Scatti finali — Quello che resta di un grande Giro d’Italia

Crampi Sportivi
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11 min readJun 3, 2015

I disegni all’interno del pezzo sono tratti da theartofcycling.blogspot.it

Senza fine
In un tornante, a poco meno di due chilometri dalla cima del Colle delle Finestre, la leggerissima Specialized di Alberto Contador si tramuta improvvisamente nell’Orbea azzurra dei suoi esordi. Brutta, vecchia, pesante. La danza del pistolero si fa — per la prima volta — incedere impastato e macchinoso. La polvere dello sterrato, alzata dagli avversari che uno dopo l’altro lo distanziano, gli prosciuga progressivamente la gola e sbiadisce il rosa della sua maglia. Non devo pensare nemmeno per un attimo di perderla, si convince. Ma, sulla montagna dal nome più arioso, l’impresa di Contador rischia di soffocare per davvero. Non si sta risparmiando, Alberto. Non l’ha mai fatto. Non si era risparmiato sul Mortirolo, quando — tutto solo — aveva recuperato un minuto ai suoi rivali nei primi venti minuti di ascesa, facendo sussultare i tornanti della Montagna Pantani. Non si era tirato indietro sul Monte Ologno, quando si era lanciato in un nuovo attacco solitario, tanto coraggioso quanto superfluo, a quaranta chilometri dal traguardo. Non si era rilassato nemmeno in un paio di traguardi volanti, dove aveva sprintato per acciuffare tre o quattro banalissimi secondi.

No, sul Colle delle Finestre Alberto Contador non ha la testa al Tour de France che correrà tra un mese. Pensa solo a quanto sia magnifico difenderla, la sua maglia rosa, in mezzo alle migliaia di ‘indiani’ che la attendono da giorni e che la ora acclamano forte. Per l’ultima volta, incitano il campione che rispetta sacralmente le loro strade. Urlano forza! al fuoriclasse in crisi, spogliato dei superpoteri e rivestito di fallibilità, uomo finalmente, con il viso tirato e i muscoli sofferenti. Sostengono l’atleta stanco e assetato, ma mai alla deriva. E allora, nella discesa verso la valle, la pedalata di Contador sembra sciogliersi. La tensione, allentarsi. Pure il sole fa capolino tra le nuvole basse, mentre i fieri nemici all’attacco realizzano che il golpe non riuscirà. A pochi metri dal traguardo di Sestriere, Alberto si sistema il colletto e stringe la mano destra. Non uno sparo, ma un pugno di esultanza, discreto e liberatorio. Poi rialza lo sguardo e, con gli occhi lucidi, sorride ai fotografi e al mondo, perché ora può vederlo distintamente: il suo terzo Trofeo senza fine è lì, dietro l’ultima curva. È un premio a forma di strada che si inerpica e di dna che si dipana, una spirale di cerchi concentrici che hanno come destino finale l’olimpo della memoria e dell’eternità. Il luogo dove sogna di approdare Alberto Contador, in sella alle sue sfide senza fine, non è molto distante da lì. Sembra già delinearsi all’orizzonte.

Sopravvivere al Mortirolo
Ci sono diverse immagini che potremmo scegliere per il Giro di Fabio Aru: la liberazione sul traguardo di Cervinia, le braccia al cielo sul Sestriere, le prime difficoltà nella tappa di Imola, o la competizione surreale vissuta con Landa. Per certi versi tuttavia l’immagine più significativa del Giro di Fabio Aru resta il suo giovane volto piegato dalla sofferenza durante la scalata del passo del Mortirolo. Ci sono dei momenti in cui una sconfitta produce, nello spettatore che vi assiste, più o meno le stesse sensazioni che si vivono rispetto ad una vittoria. Si sospende il giudizio, si dimentica la propria presenza, si ignora tutto ciò che si ha intorno, e ci si lascia trasportare da quel singolo evento fino ad un coinvolgimento totale. Cambiano le reazioni, ma la chimica di fatto è la stessa. Fabio Aru sul Mortirolo ha vissuto uno dei momenti più difficili della sua carriera: la bocca spalancata nel tentativo di recuperare ossigeno, le gambe pesanti che non giravano, le energie che svanivano ad ogni metro che si guadagnava, e soprattutto la solitudine con cui ha affrontato tutto ciò.

Provate per un attimo ad immaginare cosa può significare avere ventiquattro anni, essere uno corridori più attesi al Giro d’Italia e allo stesso tempo interpretare il ruolo di principale sfidante del più grande campione degli ultimi quindici anni. Facile, vero? Fabio Aru sul Mortirolo ci ha ricordato uno dei motivi che fanno la differenza tra un ottimo corridore ed un campione: per vincere non bastano solamente le gambe, ma anche e soprattutto la giusta attitudine mentale. Le due vittorie consecutive dopo il calvario del Mortirolo sono quindi esito naturale per chi non si è voluto arrendere, giusto premio per chi ha saputo uscire da quella giornata con le ossa rotte, sì, ma ancora determinato a scrivere, in un futuro che appare sempre più prossimo, il proprio nome tra quello dei grandi di questo sport.

Con i se
Non sempre basta vincere per arrivare primi. L’Astana porta a casa cinque tappe, cinque arrivi importanti centrati con l’immortale Tiralongo e con la coppia d’oro Aru-Landa. Se non fosse che, alle volte, i singoli sono più determinanti della somma delle parti, staremmo parlando del Giro perfetto del team kazako. Invece la tattica di squadra nulla ha potuto contro lo strapotere mentale del re di Pinto.
A fine Giro, quindi, il risultato dell’Astana — che in corsa ha rischiato di non esserci nemmeno — parla di cinque tappe e qualche rimpianto. Oggi i “se” si sprecano, analizzando la dicotomia che per larghi tratti ha caratterizzato il rapporto tra i due capitani: inizialmente uno, poi l’altro e alla fine ancora il primo. Aru ha avuto a disposizione un team che in salita si è dimostrato compatto, solido, avulso dall’errore quasi sempre. Eppure l’alternanza di percezioni nel definire la leadership della squadra qualche danno potrebbe averlo portato. E dove non ha portato danni, di certo non ha nemmeno portato i vantaggi che una superiorità così favorevole, se debitamente sfruttata, avrebbe dovuto comportare.

Non sapremo mai, e probabilmente non ci interessa saperlo, come sarebbe andata a finire se Landa avesse aspettato Aru durante la crisi di quest’ultimo sul Mortirolo. Non conosceremo nemmeno l’esito che il Giro avrebbe potuto avere se allo stesso Landa fosse stata concessa, sin da subito, la tranquillità e serenità necessaria a correre in assoluta libertà. Non scopriremo mai che piega avrebbe preso questo Giro se lo squadrone kazako avesse deciso di correre all’attacco, e se verso Madonna di Campiglio o verso Cervinia avessero rischiato di “far saltare” uno dei propri assi pur di spingere in maglia rosa l’altro. Questioni di leadership che hanno portato lo spagnolo dell’Astana, fermato dall’ammiraglia mentre si involava verso tappa e maglia azzurra, a chiudere in lacrime l’ultima tappa di uno dei Giri più belli degli ultimi anni.
Un’ Astana forte ma perfettibile, dunque, che non può non rimproverarsi qualche errore nella gestione dei capitani. Intanto si gode cinque, bellissime vittorie di squadra. Riguardo il futuro, di certo i “celestini” sperano possa essere un po’ più “roseo” di così.

Situazionismo con stile
Come si fa a non amare Philippe Gilbert? Come si può scindere la bellezza del ciclismo da chi questa bellezza la sa incarnare quando si mette a pedalare? Philippe Gilbert è una delle storie più belle che il ciclismo abbia vissuto negli ultimi 15 anni: un corridore dal talento cristallino che cerca da sempre di spostare in là l’asticella del suo rendimento, che non sempre ci riesce perchè la vita del corridore è fatta sì di vittorie ma pure di clamorosi fallimenti, che non ha mai paura di uscire dal gruppo e prendere il vento in faccia, perchè l’amore che si raccoglie sulle strade va restituito sui pedali.
Philippe Gilbert è arrivato a questo Giro dopo una primavera tutto sommato insoddisfacente: caduto verso Sanremo, escluso dalla squadra di Fiandre e Roubaix, arginato da Matthews in cima al “suo” Cauberg, infine caduto alla Freccia Vallone. Tanti altri colleghi avrebbero incamerato la delusione e se ne sarebbero andati in vacanza dicendo “sarà per la prossima stagione”, limitandosi al massimo a presenziare a qualche corsa giusto per timbrare il cartellino. Tanti, non certo Philippe Gilbert.

Ha impiegato 12 giorni per capire come far combaciare la sua classe con la battaglia di questo Giro. Quella classe che aveva già saputo sprizzare sulla corsa rosa nel 2009, con la fucilata di Anagni che fece presagire gli anni di trionfi a venire. Ha atteso 12 giorni, quasi il doppio di una creazione biblica, poi è arrivata l’attesa meta: su Vicenza Gilbert aveva messo un circolino rosso e, quando in omaggio si è trovato una giornata che sapeva di Fiandre, ha sentito il bacio del destino. L’arrivo tendeva all’insù, come piace a chi pedala proiettato verso il cielo: Gilbert ha prima messo i compagni a tenere un ritmo indiavolato, poi a 400 metri dal traguardo ha azionato la balestra che conserva nei polpacci e si è scagliato come un dardo verso il traguardo. Gilbert vince quasi per distacco, così nettamente da prenderci gusto. Non è che ne restassero molte di tappe per un corridore così, dopo Vicenza. Rimanevano montagne, quasi solo montagne, tanto che i suoi omologhi cacciatori di classiche negli hotel di Vicenza erano tutti indaffarati a fare i bagagli e avvisare le mogli di un ritorno imminente. Tutti, non certo Philippe Gilbert.

A Lugano ci prova, ma l’arrivo in volata era scritto, e così è. Resta Verbania, il giorno successivo, una tappa mista in cui i big della classifica potrebbero darsele salendo il lungo Monte Ologno. Ma potrebbe anche arrivare la fuga. Gilbert in fuga ci entra col compagno Moinard, e per un bel po’ lascia pure che sia quest’ultimo a giocarsi le sue carte. Ma l’attacco di Moinard e soci non prende il largo, i big dietro iniziano a darsele davvero, e la balestra di Gilbert si riattiva: mancano 20km al traguardo quando, con una discesa kamikaze, rientra sui primi fuggitivi. Rientra, si fa per dire, li affianca, saluta Moinard con un fischio e rilancia: una discesa a rotta di collo e un finale spingendo e ridendo, esultando e pedalando, per coronare un’impresa eccezionale, nel Giro splendido di un campione memorabile. Come si fa a non amare Philippe Gilbert?

Testimonial della fatica
Se c’è un prodotto che il ciclismo pubblicizza sin dalle sue origini, quello è la fatica, elemento peculiare di questo sport dove non c’è spazio per selfie e pettinature ordinate, ma solo per volti distrutti al termine dello sforzo, bocche aperte a cercare quel soffio d’aria in più da regalare a polmoni esausti. Ryder Hesjedal la fatica la incarna in ogni sua pedalata, verrebbe quasi da dire che la vada proprio a cercare. Non è tanto un’espressione estetica, quella del rapporto tra il corridore canadese e la sofferenza in sella: a guardarlo in faccia non vedi nulla, perché nulla traspare dietro i suoi occhialoni da astronauta, dietro a quella bocca che un po’ si contorce, ma non capisci mai se per lo sforzo o soltanto per un tentativo di sorriso. A guardarlo in sella, qualcosa di più lo capisci, perché la sua pedalata si fa più sbilenca chilometro dopo chilometro. Ma quel pedalare sghembo è ugualmente redditizio, e in un ciclismo in cui l’eleganza in bicicletta è merce rara, Hesjedal non stona affatto. L’uomo-immagine della fatica al termine del Giro d’Italia 2015 è sicuramente lui, l’allampanato canadese che quasi ogni giorno attacca e quasi ogni giorno viene ripreso, si stacca e soffre, ma non si arrende davvero mai.

In fuga dalla prima settimana, dopo essere apparentemente uscito subito di classifica, Ryder è all’attacco ancora nelle giornate più dure: a Campiglio, dove una volta ripreso e distanziato dai big non perde più un secondo; nel giorno del Mortirolo quando, dopo una fuga, viene ancora ripreso e staccato, ma, mentre gli altri vanno allo sbando, lui continua con i suoi denti stretti, e piano piano li supera tutti, fino a piazzarsi tra i primi di tappa; verso Cervinia, e sul Colle delle Finestre, all’attacco direttamente dal gruppo dei migliori. Alla lunga questa pedalata in tandem, con Hesjedal davanti e dietro la dea della fatica, rende molto di più rispetto a quella di chi la dea prova a combatterla, e il Giro di Hesjedal finisce non troppo distante dal Giro dei Contador, dei Landa e degli Aru: un quinto posto finale, conquistato con il lavoro quotidiano. Ce ne fossero anche solo cinque di corridori come lui, ogni corsa vedrebbe esplodere il numero delle sue incognite, e la protagonista di ogni giornata tornerebbe ad essere lei, la primadonna del ciclismo da sempre: la fatica, sponsor ufficiale di Ryder Hesjedal.

Arrivare a Milano
Il Giro finisce a Milano. Faremo festa, o faremo i conti, solo a Milano. L’importante è tenere la maglia fino a Milano. L’unico obiettivo è arrivare a Milano. Le tre settimane del Giro sono sempre un conto alla rovescia, un pellegrinaggio tortuoso e purificatore. Quest’anno, da Sanremo a Milano, il Giro era anche di più: una classica al contrario, anzi una sequenza di ventuno classiche, diverse e ugualmente esigenti. E quindi “arrivare”, soprattutto quest’anno, era un mantra da ripetere; “Milano”, una destinazione da sognare. Ce l’hanno fatta in 163 su 198.

Alessandro Petacchi, primo dei non arrivati, si è ritirato sul Colle delle Finestre, tra le lacrime, alla penultima tappa. A 41 anni, un virus gli ha impedito di chiudere la sua scintillante carriera a Milano. Se AleJet è ufficiosamente il 164° della generale, la vera maglia nera l’ha conquistata Marco Coledan. Pistard veneto di 27 anni, in cima al Finestre si è fermato per quasi sette minuti ad attendere il penultimo in assoluto, il tedesco Roger Kluge, che rischiava di portargli via l’ultima posizione con una prestazione ‘super’ sull’ultima salita. Il premio per Coledan? Una multa di 500 franchi per comportamento antisportivo.

Marco Bandiera sventola in 155a posizione, ma a Milano è salito sul podio più di Contador: 31 anni, zero vittorie in carriera, ha vinto la classifica dei traguardi volanti e quella delle fughe. Evidentemente hai delle gran gambe Marco! “Macché, ho centrato certe fughe perchè ho avuto culo. Fosse stato per le gambe, al mattino sarei rimasto a letto.”

Risalendo la classifica, al 133° posto, a quasi 5 ore e mezza da Contador, c’è Roberto Ferrari. Era un buon velocista in proprio, poi ha deciso di diventare il primo vagone del rivoluzionario trenino fucsia della Lampre. Dimenticatevi i convogli lunghissimi allestiti un tempo per Mario Cipollini: qui ci sono tre sprinter veri in fila (il secondo è Richeze), con Sacha Modolo a finalizzare. E il coneglianese (che si pronuncia Saka, perché lui da piccolo Sascia non riusciva proprio a dirselo) ha vinto — benissimo — due volte. Sono i suoi primi successi al Giro, ne arriveranno altri.
Due posizioni più in alto, Alan Marangoni è arrivato 131°. Protagonista dell’incredibile fuga di Forlì, dove aveva soltanto sfiorato un memorabile successo in casa, ha comunque tagliato un traguardo a braccia alzate. In una delle ultime tappe di montagna, infatti, i suoi goliardici amici avevano allestito un finto arrivo, festeggiandolo a dovere e regalandoci una delle clip più divertenti del Giro.

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Scalando verso le posizioni ‘nobili’ della classifica, al 91° posto, a 4 ore e 20 minuti dalla maglia rosa, si incontra la gioiosissima sagoma di Tsgabu Grmay. Primo etiope a prendere parte al Giro, e ovviamente primo a terminarlo. Racconta che le sue giornate siano state una continua scoperta e che non immaginava potesse esistere qualcosa come il Mortirolo. Confessa l’emozione di essere apparso tutti i giorni sulle tv e nei giornali del suo Paese, e la voglia di ringraziare Dio ogni sera, sorridendo a tutti e a tutto, nonostante la stanchezza infinita.
Abbiamo qualche dubbio in più, invece, sul fatto che anche Adam Hansen abbia realmente faticato. L’australiano, 77°, ha portato a termine il suo undicesimo grande giro consecutivo. Significa che, dal settembre del 2011, ha corso — e concluso, tutti i Giri, Tour e Vuelta che si sono disputati. Su Twitter ha scritto “Ora devo togliermi le scarpe e contarli”. Perché, per quelli come lui, arrivare è sempre un po’ morire. E Milano è solo un altro punto di partenza.

Attendere quelli che arrivano a Milano
Ti rendi conto di cosa significhi il ciclismo per Milano e per i milanesi quando vai a vedere per la prima volta l’arrivo di un Giro d’Italia. E’ qui che è nato tutto. Non solo il Giro, ma anche una delle corse più antiche mai disputate: la Milano-Torino, organizzata per la prima volta nel 1876 quando la Liegi-Bastogne-Liegi e la Parigi-Roubaix ancora non esistevano. Ed è sempre qui che il Vigorelli, uno dei più importanti velodromi del mondo, sta cercando, attraverso l’aiuto dei suoi sostenitori, di riprendere vita per tornare agli antichi splendori del passato. Domenica scorsa provare a camminare verso Corso Sempione era praticamente impossibile. Una folla impressionante aveva deciso di rendere omaggio al Giro e al suo conquistatore iberico: era probabilmente l’ultima occasione per applaudire Alberto Contador dalle nostre parti. Il circuito di cinque chilometri è stato letteralmente preso d’assalto: doppie e triple file di persone che, cappellini rosa e fotocamere in mano, hanno atteso per ore l’arrivo dei corridori. La star? Ovviamente lui, il pistolero. Accolto dal boato del pubblico, applaudito fino all’esaurimento, incitato dalla folla e seguito dalle grida del pubblico ad ogni suo spostamento. Nota di merito per Fabio Aru che, alla fine della premiazione, ha deciso di gettarsi tra la gente semplicemente in sella alla sua bici. Il volto era quello fiero e disteso di chi sa di aver dato tutto se stesso, e di aver regalato un bel po’ di emozioni.

A cura di Andrea Minciaroni, Filippo Cauz, Leonardo Piccione e Oscar Cini.

Primo scatto

Secondo scatto

La promessa di Alessandro Malaguti

L’attesa di Ji Cheng

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