San Nicola e il forestiero
«San Nicola è amante dei forestieri». Su questo non ci piove. La prova ne è l’arrivo al vertice della Fc Bari 1908 del magnate malese Datò Dr. Ahmad Noordin. Il motto caro ai baresi ci introduce nel cuore di una storia in cui luoghi comuni, detti popolari e tradizioni sembra che la facciano da padrone. Del resto stiamo parlando di Bari che nonostante la vocazione mercantile, è in fondo una provincia meridionale con tutti i suoi lati positivi e quelli negativi. Non è un caso che mister Datò, come d’ora in poi chiameremo il malese visto che non c’è accordo unanime sul nome, si sia presentato alla città incarnando l’archetipo di un asiatico.
«Yanez, la prua a Giava»
Ovviamente quando a Bari dici Malesia, sempre per restare in tema di luoghi comuni, il pensiero corre a Sandokan di Emilio Salgari e al ciclo dei “I pirati della Malesia”. Alle pagine dei romanzi di Salgari sono legati alcuni dei momenti che conservo con maggiore affetto della mia tarda infanzia, anche se preferivo il ciclo dei corsari delle Antille. Purtroppo mister Datò, a parte la provenienza, non sembra possedere niente di gente come Sandokan, Tremal Naik o Yanez de Gomera. Sicuramente non dal punto di vista iconografico.
Brevilineo, con un baffetto sottile e un pizzetto appena accennato e l’inseparabile songkok, un copricapo di feltro di color marrone a tronco di cono, che secondo Wikipedia è un indumento tipico della zona compresa tra Indonesia e Malesia, e che assomiglia al fez. Nell’ordine mancano scimitarra, turbante e l’inseparabile mascara di Kabir Bedi.
Date queste premesse non sorprende che il primo impatto di Datò con la città si sia risolto una mangiata in riva al mare a base di ricci e cozze crude. Di tutti i topoi questo è forse quello che si aggancia meglio nelle menti della collettività. E nessuno, a partire da Gianluca Paparesta, che nei primi giorni del malese a Bari si è calato nelle vesti di anfitrione, si è sottratto dal rituale di iniziare l’ospite straniero ai frutti di mare crudi. Del resto il proverbio dice che i ricci più buoni si mangiano nei mesi con “R”, quindi ad Aprile siamo a cavallo.
Nel tour dei luoghi comuni non potevano mancare le orecchiete, che infatti sono state prontamente donate a Datò dal sindaco Antonio Decaro. Quelle fatte a mano mi raccomando, “ancora” pensate che sono quelle del supermercato. Che come è largamente noto, non c’entrano niente.
«Ma c’i jè stu Noordìn?»
L’arrivo al vertice dell’Fc Bari 1908 di mister Datò è stato tanto rapido quanto imprevisto. Fino ad un paio di settimane fa nessuno in città ne immaginava l’esistenza. Poi durante il posticipo serale di Bari — Cesena appare sulle tribune dello stadio San Nicola una bandiera della Malesia e in curva nord, il centro del tifo biancorosso, uno striscione incomprensibile ai più, compreso a chi vi scrive: «Salamat Datò». Solo più tardi, nonostante il mutismo di Paparesta in conferenza stampa, avremmo capito che si trattava di una iniziativa orchestrata dalla società stessa e che il testo in filippino significava «Benvenuto Datò».
Tralasciando le scelte linguistiche degli ultras, era chiaro che qualcosa stava per succedere. Si trattava del 56enne Datò Dr. Ahmad Noordin un tycoon malese che frequenta l’Italia già di diverso tempo è ha la sua base a Roma. In realtà Datò non è un perfetto sconosciuto alle cronache calcistiche nazionali. A gennaio scorso fu accostato alla Lazio di Claudio Lotito con il quale pare intendesse collaborare per creare una sorta di accademia per far crescere i giocatori malesi in Italia, un progetto che poi sembra non aver avuto nessun seguito. Nel mondo della finanza italiana invece ha investito concretamente, acquistando il 70% delle quote societarie di una casa di moda romana la Luigi Borbone, dopo essere stato colpito dalla bellezza di un abito bianco: «Farò di lui il nuovo Christian Dior» pare abbia dichiarato dopo aver concluso l’affare.
A Datò deve piacere usare delle frasi ad effetto che però non sempre riescono nel proprio intento e rivelano, almeno nel campo calcistico, una non esattamente perfetta conoscenza della materia. «Tra le mie priorità — ha spiegato Datò durante la conferenza stampa di presentazione a Bari- ci sono la costruzione di un centro sportivo, per dare possibilità ai talenti locali di emergere e creare una sintonia con il mondo calcistico malese, che ha bisogno di tornare ai fasti del passato». Resta ora da intendersi sul concetto di fasti applicati al calcio malese, che almeno noi baresi ci immaginiamo giocato nella jungla con il coltello tra i denti e una bandana in testa. E un po’ di matita per gli occhi che non guasta mai.
In realtà la storia di Datò è molto più sentimentale e il perché abbia deciso di investire i suoi denari in Italia ha un retroscena drammatico. Pare che il malese abbia dei problemi di cuore e che lo scorso dicembre per poco a causa di un infarto, accusato durante un esclusivo party romano, non ci abbia rimesso le penne. Il pronto intervento dei medici italiani che gli hanno salvato la vita avrebbe fatto scattare in lui la molla per ringraziare il nostro Paese. Da qui al Bari, passando magari per una soffiata di Claudio Lotito (che però i diretti interessati smentiscono), il passo è breve.
Permangono però diversi dubbi su chi sia realmente Datò e da dove provengano le sue risorse, che solo per quanto riguarda il Bari ammonterebbero ad una cifra vicina ai 10 milioni di euro (provenienti dal proprio patrimonio personale), da versare interamente entro metà maggio e di cui una parte sembra sia subito transitata nelle casse della società per far fronte alle imminenti scadenze quali gli emolumenti dei calciatori e le incombenze contributive e fiscali (che se non ottemperate farebbero scattare le esiziali penalizzazioni in classifica con conseguente riflesso sulla lotta della squadra biancorossa per qualificarsi ai playoff).
Dando un’occhiata ai rapporti tra gli uomini di affari malesi e il calcio ci accorgiamo che Datò non è l’unico malese ad aver deciso di entrare nel mondo del pallone. Prima di lui infatti Vincent Tan e Tony Fernandes hanno acquistato rispettivamente il Cardiff e il Queens Park Rangers, quest’ultimo posseduto in precedenza da Flavio Briatore e Bernie Ecclestone. Ma entrambi questi uomini d’affari malesi figurano nella classifica dei 50 uomini più ricchi del Paese, stilata da Forbes nel 2015. Nella lista del magazine americano di Datò, ovviamente, non c’è l’ombra.
Ombra che lo stesso Datò non ha voluto dissipare, almeno per quanto riguarda le proprie attività, nemmeno in conferenza stampa e nonostante le domande dei giornalisti. Si vocifera di interessi nel campo energetico e in quello dei diamanti. Quello che pare certo è che Datò sembra avere ottime frequentazioni con il governo malese e che, come lui stesso ha sostenuto, a investire nella squadra biancorossa potrebbero essere dei fondi sovrani dello stato asiatico, e probabilmente anche un maxi sponsor del calibro di Petronas, la compagnia petrolifera malese, la cui potenza è simboleggiata dalle omonime torri che svettano su Kuala Lumpur. Un’ipotesi però parzialmente smentita da Mario Sammartino, ambasciatore italiano in Malesia: «Io non sono a conoscenza di progettati investimenti malesi in Italia nel prossimo futuro», ha spiegato il diplomatico a La Repubblica.
Tutto ciò non ha impedito a Datò di dichiarare che in «cinque anni il Bari arriverà in Champions League». I proclami di solito portano male, ma a Datò è concesso tutto. Del resto per l’oroscopo cinese è nato sotto il segno del gallo. Qualcosa vorrà pure dire.
Da Tim Burton a Mister Datò: San Nicola è amante dei forestieri
In realtà il galletto non è più il simbolo del bari. L’effigie del volatile è stata tolta all’epoca del restyling del logo subito dopo l’avvento di Gianluca Paparesta. Nel nuovo logo è rimasta solo la cresta del gallo, perché all’epoca si disse che il galletto nella tradizione russa era un animale un po’ equivoco. Allora infatti si immaginava un futuro geograficamente ben diverso per il Bari.
Di nuovo: San Nicola è amante dei forestieri. E infatti la squadra di calcio e i suoi tifosi non si sono mai sottratti dalle sirene che provenivano da oltre confine. Un caso che ha fatto scuola è quello di Tim Burton il supposto miliardario texano che nel 2009 sbarcò in pompa magna all’aeroporto promettendo di acquistare dalla famiglia Matarrese l’intero pacchetto azionario della squadra di calcio. Ma dopo il suo rientro in America si persero le tracce non solo di lui ma anche dei suoi soldi.
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Ipotetici investitori stranieri sono tornati prepotentemente alla ribalta durante le fasi dell’asta fallimentare nella quale l’As Bari era precipitata a seguito del disimpegno dei Matarrese. Fu lo stesso Gianluca Paparesta, che dopo due tentativi andati a vuoto e un assegno di una banca indiana (che i giudici del Tribunale non vollero accettare) riuscì a comprare la società al prezzo di 4,8 milioni di euro, a suggerire piste estere per i futuri azionisti del Bari. Si parlò di arabi, indiani e russi ma in realtà nessuno di loro si palesò mai realmente. Al giro del mondo mancava solo la Cina che puntualmente è arrivata. Negli scorsi mesi più volte si è parlato di un interessamento di un tale Herman Zheng, ma a quanto pare alla prova dei fatti anche quest’ultimo si è dimostrato un bluff.
Nel frattempo sulla tolda della nave, che negli ultimi tempi aveva cominciato ad imbarcare acqua dal punto di vista finanziario, era rimasto Gianluca Paparesta. A soccorrere nel momento del bisogno l’ex arbitro ci ha pensato un imprenditore molfettese, Cosimo Giancaspro, che ha fornito un’iniezione di liquidi a dir poco necessari. Tutto faceva presagire al peggio per fortuna è arrivato Datò che in un sol colpo ha fornito garanzie alla compagine sociale, trasformando Gianluca Paparesta nell’eroe capace di traghettare la società verso un futuro più tranquillo.
Ma sull’operato di Gianluca Paparesta restano delle ombre. Da un lato va dato atto all’ex arbitro di aver guidato il Bari in un frangente difficile, di averlo sottratto, durante l’asta fallimentare, la società dalle grinfie di affaristi (uno dei quali nel frattempo è transitato dalle patrie galere per altre vicende) e di aver mantenuto la promessa di dare alla città una squadra che avrebbe potuto competere ad alti livelli, nonostante questa sia più un’aspirazione che un dato di fatto, considerato che storicamente il Bari ha sempre fatto su e giù dalla serie A e mai di più. E cosa, da non sottovalutare, potrebbe dare a Datò la serie A anche quest’anno.
Dall’altro però ci sono stati i rapporti sempre più stretti con Claudio Lotito e la ragnatela di potere che il patron laziale rappresenta. A partire dai finanziatori del famoso capitale di partenza con cui Paparesta ha acquistato il Bari dal Tribunale, che secondo un’indagine della GDF (la quale però non ha ravvisato reati) sarebbero riconducibili alla MP Silva e Infront. Proprio Infront, il potente advisor della Lega, è finito recentemente in inchieste giudiziarie che hanno coinvolto anche il Bari stesso, accusato dai magistrati di aver ottenuto aiuti finanziari.
Anche dal punto di vista sportivo Paparesta non ha fatto gli sfracelli che si attendevano. Sul suo contro rimane la “colpa” di aver rotto, come racconta Michele Salomone nel suo libro “La mia voce in biancorosso”, con Guido Angelozzi, il direttore sportivo della “meravigliosa stagione fallimentare” quella che portò il Bari fallito quasi alle porte della serie A grazie ad un manipolo di carneadi del calcio. Su tutti Edgar Cani che in quella stagione, come nel migliore dei reality show, si esaltò più per la storia che aveva alle sue spalle (era sbarcato a Bari neonato all’epoca dell’esodo degli albanesi) che per il reale talento.
Nella prima stagione al timone del Bari Paparesta ha fallito i playoff nonostante sulla carta avesse allestito una squadra di tutto rispetto. Lacunosa anche la gestione del management della squadra a cui è mancato un direttore sportivo “forte”, che tra l’altro ha sempre contraddistinto i momenti di gloria della squadra (Carlo Regalia, Giorgio Perinetti). Un ruolo attualmente ricoperto sulla carta da Razvan Zamfir ma che in realtà dovrebbe essersi arrogato direttamente Paparesta. E anche quest’anno, che la squadra tutto sommato è terza in classifica e che magari potrebbe sbarcare in serie A, ha affrontato una stagione tra alti e bassi.
I ricci si mangiano con il pane o usando direttamente la lingua. Vietato il cucchiaino
La verità è che noi tifosi siamo incontentabili. In fondo quello che conta è sapere che «tra cinque anni andremo in Champions League», quindi è inutile stare troppo a rimuginare sulle cose. Godiamoci questo sole di aprile e i ricci che porta in tavola. Sperando, come talvolta purtroppo capita a chi non è uso consumarli spesso, che non siano forieri di problemi intestinali. D’altronde da queste parti si impara a mangiarli crudi da bambini perché, secondo la saggezza popolare, «bisogna subito farsi gli anticorpi».
Articolo a cura di Nicola Palmiotto