Segnò in una notte di mezza estate

Crampi Sportivi
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4 min readJan 18, 2017

Una strana parabola, quella dell’eroe per una notte. Il gol a Saint-Denis è solo l’epilogo e arriva da molto lontano, come il ragazzone che lo mette a segno, nato in Guinea-Bissau e cresciuto in Portogallo: Ederzito Antonio Macedo Lopes, per tutti Eder. Esattamente un anno fa l’infortunio alla caviglia, Guidolin allo Swansea gli fa capire che non troverà spazio, ma lui all’Europeo vuole andarci a tutti i costi e accetta la proposta del Lille durante il mercato invernale, dal Galles in prestito attraversa la Manica per convincere Fernando Santos. Missione compiuta, qui la storia si riallaccia: in Francia per conquistarsi l’Europeo, a Parigi per deciderlo.

Con il risultato inchiodato sullo zero a zero, quel magico minuto 109 lo racconta lui stesso: «Nasce tutto da un appoggio all’indietro di Quaresma per Joao Moutinho, che controlla e mi affida palla per far salire la squadra. Mi ritrovo pedinato da Koscielny, gli resisto una, due, tre volte e quando vedo un minimo di spazio sistemo palla con il destro e con lo stesso piede calcio di collo. Senza pensarci sopra. Ho visto solo Lloris disteso, la palla finisce in rete e io inizio a correre. “Meu Deus do céu” penso subito: una notte del genere era un sogno troppo troppo grande».

Sono reti che valgono un Europeo. Finali in perfetto equilibrio, risolte da attaccanti più o meno conosciuti. Nell’ultimo ventennio ci sono stati i golden goals di Bierhoff nel 1996 contro la Repubblica Ceca e Trezeguet (ahinoi) nel 2000 a Rotterdam. C’è il colpo di testa di Charisteas nel 2004 che fa grande l’Ellade o quattro anni più tardi il colpo sotto di Torres contro la Germania. Ognuno con la sua storia, a Parigi un capitolo vincente l’ha scritto Eder, uno dei più impronosticabili in assoluto, con quel tiro del destino che ha incoronato il Portogallo per la prima volta in un grande torneo.

Un Eder quasi per caso, perché il fato ha voluto così, perché poi i riflettori si sono spenti e la sua carriera non ha mica svoltato. Dopo il riscatto a titolo definitivo da parte del Lille, il primo gol del post Europeo è arrivato solo il primo ottobre scorso, in casa contro il Nancy: fin qui fanno 4 reti in 17 partite di Ligue 1 e nessuno più in Nazionale, dove è tornato a fare panchina. Di nuovo c’è solo il trattamento che i francesi adesso gli riservano: «Non lo nascondo, ora mi conoscono tutti e puntualmente vengo fischiato. E’ dura andare a giocare in piazze più grandi come Lione, Tolosa, Marsiglia e la stessa Parigi. La ferita per loro è ancora fresca, ma quella notte non si può più cambiare e io resto orgoglioso per quello che ho regalato al mio Paese».

Prima del gol decisivo alla Francia, Eder aveva trovato pochissimo spazio: sei minuti al debutto contro l’Islanda, altri sette contro l’Austria, poi più nulla fino alla finalissima, subentrato a Renato Sanches al 79’. Non si è mai buttato giù, la sua vita e la sua carriera non sono di certo state in discesa, ma il carattere non gli è mai mancato: «Nell’ultimo anno due donne mi hanno aiutato tantissimo, cioè la mia mental coach Susana e la mia fidanzata Sanna. Con un’altra donna, la mia mamma, partimmo dalla Guinea-Bissau quando avevo solo tre anni, per raggiungere mio papà in Portogallo. È stata durissima, fui mandato in collegio a Coimbra e mio padre finì in carcere per aver assassinato la mia matrigna. Ho anche pensato di smettere col calcio, poi per fortuna ho scalato le categorie e nel Braga ho trovato la mia strada definitivamente. Nel quartiere natale di Ajuda a Bissau, dove è rimasta mia nonna Ricardina, non ci sono mai più tornato dal 1990, ma non rinnego le mie origini, seppur mi sento portoghese ormai a tutti gli effetti».

Negli ultimi anni, dopo aver segnato ha esultato indossando un guanto bianco tirato fuori dai calzettoni. Secondo un detto portoghese è il simbolo dello schiaffo morale, della rivincita, che Eder ha adottato come simbolo della sua vita:

«Mi ricorda tutti gli sforzi fatti in carriera, i sacrifici per rispondere alle critiche e le motivazioni per raggiungere i miei traguardi. E’ parte della mia storia, mi rappresenta, non solo come calciatore: con i miei genitori ho vissuto davvero poco, mi sono sempre arrangiato da solo e i primi 400 euro al mese, ai tempi della Tourizense, li portavo a mamma per aiutare a mantenere la famiglia. Ho sempre dato il massimo, come quando Fernando Santos mi ha fatto cenno di entrare contro la Francia e io gli ho risposto che ero pronto».

Ignaro di ciò che avrebbe fatto, l’eroe improbabile venuto da lontano.

Articolo a cura di Giorgio Coluccia

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