Salento Calling

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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6 min readApr 9, 2018

Se si esclude l’infausta parentesi della stagione 1994–95, che comunque era servita da trampolino per almeno un decennio di soddisfazioni, quando nel 2012 il Lecce tornò nell’allora Lega Pro Prima Divisione erano passati circa 25 anni dall’ultima volta che i salentini erano scesi tanto in basso. Non fu una retrocessione qualsiasi, quella del 2012, ma un tragico doppio balzo a ritroso, a penalizzazione della tentata combine di Bari-Lecce dell’anno prima.

Per questo e per il fatto che ormai i salentini erano diventati degli habitué della Serie A (o della Serie B, nel peggiore dei casi), in molti erano pronti a scommettere che, di lì a poco, la squadra giallorossa — frattanto passata in mano alla famiglia Tesoro dopo quasi vent’anni di gestione Semeraro — sarebbe tornata nel grande calcio, visti anche gli investimenti e i nomi messi in ballo per la pronta risalita. Al contrario di ogni previsione, però, il Lecce ha imboccato un lungo tunnel senza uscita, trovandosi ancora, a distanza di sei anni, intrappolato in Lega Pro, dopo aver consumato tante delusioni, due diverse gestioni societarie e qualcosa come dodici allenatori in una drammatica rincorsa senza fine verso la Serie B.

Famiglia Tesoro: un colosso dai piedi d’argilla

L’ultima volta che il Lecce si era trovato in terza serie era stata l’occasione per un gran rilancio. Deve aver pensato la stessa cosa Savino Tesoro, l’imprenditore salentino che nell’estate del 2012 acquistò, insieme al fratello Antonio, la compagine giallorossa appena retrocessa in Prima Divisione e che partì da subito con i grandi investimenti. Da una parte la conferma di molti dei titolari che avevano giocato la Serie A (Jeda, Esposito, Giacomazzi, il portiere Benassi), dall’altra l’acquisto di elementi di assoluto spessore per la categoria, tra cui Bogliacino e il romantico ritorno di Chevanton.

Con Franco Lerda in panchina, la promozione appare dovuta: troppo forte ed esperto questo Lecce per la Prima Divisione. Le prime giornate sembrano avvalorare questa tesi, non fosse però che i giallorossi macinano vittorie solo sulle ali delle loro individualità e non su quelle di un gioco in realtà solo abbozzato. Inevitabile che, in un campionato così pieno di trappole, tale mancanza possa rendere soggetti a un periodo di flessione. Flessione che puntualmente arriva in inverno e che costa la panchina a Lerda, sostituito a febbraio da Antonio Toma, tecnico della Beretti. Nonostante una ripresa di gioco e risultati, il campionato si conclude solo col secondo posto finale, che vuol dire play-off. Salta anche Toma, a favore di Giustinetti, chiamato ad hoc solo per gli spareggi promozione. Una scelta, questa, che palesa quanto si sia deciso di far affidamento sulle individualità piuttosto che sul gioco, ormai latente da settembre.

La trappola scatta quindi in finale, dove i giallorossi non riescono a superare un Carpi sì operaio, ma ben più organizzato dei giallorossi. I nervi saltano, la rimonta al ritorno non riesce e il Lecce resta in Lega Pro. Le reazioni di isteria collettiva dei tifosi del Via del Mare in quel pomeriggio di giugno 2013, sono solo una prova, l’ultima, di quanto la promozione fosse ritenuta dovuta. All’epoca sarebbe potuto sembrare solo un incidente di percorso; col senno di poi, è stato il preludio di una serie di stagioni amarissime.

Nonostante la ferita ancora aperta, i Tesoro proseguono sulla falsariga della stagione precedente. In luogo dei volti dell’anno prima, arrivano in Salento altri ex storici (Rullo e, a stagione in corso, Abruzzese), altri calciatori esperti decisamente fuori-categoria (Walter Lopez, Papini e l’ex Atalanta Ferreira Pinto) e soprattutto Fabrizio Miccoli, fuoriclasse a fine carriera finalmente profeta in patria.

Salvo grosse sorprese, con una squadra del genere la promozione dovrebbe essere cosa fatta. Ma questo Lecce non può dare nulla per scontato e infatti, al contrario di ogni previsione, l’inizio del campionato è da incubo: quattro sconfitte nelle prime quattro partite. Al posto di Moriero, a cui nel frattempo era stata affidata la panchina, torna Lerda, che riesce a ridare vigore alla squadra, rimontando il gap con le prime posizioni fino a giocarsi di nuovo la finale dei play-off. Stavolta di fronte c’è un Frosinone pericoloso e audace, con cui il Lecce lotta alla pari fino a soccombere ai supplementari. Altro boccone amaro, altro psicodramma per i tifosi. Soprattutto, ancora Lega Pro.

La colpa di tutto ciò è da cercare non tanto nella sfortuna (che comunque non è mancata, sia chiaro), quanto in una gestione dedita a improbabili ritorni e all’acquisto di elementi sì fuori categoria, ma a cui spesso rimane poco da dare al calcio e che con la loro classe non riescono ad incidere nel fango della Prima Divisione.

Un colosso dai nomi altisonanti, questo Lecce, ma che nasconde piedi d’argilla e una scarsa attitudine alla lotta, che in Lega Pro costa caro.

Un aspetto, questo, che i Tesoro nell’estate del 2014 ancora ignorano: arrivano Carrozza, Mannini e, direttamente dalla A, il fenomeno di culto Davide Moscardelli, che pure sarà uno dei migliori della stagione. Di lì a poco si palesano tutti i limiti di una squadra inadatta e mai davvero in corsa per la promozione, che chiuderà a cinque punti dai play-off dopo aver per giunta cambiato tre tecnici — ancora Lerda, poi Pagliari e infine Bollini. Visti i risultati deludenti e l’inevitabile ostilità riservata loro, i Tesoro lasciano e il Lecce si ritrova, dopo tre anni, ancora in Lega Pro, per di più con una squadra da rifondare e uno strappo profondo con la tifoseria.

Tundo e la cordata salentina: la normalizzazione

A salvare i giallorossi dal punto più basso della loro storia recente, nell’estate del 2015 interviene una cordata di imprenditori salentini, guidata da Enrico Tundo. Il Lecce ha la necessità di ricostruire, di ripartire per un campionato di vertice lontano dalle delusioni dei precedenti anni, cercando al tempo stesso di ricucire un rapporto con una tifoseria ormai disillusa. La parola d’ordine della nuova gestione diventa normalizzazione, per ripartire con una crescita graduale ma costante.

Il Lecce post-Tesoro è una squadra su misura, che riscopre l’umiltà necessaria per vincere e prova a costruirsi un’ossatura di giovani e giocatori più esperti sempre funzionali al progetto e alla categoria. Via i nomi da urlo, che hanno portato solo a grandi aspettative disattese; via anche Miccoli, che lascia la sua squadra del cuore dopo due anni deludenti, per un addio più che emblematico. Con Cosenza in difesa, Curiale a fare a sportellate davanti col confermato Moscardelli, l’incompreso Surraco, un Lepore ritrovato in mezzo al campo e Braglia in panchina, dopo la solita partenza con handicap, i giallorossi ritrovano i play-off. Di fronte a un Foggia tarantolato il Lecce va ancora k.o., stavolta in semifinale, ma le basi per una crescita solida ci sono tutte.

Per la stagione 2016-17 la società resta ferma sulle proprie idee, così che si aggiungono altri giocatori ben consci di cosa voglia dire affrontare la Lega Pro, fra cui Ciancio, Mancosu e Torromino, oltre alla conferma del giovane Caturano, che chiuderà la stagione a quota 17 gol. Con Padalino in panchina — sostituito nel finale da Rizzo, storico allenatore della primavera salentina — il Lecce si scopre solido per oltre metà del campionato, arrivando anche in vetta, prima di perderla proprio a scapito dei foggiani. Ancora play-off, stavolta persi ai rigori contro l’Alessandria. I salentini non riescono proprio a vedere la fine dell’incubo, ma finalmente hanno un progetto alle sue spalle adeguato alla Lega Pro, che a fine stagione nel frattempo è tornata a chiamarsi Serie C.

Non ci pronunceremo sul campionato ancora in corso, che vede i giallorossi impegnati per il sesto anno di fila nella terza serie del campionato. Vuoi per scaramanzia verso i tifosi leccesi, che ormai sembrano aver perso tutte le speranze, vuoi perché gli anni precedenti hanno già illustrato fin troppo bene la situazione della squadra. Diremo soltanto che, con pochissimi aggiustamenti, il Lecce, che è rimasto in mano alla stessa cordata pur vedendo defilarsi la figura di Tundo, ha confermato l’ossatura costruita negli anni precedenti e, sotto la regia di Fabio Liverani, ha trovato una solidità e una consapevolezza mai avute prima, proprio quando tutti avevano smesso di crederci. Da lassù, con umiltà, il finale ora è tutto da scrivere.

Articolo a cura di Patrizio RuviglioniParanoico since 1995. Ciò che rimane dopo cena, lo scrivo.

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