicati meno fruttuosi. È chiaro che con un’impostazione del genere, le idee di coach D’Antoni — che nel tempo ha perso il baffo, ma non la voglia di estremizzare il gioco — possono avere un appoggio per svilupparsi. Mike and James sono pronti per ricordarci come la famosa espressione legata alla missione Apollo 13 in realtà fu pronunciata con un tempo verbale non presente, ma passato:

Nella pre-season, arriva la dichiarazione d’intenti: “Quest’anno Harden giocherà da playmaker”, libero dalle attenzioni e dai contatti dei migliori difensori avversari per potergli contrastare la ricezione negli smarcamenti senza palla e quindi più fresco per creare gioco, qualità in cui già eccelle.

Quella che sembra una mossa poco influente — visto che Harden di fatto era già il creatore di gioco principale per i Rockets — rappresenta invece la punta dell’iceberg di un sistema costruito con pezzi che si incastrano alla perfezione fra loro.

Primo assioma: la creazione del maggior spazio possibile fra i vari attaccanti, di modo da rendere impossibili i recuperi sul proprio uomo dopo un aiuto difensivo. Lo spazio per ogni 1 contro 1 è quindi massimo: avendo infarcito il roster di specialisti dall’arco dei 3 punti, difensivamente la scelta sull’aiutare o meno diventa estrema, con tiri prodotti dall’attacco con pochissima opposizione.

Secondo assioma: anche nei primi secondi dell’azione, è lecito tentare un tiro con spazio sufficiente. Questo accelera vertiginosamente i ritmi, costringendo la difesa a un’attenzione maggiore sin da subito. La fiducia infusa ai giocatori anche nel prendersi tiri non ritenuti accettabili in altri sistemi fa aumentare le percentuali, rendendo molto performante il concetto di “7 seconds or less” per tentare una conclusione per l’attacco.

Effetto di questi due precetti: con 40 tentativi, gli Houston Rockets sono la squadra con più triple provate a partita, realizzandone 14.4 con il 36% rispetto ai tentativi, col tiro pesante a generare quindi 43 punti circa a partita.

Dicevamo poi di James Harden come iniziatore dei giochi d’attacco. Singolarmente il Barba è quasi impossibile da fermare: in penetrazione è più robusto di quasi tutte le guardie che gli vengano messe alle calcagna, oltre a essere un grandissimo collezionista di falli subiti, convertiti in punti da tiri liberi che tira con l’85.2%. Se gli viene lasciato spazio, punisce con il tiro da 3 punti con il 34.4%. Il salto di qualità è arrivato aggiungendo la volontà di coinvolgere i compagni coi suoi assist: con questo mood, è chiaro come organizzazioni difensive che prevedono un coinvolgimento di più difensori per fermarlo siano regolarmente punite dagli attaccanti “battezzati” dalle difese.

A dirla tutta, è proprio coach D’Antoni a forzare queste situazioni per le difese: la partenza delle azioni d’attacco di Houston prevede spessissimo almeno un blocco centrale portato in favore di Harden, così da potergli concedere anche un piccolo vantaggio nell’1 vs 1. Sfruttando poi le caratteristiche del compagno che porta il blocco, spesso la situazione diventa di 2 vs 1 dove trovare una difesa efficace diventa semplice quanto completare un cubo di Rubik.

Dando per scontato che non gli si voglia concedere la soluzione personale, né lasciandogli attaccare il ferro:

né concedendogli il tiro da fuori:

Se il bloccante, ad esempio, è un giocatore che fa dell’atletismo il suo punto di forza, con il pick’n’roll Harden acquisisce un vantaggio che, con l’aiuto difensivo sul Barba portato dal lungo avversario, viene concretizzato dal tagliante.

Se invece il bloccante è un giocatore dotato di buon tiro da fuori, il vantaggio viene concretizzato con il suo allontanamento dopo il blocco, in un pick’n’pop che evita il recupero del difensore dopo il consueto aiuto su Harden.

Le due situazioni vengono mescolate nel sistema di D’Antoni: per punire un ulteriore aiuto da parte del difensore del secondo lungo in campo, ecco Ryan Anderson restare lontano da canestro per una comoda conclusione.

Se il difensore del bloccante protagonista del pick’n’pop lo segue per impedire il tiro da fuori, in area resta un solo lungo, costretto a una difesa in inferiorità numerica con poche possibilità di scamparla.

Una strada potrebbe essere quella di esser più aggressivi, con entrambi i difensori coinvolti nel blocco ad impedire a Harden tiro e penetrazione. Tuttavia, se il pallone riesce a uscire dalle sue mani, il recupero in tempo del difensore del bloccante — vista la distanza dal punto di partenza — è quasi impossibile e il suo compagno in rotazione difensiva sul taglio dell’attaccante si ritrova con un gap fisico difficilmente sormontabile.

E invece, dal lato difensivo, che abbiamo già menzionato come più che lacunoso?

Non è diventato di colpo una piovra cone Kawhi Leonard, ma il Barba ha alzato i giri anche nella sua metà campo, sfruttando la massiccia struttura fisica che si ritrova: in uno degli scontri d’elite di questa stagione, contro i campioni in carica dei Cleveland Cavaliers, è sua la giocata difensiva a fermare Irving, a simbolo del risultato finale.

Insomma, i Rockets partono forte, fortissimo. Pronti via, dopo pochissimo mettono a segno una striscia di 10 vittorie consecutive.

Ma è solo l’inizio: nel prosieguo della stagione, sovvertono i pronostici posizionandosi nell’elite della difficile Western Conference, collezionando lungo il percorso gli scalpi di Cleveland Cavaliers, Golden State Warriors, San Antonio Spurs e Boston Celtics.

Il vituperato Eric Gordon tira con il 37.8% da 3 punti e coi suoi 16.4 punti di media ad allacciata di scarpe diventa il principale candidato per il premio di miglior Sesto Uomo della stagione. Tra l’altro, il suo concorrente per il premio è stato aggiunto al roster poco prima della chiusura del periodo di trades: con Lou Williams, i Rockets mettono in scuderia un altro furetto a portare in dote 15.4 punti a nottata, con il 34.9% al tiro fuori dall’arco, partendo dalla panchina.

Ma più di tutti è James Harden a trarre giovamento dal sistema impiantato da D’Antoni: The Beard mette a segno 29.2 punti a partita, ma soprattutto diventa il miglior assist-man della stagione, con 11.2 di media… in pratica, genera circa 56 punti a gara per il suo team. Inoltre, con 20 triple doppie messe a segno è il secondo nella specialità per questa stagione, dietro l’inafferrabile Russell Westbrook: data la capacità di rendere partecipi tutti i compagni all’interno del gioco, è insieme a un giocatore dalla tripla doppia di media il favorito per il premio di MVP stagionale.

Attualmente i Rockets risultano saldamente essere la terza forza della Western Conference. Il sorpasso nei confronti di una fra Spurs e Warriors per la conquista delle finali di Conference pare complicato, per non parlare della vittoria contro entrambe per essere la regina almeno del tabellone dell’Ovest.

Ma com’è che si dice? L’appetito vien mangiando…

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Marco A. Munno
Crampi Sportivi

Pensa troppo e allora scrive. Soprattutto di pallacanestro.