Sei loghi di Lega Pro che meriterebbero la Serie B

Massimiliano Chirico
Crampi Sportivi
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19 min readMay 6, 2017

Il vero salto di qualità del calcio italiano dovrà essere innanzitutto stilistico e poi tecnico-tattico. Vi spieghiamo perché.

Il problema del gioco del calcio è che alla fine si sia deciso che serve disputare le partite per decidere qual è la squadra più forte e bella tra le due contendenti. Non è giusto e sopratutto non è sempre meritocratico.
È un concetto che cercano di farci passare per scontato, abitudinario, solo perché siamo nati in un momento specifico della storia di questo sport in cui ormai si faceva già così. Basta voler scavare a fondo, sfiorando le radici colossali del pallone che rotola (che per tutta risposta sono fatte di lacci di scarpe), per scoprire la verità. C’è stato un momento, ormai dimenticato, in cui non per forza bisognava scendere in campo per essere i migliori. Anzi, il campo non esisteva proprio!

Coppa dei Campioni, albo d’oro: dal 1978 al 1980 si disputano due edizioni che sono entrambe vinte dal Nottingham Forest, squadra oggi intrappolata nei meandri dimenticati del professionismo inglese. Sarebbe facile scorrere la rosa del Nottingham e ridurre tutto a una nidiata di giovani fenomeni che poi sono andati via, rendendo così il fallimento una conseguenza all’impossibilità di rinnovare quella generazione dorata. Eppure state certi che non è andata così!

Il Nottingham vince due trofei continentali contro Malmo ed Amburgo solo perché (in maniera più che plausibile) era semplicemente la squadra col logo più bello di tutta Europa, stampato su una divisa Adidas che in Italia gli stilisti si tuffavano di testa nel cemento per capire chi l’avesse pensata. Ma tutto ciò si è ripetuto a qualsiasi latitudine, basti vedere in Italia i trionfi della Pro Vercelli o in Francia i successi del Saint Ètienne. Non poteva essere diversamente, non si poteva ridurre questo sport a una semplice esecuzione di movimenti fisici in un rettangolo di gioco perché i vertici delle maggiori organizzazioni mondiali sapevano di avere un mandato, un mandato superiore che li obbligava a preservare la bellezza estetica, il culto di ciò che piace, il credo dell’anche l’occhio vuole la sua parte. A voler ridurre ai minimi termini, il calcio fino a circa cinquant’anni fa era una enorme sfilata di moda e Maradona in realtà non ha mai giocato a calcio ma era un magnifico indossatore. Altrimenti, vi siete mai chiesti perché la squadre continuano ad aggiornare loghi, a produrre divise diverse ogni anno, a cambiare colori sociali e quant’altro?

Anche Cuadrado, per esempio, non l’ho mai visto correre su un campo e adesso ne ho le prove.

Le politiche prettamente monetarie e la fame di incassare danari da parte della nuova generazione ai vertici di queste organizzazioni ha portato a un profondo stravolgimento delle regole base del gioco: col tempo è diventato il campo l’unico metro di giudizio, la storia e il bel vedere offerto dalle diverse compagini sono stati accantonati, rendendo le maggiori esponenti del calcio mondiale delle nobili decadute. Pare anche che questo modo di dire sia stato creato a tavolino, per riconoscere il loro passato glorioso ma passato e in quanto tale non più degno di memoria.

Noi italiani abbiamo dovuto omologarci al resto dell’Europa, adottando i regolamenti che piovevano dall’altro e mettendo da parte il nostro proverbiale gusto estetico. Tutto ciò ha creato categorie, retrocessioni e promozioni, la distinzione orrenda tra professionismo e dilettantismo.

Tra oggi e domani termina la Lega Pro, lo scalino base di quello che viene percepito come il calcio serio, quello dei soldi e dei calciatori fortissimi. A campionato finito possiamo dire che cinque squadre, degne di competere a livelli superiori, meritevoli di poter rappresentare l’Italia davanti al mondo intero per via della storia che si portano appresso e del gusto finissimo di chi le ha fondate, rischiano di rimanere imprigionate per sempre in questo passaggio obbligato, sperando in una promozione o in una puntatina sulle tante pagine Facebook di calcio ignorante. Abbiamo ricostruito la loro bellezza, aiutati da un collaboratore che conosce perfettamente quello che è stato e che ha voluto immaginare assieme a noi quello che dovrebbe essere.

Carrarese Calcio 1908, Lega Pro girone A, zona playout

«Perché piangi?» — chiese Polibio, nonostante conoscesse già la risposta alla sua domanda. «La sorte di città, popoli, domini, muta al pari del destino degli uomini. Tutto nasce, cresce, muore. Ieri Ilio, oggi Cartagine, un giorno Roma.»
Il sibilo della brezza marina fu rotto da un sussulto proveniente da un cumulo di macerie alle loro spalle. Scipione si voltò di scatto sguainando il gladio con eccezionale prontezza e si avvicinò con cautela ai ruderi. Non fece in tempo a raggiungerli giacché i tre giovanissimi ragazzi che vi erano nascosti dietro, uscirono allo scoperto, disarmati e tremanti. Ripose la corta spada e andò via senza pronunciare parola. D’altronde, per intendersi con Polibio, non c’era mai stata la necessità di parlare.

Vent’anni al seguito del grande storico non erano bastati.
Alla sua morte, i tre uomini tornarono ad essere considerati poeni e quindi spregevoli e pericolosi. Impossibile lasciarli liberi.
Il loro destino passò da Delo, poi approdò in Italia. Furono trasportati assieme a migliaia di altri schiavi in una terra ancora insanguinata per la difficile guerra di conquista ma fondamentale per il futuro della Repubblica. La loro perfetta comprensione del latino non lasciava adito a dubbi: quella enorme distesa di cortine marmoree era chiamata Lunensis Ager.

Il lavoro di estrazione era massacrante, i turni infiniti, i padroni spietati.
Quello che i padroni non potevano sapere, però, è che i tre erano i depositari unici di una vera e propria dottrina filosofico-religiosa. La teoria dellanacyclosis elaborata da Polibio nelle sue Storie, infatti, non riguardava solamente la ciclicità delle forme di governo, destinate a degenerare fino a tornare alla forma primitiva, ma si spingeva fino a comprendere addirittura il destino ultimo dell’umanità. Un patrimonio inestimabile, da tramandare a qualsiasi costo alle future generazioni.

I tre cartaginesi riuscirono, dopo mesi di tentativi, a trafugare un blocco di marmo, su cui incisero i dogmi del pensiero di Polibio e le sue profezie sull’avvenire. Il marmo, con l’ausilio degli attrezzi da lavoro, fu sotterrato nei pressi della cava, svariati metri sotto terra.

E lì resto per secoli e secoli, finché, in un giorno di pioggia, un cavatore vide una bianca luce emergere dal fango. Scavò fino a raggiungere il piccolo blocco di marmo e quando lo ebbe fra le mani sudicie lesse:

Fortitudo mea in rota

La Carrarese, meglio nota come la squadra di marmo, rischia di passare alla storia e rimanerci come il club che fù acquistato da Gianluigi Buffon, originario di Carrara, aiutato da Cristiano Lucarelli e da altri imprenditori che lo stesso sito ufficiale della squadra definisce VIP. Il comunale Dei Marmi, calpestato da leggende di questo sport come Riccardo Zampagna, Andrea Raggi e Sergio Volpi, ha rischiato di esser dimenticato per sempre dopo il doloroso trapasso in Serie D avvenuto al termine della stagione 2009–2010 ma tutta questa cultura, tutto questo spirito che affonda le sue mani e pesca direttamente nel ventre molle della terra, non poteva andare perduto per sempre.

Stagione 2010–2011, la Carrarese guadagna la finale playoff di Serie C2, dove affronta il Prato. All’andata finisce uno a zero per i lanieri ma al ritorno il Dei Marmi diventa una voragine che affaccia sull’inferno: Benassi pareggia il conto delle reti e quando il pallone torna a pesare tonnellate ci pensa Nicola Corrent a segnare il rigore più pesante della stagione. Non svegliateC1.

Paganese Calcio 1926, Lega Pro girone C, zona playoff

«Quando la cuccumella fischia, il caffè è pronto e tutto il resto deve aspettare.»

Glielo ripeteva continuamente sua madre Carmela, ma Maria moriva dalla voglia di sapere cosa avesse da consegnare il postino che, con pessimo tempismo, aveva bussato alla loro porta. L’intestazione della lettera trasformò la curiosità di Maria in eccitazione, tanto che non poté fare a meno di chiamare a tutta voce sua sorella, Rosa, senza curarsi minimamente del caffè, ormai praticamente bollito. Insieme, scesero più velocemente possibile i tre piani di scale che le separavano dalla strada. Correndo, raggiunsero in un istante la bottega di papà Raffaele, impegnato ad osservare i tacchetti di una scarpa da calcio lasciatagli da suo fratello Vincenzo, allenatore della Paganese, la squadra di calcio del paese. Lo sguardo meduseo della madre sembrò pietrificare gli esili corpi delle ragazzine, ma bastò la vista della lettera fra le mani di Maria a sciogliere la tensione in un urlo di gioia: «Oh signore mio, Antonio! Raffaele! ci ha scritto Antonio!».

Erano passati ormai trent’anni da quando Raffaele Conversano si era trasferito da Lecce a Pagani e quasi due da quando suo figlio Antonio era partito alla volta di Malden, Massachusetts. Da allora, il momento in cui Rosa leggeva le sue lettere era diventato un culto di riaffermazione del vincolo familiare. A Malden, Antonio, aveva raggiunto suo cugino Gaetano ed insieme avevano proseguito oltreoceano la tradizione familiare nel mestiere di calzolai. Da qualche mese, però, le notizie che arrivavano a Pagani insieme a un mazzetto sempre più spesso di verdoni, erano entusiasmanti. I cugini avevano stretto amicizia con Dan Cross, che era rimasto impressionato dalla capacità manifatturiera dei due e aveva proposto loro di fondare un’azienda di calzature finanziata interamente da suo padre, un ricco banchiere. Lo scetticismo iniziale dei genitori si stava finalmente diradando, come testimoniavano gli occhi orgogliosi di Carmela all’ascolto delle novità sul progetto. L’azienda, scriveva Antonio, si sarebbe chiamata “Converse”, adattando il cognome dei cugini al termine inglese che sta per “opposto” ed è peraltro sinonimo di “cross”, cognome del terzo socio.

La cosa a cui più pareva tenere Antonio, però, era il logo che sarebbe stato cucito sulle scarpe:

«Vi mando un disegno a fine lettera. Abbiamo pensato ad una stella bianca su sfondo blu. Stando in America la stella dovrebbe essere un simbolo che piace alla gente. Gaetano è emozionatissimo, pensate che stanotte ha sognato che suo padre metteva la stella della Converse sulle magliette della Paganese! Fatemi sapere cosa ne pensate e soprattutto non dite niente di questa storia del sogno a zio Vincenzo, per favore, chè quello Gaetano lo sapete quanto si vergogna del padre.

Aspetto con ansia la vostra risposta e vi mando un abbraccio forte a tutti, vi voglio bene,

Antonio.»

A Pagani nessuno conosce davvero la storia del famoso logo della Converse, così violentemente e in maniera passionale intrecciato con la vita dei due cugini Antonio e Gaetano. Se tutto andrà come deve ci si ricorderà di questa piacevole stagione passata a sognare un salto in avanti che forse non arriverà: la stazza incredibile di Vincenzo Marruocco, la storia di Lys Gomis e dei suoi due fratelli portieri, le svettate di Alcibiade e l’esperienza di Pestrin, che in città se ne parlava un sacco di questa esperienza come se fosse tangibile, come se una volta messa in campo il risultato sul tabellone cambiasse da solo. E poi l’emozione ogni volta che Reginaldo entra in campo, uno che il calcio lo ha masticato a livelli altissimi, che a sentire quei mocciosetti che urlano “Te la sei bombata la Canalis aah?” ti vien voglia di far volare i ceffoni per oltraggio a pubblico fenomeno. Poco altro rimarrà davvero.
Una stagione senza acuti, una squadra che gioca bene e basta, un’avventura nei playoff che dovrebbe durare meno del previsto. Il rammarico per non poter sventolare fieramente il proprio orgoglio apposto su una bandiera ed esportato in tutto il globo. Ai piedi del Mondo e col Mondo ai piedi, tutto questo a Pagani non si sa.

Bassano Virtus 55 Soccer Team, Lega Pro girone B, zona playoff

Era finita l’estate a Bassano del Grappa. A certificarlo, come ogni anno, ci avevano pensato gli schiamazzi dei ragazzi riversatisi sulle strade di San Vito dopo la prima campanella. Il ritorno tra i banchi, però, non sembrava aver demoralizzato gli alunni del Liceo Scientifico, assiepati in gruppetti a ridosso dell’uscita principale. Ad elettrizzare l’aria era stata l’apertura delle iscrizioni al consueto torneo di calcio organizzato dal professor Gamba.

Il professor Gamba, docente di educazione fisica e direttore generale della squadra di calcio del paese, la Virtus Bassano, viveva giorni molto complicati. La società aveva da poco dichiarato il fallimento e Gamba era impegnato in una corsa contro il tempo per ricostituire una squadra in grado di iscriversi al campionato.

Il clima fra i ragazzi della V E sembrava essere piuttosto rilassato. Il precedente anno, d’altra parte, Mattia e i suoi compagni avevano dominato il torneo dalla prima all’ultima partita. Per la prima volta una classe quarta era riuscita ad alzare il trofeo, una riproduzione in plastica della coppa Rimet.

La squadra vincente sarebbe stata confermata in tutti i suoi effettivi, ma Giovanni, il portiere, si era da poco rotto il dito medio della mano sinistra durante una partita di basket. Una circostanza che aveva portato ad una urgente riunione di squadra per individuare il sostituto. L’incontro, avvenuto tre giorni prima dell’inizio della scuola, aveva fruttato: il nuovo portiere sarebbe stato Michele. Giocava a pallavolo da cinque anni e, come aveva fatto notare Francesco, questo lo avrebbe aiutato molto nel ruolo. E poi era bravissimo a disegnare, aveva aggiunto Mattia, quindi avrebbe potuto finalmente realizzare uno stemma per la loro squadra, il Bassano Virtus 55 Soccer Team, dove il secondo cinque rappresentava, su un’idea proprio di Mattia, la quinta lettera dell’alfabeto, la E della loro sezione.

Michele aveva subito accettato il posto, promettendo di consegnare il disegno del logo il primo giorno di scuola, in modo da allegarlo alla lista dei giocatori richiesta dal professore. Il risultato impressionò tutta la squadra: uno scudo sannitico metà giallo e metà rosso, con al centro la figura stilizzata di un calciatore impegnato in una rovesciata; a completare il tutto, il nome della squadra in caratteri neri.

Ancor prima della campanella che segnava l’inizio del secondo giorno di scuola, fu Mattia a raggiungere la palestra per l’iscrizione al torneo. Il professor Gamba, anche in virtù dell’ingiustificata fretta del ragazzo, non sembrò affatto felice di vederlo. La sua espressione però cambiò radicalmente quando ebbe fra le mani lo stemma giallorosso

«E questo chi l’ha disegnato?»
«Marin, professore. Michele Marin.» rispose Mattia, che non si aspettava di certo quella domanda.
«Chiamalo subito: ha disegnato il nuovo logo della squadra di Bassano! E voi altri, credo che dovrete trovarvi anche un nuovo nome per il torneo.»

Sono passati ormai tanti anni da quella storica edizione del torneo: il professor Gamba, ormai in pensione, conserva dolci ricordi sui ragazzi della V E, meglio nota come il Bassano Virtus 55 Soccer Team, che per il secondo anno consecutivo vinse tutte le partite fino alla finale, dove poi furono sconfitti per 3 a 0 dalla V F. Oggi Michele Marin fa l’assicuratore e non ha mai rivendicato la paternità di quel logo: non vi è traccia su Wikipedia, non lo conoscono in società, non si è mai visto allo stadio.
Ingenuamente diremmo noi, ma in realtà con uno slancio d’amore incredibile per la propria città, alla fine del torneo Michele decise di regalare il disegno al sindaco di Bassano e oggi, a più di 30 anni di distanza, la squadra della città porta il nome, il logo e le vesti di quella che fù la squadra della V E. In attacco c’è Francesco Grandolfo, proprio quel Grandolfo autore di una tripletta al Bologna e poi dimenticato in fretta. Come la V E, come Mattia e Michele e Giovanni e le ragazzine che facevano il tifo a bordocampo e quella riproduzione della Rimet, conservata da chissà chi.

Società Sportiva Fidelis Andria 1928, Lega Pro girone C, zona playoff

Il grande giorno era arrivato. In quel momento, gli occhi di tutto il regno puntavano idealmente il terreno di gioco del cortile interno di Castel del Monte, perfettamente rimesso in ordine dopo la macelleria della semifinale. Il Re, d’altra parte, era stato chiarissimo: bisognava riservare il miglior trattamento medico ai feriti e onorare i corpi dei morti, ma il campo avrebbe dovuto essere impeccabile per lo scontro finale.

Le due squadre sfilarono solennemente davanti alla corte al gran completo, fino ad inginocchiarsi, un giocatore per volta, al cospetto di sua maestà. Quando la cerimonia iniziale fu completata, l’arbitro fece disporre i Leoni arancioni e i Serpenti blu all’interno del quadrato: la finale del gran torneo per il centenario della morte di Federico II ebbe finalmente inizio.

Le squadre, nonostante gli elementi persi durante le partite precedenti, diedero subito vita ad una battaglia infernale.

Al quarto minuto di gioco, su una contesa per una palla alta nella zona centrale del campo, il capitano dei Serpenti aveva avuto la sfortuna di scivolare ed era stato letteralmente calpestato da una mischia indefinita di avversari e compagni. Il cadavere era stato prontamente portato via e il gioco era ripreso fino a quando la bastonata di uno dei giocatori in maglia blu aveva falciato un Leone, rompendogli una gamba. Nonostante lo spettacolo, nessuno era riuscito a raggiungere la rete della vittoria e con il passare del tempo, i giocatori in grado di proseguire la partita diminuivano sempre di più. Allo scoccare della quarta ora di gioco, l’arbitro concesse una breve pausa ai quattro rimasti in campo, ma durante l’intervallo un arresto cardiaco colse uno dei giocatori dei Serpenti, mentre il dolore per la precedente amputazione della mano fece perdere i sensi al centravanti in arancio. A rientrare in campo furono solamente due giocatori. Dopo diversi minuti di stallo, un rimpallo fece schizzare la palla verso l’alto e i due contendenti, senza pensarci un secondo, staccarono da terra lasciando cadere i bastoni. Lo scontro aereo fu terrificante. I gomiti dei giocatori disegnarono fulminee traiettorie diagonali, fino ad impattare entrambi sulla tempia dell’avversario. I due caddero a terra esanimi, e il cuoio rimbalzò sarcastico accanto ai loro corpi.

A rompere il surreale silenzio calato sul cortile ci pensò sua maestà in persona, alzandosi in piedi con un sorriso compiaciuto e lo sguardo visibilmente soddisfatto: «Queste due compagini hanno dato vita ad uno spettacolo incredibile. Prendete i loro vessilli e di due, fatene uno solo. Cercate i giocatori più valorosi che esistano. Con questo simbolo e nel mio nome, vedrà la luce la più forte squadra di questo gioco straordinario.»

La fortezza ottagonale, un edificio capace di unire in una sola struttura le diverse culture che attraversavano la Puglia nel XIII secolo, un castello che potesse fungere da riparo, da luogo di culto, da tenuta di caccia, da carcere e molto altro. Tutto in un unico posto.
La Fidelis Andria oggi è un’onesta squadra di Lega Pro: inserita nell’agguerritissimo girone C (quello di Lecce, Foggia, Matera e Juve Stabia), la Fidelis ha disputato un buon campionato, sotto le docili sbroccate del capitano Ramzi Aya, centrale di difesa italo-tunisino.
Ancora una volta la storia si ripete e Andria diventa epicentro di culture, calcistiche e di vita, che si incontrano e si mescolano sotto la guida del tecnico Favarin: giovani che arrivano dalla Romania, dall’Argentina, dal Ghana, dal Senegal, dalla Croazia, tutti uniti sotto un unico vessillo, quello che fu dei Serpenti e dei Leoni. E dove prima si celebrava la morte, lo scontro fisico e letale di quello che non era sport, oggi si omaggiano il calcio e l’integrazione, all’ombra di Castel Del Monte che regna sovrano dalla sua collinetta.

AC Prato 1908, Lega Pro girone A, zona playout

“Dunqua, s’io pene pato lungiamente, / “Dunque, se sopporto le pene a lungo,

non lo mi tegno a danno, / non lo giudico un male,

anzi mi sforza ognora di servire /anzi mi sforzo sempre di servire

lo bianco fioreauliso, pome aulente / il bianco fiordaliso, pomo profumato

che nova ciascuno anno / che rinnova ogni anno

a gran bieltade e lo gaio avenire. / ” la gran bellezza e il gaio aspetto.”

Nei cinquanta versi in endecasillabi e settenari che il professore non riusciva a smettere di fissare, era presente la chiave per sciogliere un dubbio che aveva attanagliato le menti dei migliori dantisti per secoli.
Entrò in uno stanzone sul retro della Cimatoria Campolmi che era solito chiamare la sede da quando, un anno prima, aveva fondata la squadra di calcio della città.

Dietro di lui, distante solo pochi passi c’era Lucio, vicepresidente e capitano della squadra, oltre che operaio del lanificio e grande appassionato di letteratura. Erano passati quattro mesi da quando Lucio aveva sottoposto per la prima volta la sua ipotesi al professore.

Fin dagli anni immediatamente successivi alla morte di Dante, la figura di Brunetto Latini, poeta e politico, era stata fonte di grande dibattito. La critica non riusciva a capacitarsi di come il sommo poeta arrivasse addirittura a definire il suo maestro intellettuale, un personaggio macchiatosi del più sozzo dei peccati, la sodomia. Coerentemente con l’inasprimento del giudizio nei confronti degli omosessuali, per giustificare il suo ritratto nella Divina Commedia, la stessa omosessualità di Brunetto Latini fu messa in discussione.

Ma adesso la questione era definitivamente risolta.

Il professore, partendo dall’intuizione di Lucio, era riuscito a collegare elegantemente una canzonetta di Bondìe Dietaiùti, poeta fiorentino, ad una già nota poesia di Brunetto. Bondiè aveva risposto in rima all’amante, riferendogli qualche perplessità, ma certificando di fatto il loro rapporto.

La posizione del professore e di Lucio però, era tutt’altro che semplice. Soltanto tre settimane prima, in città, una coppia di urningi era stata condannata dopo la denuncia di un carabiniere che li aveva uditi durante un rapporto sessuale.

A Firenze, poi, gli ambienti letterari si erano più volte dimostrati particolarmente ostili a rivedere la interpretazioni ufficiale sulla figura di Brunetto Latini. Un annuncio pubblico, insomma, era impensabile.

L’unica via, pensava il professore, passava dall’estero ed in particolare da Berlino, città molto più liberale di quelle italiane, dove viveva un suo vecchio amico e collega, peraltro esperto dantista di fama europea.

L’ultimo ostacolo era rappresentato dal controllo che la missiva avrebbe subito prima di giungere in Germania. Fu Lucio ad avere l’idea vincente. Prese la penna e scrisse senza esitazione sul foglio:

“Presentazione simbolo A.C. Prato 1908: l’amore del fiordaliso”.

Perché penso che il solo difetto dei Toscani
sia quello di non esser tutti Pratesi

Si legge a caratteri piuttosto grandi, nella prima immagine del sito dell’AC Prato. E chissà che non sia vero.
Prato quest’anno è stata terra di mezzo, occasione per il rilancio o per il definitivo oblìo: in porta Stefano Layeni, che si diceva un gran bene di lui e che la Gazzetta lo usava per fare l’11 titolare dell’Italia con giocatori tutti di colore; in difesa un giocatore mitologico come Lino Marzorati: nel 2007 Marzoratti ha fatto tutta la trafila nel Milan e gioca in Serie A con l’Empoli ma a fine stagione passa al Cagliari e il suo cognome, magicamente, diventa Marzorati. Sembra un po’ la storia dei difensori Mantovani, che ne son usciti due a distanza di anni e avevi sempre il dubbio che fosse lo stesso oppure quando la Reggina portò in Serie A Missiroli, che poi è scomparso e riapparso con la maglia del Sassuolo e svariati chili di capelli in meno. Il Prato è anche la squadra di Ciccio Tavano, che a 35 anni suonati ci prova ancora, e Giammario Piscitella: poverino, appena 24 anni ed ha già giocato per 10 squadre.

La storia di chi ce l’ha fatta
Venezia FC, Lega Pro girone A, promossa in Serie B

«Chiozza è una bella e ricca città venticinque miglia distante da Venezia, piantata anch’essa nelle Lagune […] ha un porto vivissimo e comodo e ben fortificato. Evvi il ceto nobile, il civile ed il mercantile. Vi sono delle persone di merito e di distinzione. […] Ella in somma è una città rispettabile.»

Una descrizione tanto lineare quanto sincera, quella espressa da Carlo Goldoni. A Chioggia, infatti, Goldoni aveva soggiornato per alcuni anni, in cui aveva potuto apprezzare la cittadina e soprattutto quegli ambienti popolari raccontati ne Le baruffe chiozzotte, una delle sue più celebri commedie.

Quella fra il drammaturgo veneziano e Chioggia, però, è una storia d’amore piuttosto isolata all’interno della storica rivalità che vede fronteggiarsi la cittadina sulla laguna (anche conosciuta come piccola Venezia) e la Serenissima.

Una delle storie più famose legate all’astio fra le due città è quella che vede protagonista il cosiddetto gato de Ciosa, il leone marciano posto sulla colonna di piazzetta Vigo, a Chioggia, e chiamato dispregiativamente “gatto” dai veneziani a causa delle sue ridotte dimensioni.

Fin dai tempi del Goldoni, nel periodo di Carnevale, molti cittadini veneziani erano soliti raggiungere Chioggia per godere dell’ottimo pesce servito nelle tipiche bettole. Dopo l’abbondante pranzo, i veneziani tornavano verso piazzetta Vigo per riprendere il battello che li avrebbe riportati a casa. Ma proprio qui si consumava ogni anno un classico scherzo carnevalesco: i veneziani, resi particolarmente allegri dal buon vino, abbandonavano accanto alla colonna le lische di pesce come omaggio al gato de Ciosa, per poi scappare velocemente in barca, inseguiti dagli arrabbiati chioggiotti.

Il torto subito alimentava anno per anno il desiderio di vendetta degli abitanti della cittadina; l’occasione ideale, però, arrivò soltanto molti anni dopo, precisamente quando la squadra di calcio di Venezia indisse un concorso per la creazione del suo nuovo stemma.

A vincerlo, a sorpresa, fu uno studente universitario originario proprio di Chioggia.

Il suo progetto, che ridisegnava in chiave moderna il leone alato rampante, fu accolto con grande soddisfazione dalla società e dai tifosi. Nelle motivazioni del premio si legge: “per aver dato lustro al simbolo della città, in una raffigurazione feroce ed elegante, come il nostro Venezia”.

Quello che a Venezia non hanno notato però, è un capolavoro comico degno di una commedia di Goldoni: il giovane chioggiotto, infatti, ha vendicato il gato de Ciosa ribaltando l’accusa rivolta dai veneziani.
O almeno questo è quello che raccontano in piazzetta Vigo, ridendo a crepapelle mentre guardano le sagome dei due topolini negli occhi di quello che per loro è el gato de Venessia.

La trionfale marcia del Venezia, conclusa con l’accesso alla Serie B, è stata magistralmente guidata da Pippo Inzaghi, uomo di spicco della squadra e frontman della società.
Inzaghi è la viva incarnazione del gusto, del piacere e dell’estetismo al quadrato: quando era ancora in attività si è distinto per essere un giocatore sporco, in grado di realizzare caterve di gol con movimenti sgraziati e poco vendebili televisivamente, girando a rete palloni che impattavano su di lui come in un auto-assist (gol al Bayern Monaco) o inciampando in maniera spettacolare i finale di Champions League.
Smessi i panni da calciatore e indossata la pettorina da tecnico, il fil rouge che unisce le due esperienze di Milano e Venezia è l’inconfutabile stile del personaggio, il capello che inizia ad essere brizzolato ma sempre perfettamente piegato alla stessa maniera, l’impossibilità di usare la fotocamera di Instagram come dovrebbe. La sua attitudine e il gusto per il bello lo hanno reso il terminale perfetto per l’ambizioso progetto veneziano, che in questa stagione è culminato con una rombante promozione che ci permetterà finalmente di godere su Sky del Gatto di Venezia, il logo più cool della Serie B (e probabilmente della Serie A)

I sei bellissimi racconti sono opera di
Cosimo Rubino
è nato nel 1997, sul serio. Meticcio romano-pugliese, vive a Roma, dove studia Scienze politiche e Relazioni internazionali. Scrive racconti per piacere, pezzi sulle relazioni sociali per attitudine, storie di sport per elaborazione del dolore e messaggi lunghi su Whatsapp per rimorchiare. Persegue la razionalità perfetta ma tifa Roma.

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Massimiliano Chirico
Crampi Sportivi

Da piccolo avrei voluto fare hockey su ghiaccio ma vai a spiegarglielo a mio padre. Oggi la mia vita sarebbe diversa.