Se vi diciamo chi è il presidente della nostra squadra di paese non ci crederete mai

Crampi Sportivi
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10 min readDec 2, 2016

«Non sapevamo chi fosse davvero il presidente: l’abbiamo scoperto dai giornali, come tutti. Una sera poi è sceso al campo alla fine dell’allenamento. Arriva questa macchina nera lucida, esce lui in maglietta e pantaloncini. Si lascia la scorta dietro, va a stringere la mano al mister e si mette a correre con noi a girocampo. Oh, ci conosceva tutti per nome! Ma incredibile, mi sono mezzo emozionato. Io poi, cioè, non vado a votare quasi mai ma lui mi piaceva, insomma, ero bendisposto. Qualcun altro era più infastidito, c’è chi s’è staccato dal gruppo apposta per non averci a che fare. Ci ha fatto duemila domande: il mister, il paesello, se avevamo figli, se eravamo tutti sanriportesi. I tipi della scorta stavano in piedi a bordocampo che ci fissavano. Ma la parte, insomma, imbarazzante, è venuta dopo.»

Meno di un mese fa, i tifosi della Libertas di San Riporto (FI), e con loro tutti gli appassionati di calcio in Italia, hanno scoperto che Matteo Renzi è di fatto il patròn dei grigioverdi — lo era diventato a luglio senza che se ne sapesse nulla, perché aveva usato un prestanome. Matteo Renzi, il presidente del consiglio. Assurdo. Il foglio d’informazione iperlocale L’Ago della Bilancia ha pubblicato la notizia al mattino, e nelle prime ore del pomeriggio già tutti i siti nazionali ne erano tappezzati, senza contare i social; il giorno dopo, edizione speciale della newsletter di palazzo Chigi per confermare. Matteo Renzi, il presidente della Libertas San Riporto. La Libertas.

Di questa vicenda si è già detto tanto, tutti sembrano avere un’opinione e un caro amico a San Riporto pronto a confermarla. Nella piazzetta del paese sono passati più giornalisti in 48 ore di quanti ne siano passati a Palazzo Chigi in due mesi; hanno intervistato i calciatori, l’allenatore Marlon Carrozza, la fornaia, il farmacista, la perpetua del parroco. Non è trascorso un giorno senza voci di corridoio: «a San Riporto c’è Cassano per le visite mediche», «c’è Pirlo nuovo rinforzo a centrocampo», «c’è Gianni Morandi dietro le punte». Tutte balle, naturalmente, perché Pirlo arriverà solo a gennaio. Ma c’è ancora qualcosa di vero e concreto da dire e da raccontare, di questa squadra improvvisamente sotto i riflettori e già favola sportiva come non se ne vedevano dai tempi del Castel di Sangro. Una società che in venti e rotti anni di Seconda repubblica non ha rinunciato allo scudo crociato come simbolo, e ora attraversa una rivoluzione frenetica ma non caotica. Ci sono più cose su questa collina al limite della Maremma di quante ne contenga il nostro giornalismo, che questa storia l’ha impiattata come mera curiosità o come pretesto per le proprie battaglie politiche.

Ho scritto «favola», ma sia chiaro: non mi riferisco alla narrazione propagandistica che Renzi avrebbe voluto imporre sulle vicende della Libertas. Ha comprato una delle squadre più scalcagnate della zona, che si era salvata per miracolo e aveva a malapena i soldi per comprare dieci magliette uguali — tutte a manica lunga, per giunta, da usare anche d’estate –, è palese che l’obiettivo fosse avviare una piccola storia di successo a costo zero, o quasi. La favola renziana era quella che il premier ha cercato di innescare il giorno in cui ha dichiarato, con finta ironia, che «la Libertas vincerà la Champions»: la platea ridacchiava ma il punto era proprio promettere l’impossibile, per rendere accettabile il banale. Comunque si concluda la stagione della Libertas, Renzi potrà dire: «Se vi aspettavate la Champions, i fessi siete voi». Non c’è nulla di male in questo, è così che funziona (a volte) la comunicazione politica; ma non ci interessa. Quel che conta sono i più recenti e imprevedibili sviluppi nella gestione — meglio, nell’autogestione della squadra. Ci arriveremo.

«Ha cominciato a farci dei discorsi senza senso. Che dovevamo giocare bene e dovevamo vincere, che non avevamo niente in meno dei giocatori in Serie A, che dovevamo crederci. Sembrava uno di quei film sul football americano, insomma, che vince chi è più poeta. Ma a cosa dobbiamo credere, che quest’anno è già tanto se abbiamo un portiere? Io poi quella volta avevo fretta perché dovevo scappare in pizzeria ad aiutare mio zio, e questa cosa secondo me in Serie A non succede. Non la smetteva più di parlare, Renzi, gli volevo dire di stare un po’ buonino, che noi s’era stanchi, ma ti pare che interrompo il presidente? Che è anche bravo a parlare, lui. Solo, non sopporto tutto il «fatemi dire che», «fatemi fare i migliori auguri a», «permettete che mi congratuli per»… Insomma, dì un po’ quel che ti pare e passa avanti, no? Alla fine ho fatto tardi, da mio zio; quando gli ho detto che ero stato a sentir Renzi s’è incazzato il triplo.

La domenica giocavamo a Monte Bollito. È venuto a vederci. Non mio zio, Renzi: sugli spalti c’erano più agenti di polizia che c’erano tifosi. Aveva il cappello grigioverde, che sono i nostri colori, ma io un cappello della Libertas non l’ho mai visto, quindi insomma, o se l’è fatto fare apposta, oppure era il cappello di un’altra squadra. S’è perso 4 a 1, e insomma. Poi però a fine partita quello scende, si mette a discutere con l’arbitro, che poi era un ragazzo di 18 anni. Ora, non ci discute il mister, con l’arbitro: perché ti devi mettere in mezzo tu? Non abbiamo avuto il coraggio di starlo a sentire, siamo andati in doccia. Ce lo ritroviamo all’uscita: ci dice che all’arbitro dobbiamo stargli addosso, che lo si deve pressare come si pressano i giocatori avversari, perché lo fa l’Atletico Madrid, dice. Perché a gennaio arriva Baggio, arriva Pirlo. Boh, io son contento se viene Baggio e mangia in pizzeria da mio zio, però insomma, presidente, non mi trattare come un bambino, eh?”

Come emerge dai racconti di Paolo Strillacci, centrale destro della difesa sanriportese e capitano da cinque stagioni, la squadra non è stata propriamente elettrizzata dal fatto che il nuovo presidente fosse un famoso. Al contrario, l’operazione condotta alle loro spalle li ha resi diffidenti, li ha fatti sentire usati e spossessati del loro piccolo mondo scarso. Questi sentimenti, insieme a un tasso tecnico inclassificabile per la stessa prima categoria, hanno prodotto ulteriore svogliatezza: l’arrivo di Pirlo a gennaio migliorerà certo le prestazioni, ma pianterà l’undicesima faccia di lapide in mezzo al campetto di terra e pietrisco che qualcuno in paese si avventura a chiamare «stadio».

Nelle prime sei partite, la Libertas ha collezionato due punti. Renzi ha promesso che avrebbe preso Van Gaal; che avrebbe puntato tutto sui giovani, sulle donne, sul rimbalzo della sterlina; poi si è stancato e i riflettori si sono spostati altrove. A oggi, dei risultati deludenti della Libertas si occupano solo — con foga degna di miglior causa — Il Giornale e Il Fatto Quotidiano. “Deludenti”, del resto, è un eufemismo, e lo sarebbe anche “pietosi”. Anche “grotteschi”. Anche “ho visto cetrioli con più senso del movimento, e occidentali catturati dall’ISIS con più speranze di salvezza”. Tuttavia, sono passate del tutto inosservate le novità più interessanti sulla compagine toscana.

Sul suo profilo Facebook, capitan Strillacci ha fatto riferimento a un comunicato importante che qualche settimana fa aveva segnato una svolta e una «presa di coscienza» nella stagione, se non addirittura nella storia, della Libertas. Non ricordavo affatto di cosa si trattasse e ho cercato nella casella e-mail, ma non c’era nulla; su Google, ancora nulla. Lo contatto in privato, e salta fuori che il documento in realtà non è mai stato diffuso — alla faccia del “comunicato”. I giocatori avevano sentito il bisogno di riunirsi in assemblea, avevano discusso, avevano redatto un testo, e a quel punto si erano presi così bene che lo hanno infilato in un cassetto e lo hanno lasciato lì: ormai era un manifesto a uso interno, più che un annuncio da diramare. O forse rappresentava in se stesso la soluzione al disagio da cui era nato, come dà sollievo tenere un diario o confidarsi con un amico. In ogni caso, quel documento era tanto bizzarro e interessante che ho voluto parlarne con lo Strillacci. Lascerò che sia lui a raccontare gli sviluppi della vicenda.

«Noialtri si è sempre perso abbastanza, si è sempre vivacchiato tra la prima, la seconda categoria. Però non siamo mai stati tristi. I tifosi per un periodo ci cantavano “Libertas, fa schifo e un c’è male”, si figuri, ma c’era comunque dell’affetto. Quest’anno invece si stava male, al campetto non veniva più nessuno, tra di noi si litigava. Il giorno che abbiamo messo giù il comunicato è stata veramente l’ultima occasione prima che andasse tutto a scatafascio. Per dire, Marroni [Guglielmo, ala destra] non si allenava da due settimane, lo vedevi che non aveva proprio voglia. Anche io, anche Carletto [Barisoz, centravanti], eravamo tutti sfavati. Coi calciatori di Serie A ti viene da pensare “Poche lagne, è il tuo lavoro”, ma il lavoro di Marroni è che guida gli autobus, Mario [Peracca, centrocampista] ha la pompa di benzina, qui nessuno fa mica i miliardi, col pallone.

E insomma: ci parliamo, litighiamo, e capiamo che il disagio ce l’avevamo tutti. Guardi, non mi vergogno di dirlo, ci sentivamo soli. E che giochiamo a fare, per star male? Che cosa ci sto a fare in campo tutti i fine settimana? Mia moglie è più contenta se sto a casa. Ma veda lei, mi è dovuto venire il dubbio che non avesse senso giocare neppure prima! Mi sentivo come uno stronzo. Stavamo al Circolo [delle Betulle, a San Riporto] e sembravamo un gruppo di orfanelli, che ci eravamo trovati lì e non sapevamo dov’erano i genitori, se c’erano ancora, e non ci piaceva tanto il patrigno che ci aveva adottati. Lo dico senza offesa per il presidente Renzi, ci ha comprato la palestra nuova, ci ha mandato messaggi tutte le settimane, insomma, si dice che il campo lo hanno sistemato perché lo ha chiesto lui… però un problema c’era. Se stavamo lì quasi con le lacrime agli occhi, un problema c’era; solo che non sapevamo qual era.

Potevamo vincere, potevamo perdere, per noi era uguale. Vincere, per giunta, non si vinceva mai. Intorno ci si era fatto il vuoto, perché ormai non eravamo la Libertas San Riporto: eravamo la squadra di Renzi. E la squadra di Renzi non è come se dici la squadra di Totò Riina, che chissà cosa succede: è più tipo la squadra di Santi Licheri, che magari è bravo ma ci si entusiasmava solo la mia nonna. Avevamo la sensazione di giocare giusto perché ormai avevamo preso l’impegno di giocare. Ci sentivamo abbandonati, non c’era nessuno sopra di noi o accanto a noi che ci tenesse davvero ai nostri risultati. Andavamo col pilota automatico.

Poi Mario ha detto una cosa, ha detto “Deh, ci serve l’aria nuova, ci vorrebbero i ricazzi”, e non s’è mai capito se voleva dire “ricambi” o “rinforzi” o se gli era venuto da imprecare per un altro motivo, ma siamo scoppiati tutti a ridere per dei minuti. Mi viene da ridere ancora adesso, se ci penso. Non ridevamo da mesi. Ogni tanto uno ripeteva “Ci vogliono i ricazzi! Un chilo di ricazzi! Infermiera, cinque cc di ricazzi!”. S’è cominciato a parlare del pippisquato, la trocillona, il mirisicchio… tutto senza senso. È stato importantissimo perché siamo entrati in un mondo nuovo, che però non era solo nuovo, era anche nostro. Allora abbiamo deciso che volevamo sentirci nel nostro anche al campo sportivo. Il comune però non ce lo vende e noi non ci avremmo i quattrini, quindi ci siamo inventati di mettere su l’orto a bordocampo. Carletto ha portato i semi, Marroni la terra buona, e in due giorni si è piantato di tutto: pomodori, angurie, tulipani… La Juventus ha lo stadio proprietario, noi si ha l’orto proprietario.

E insomma, da lì è stata una cosa dietro l’altra: ci siamo presi bene e abbiamo deciso che dovevamo riprendere in mano tutto, che la vita altrimenti ci sfuggiva. Che è poi quello che abbiamo scritto nel comunicato. Si è cominciato a fare meditazione. Si è smesso di prendere i farmaci, solo cose naturali. Niente più caffè, niente più glutine. Si è smesso di mangiare proprio i prodotti del supermercato, che non c’è bisogno. Dentro il paese ci muoviamo solo a piedi. Marroni ha deciso che la moglie doveva partorire in casa. Mia figlia, le facciamo lezione a casa. È più giusto così. E insomma, anche in campo adesso ci si sta più volentieri: le ultime partite sono andate come sono andate, ma va bene, c’è un’aria nuova.

Quando è arrivato Renzi ci aspettavamo di cominciare a vincere, e invece non si è vinto mai. Ma doveva essere una cosa automatica, praticamente: è il presidente del consiglio, mica il parroco! Se non ci fa vincere, Renzi che ci si è comprati a fare? E allora facciamo un po’ come diciamo noi. All’allenamento, se non sentiamo di volerci andare, non ci andiamo. Anche alla partita, la domenica. Perché il tempo deve essere il nostro. A mio zio gli ho detto che le pizze ai tavoli le può servire lui, e lui adesso non capisce, non mi vuole più parlare, ma vedrà che poi capisce.

La settimana scorsa, quando si è licenziato il mister, il presidente è tornato da noi, è venuto a vederci giocare a San Giuretto. Alla fine ci ha fatto un discorso, ci ha detto che ce la dobbiamo metter tutta, che a gennaio viene Pirlo, gli fa fare l’allenatore in campo. Che però ce la dobbiamo metter tutta, noi. Io gli volevo dire: “E tu? Quand’è che ce la metti tutta tu?” Perché non mi può dire che ce l’ha già messa, se non abbiamo ancora vinto una partita ma manco per sbaglio. Poi ci voleva far parlare con Marchionne, quello della Fiat: lo chiama, riattacca, dice No, in America è notte. Poi ci ripensa, in America non è notte, allora richiama: squilla, squilla, non risponde nessuno. Noi si stava lì che non gli si voleva mancare di rispetto perché insomma, è il presidente della squadra, sicuro ce n’è di molto più matti, però ce ne volevamo andare, ché sulla strada di San Giuretto a sera non si vede niente.»

di Daniele Zinni

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