Il re di Montecarlo

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
Published in
6 min readMay 26, 2017

Lewis Hamilton è insonne. In aereo, di ritorno dal Canada, non sta letteralmente chiudendo occhio. L’emozione è troppo forte. E poco c’entra il successo ottenuto davanti al compagno di squadra Jenson Button e a Fernando Alonso sul circuito intitolato a Gilles Villeneuve. C’è qualcosa di molto più importante. Perché Lewis Hamilton sta per realizzare il suo sogno di bambino: guidare la McLaren MP4/4 di Ayrton Senna. Quella che gli diede il primo titolo mondiale nel 1988. Quella delle 15 vittorie su 16 Gran Premi (e la sedicesima mancò solo perché Enzo Ferrari, dal luogo in cui riposava degnamente, ci mise lo zampino e chissà cos’altro in quel di Monza). Quella della leggenda.

A Silverstone il tempo è quel che è (quindi nuvoloso come al solito), ma a Lewis non importa. Saluta frettolosamente Jeremy Clarkson, conduttore di Top Gear, pluri-premiato programma automobilistico della BBC che ha organizzato il tutto, ed entra nel box. Avete presente un bambino che a Natale riceve esattamente quello che ha chiesto nella sua letterina? Ecco, quello che sarà un tre volte campione del Mondo di Formula 1 reagisce alla stessa maniera.

«Avevo solo un suono nella mia testa, quello del motore di quest’auto che ruggisce sulle strade di Monaco, mentre lui guida ad una mano sola, cambiando marcia con l’altra».

A questo punto, però, la sempre impeccabile regia inglese commette un piccolo errore, mostrando uno spezzone video solo apparentemente coerente con le parole di Hamilton: l’onboard sulla vettura di Senna è dell’edizione 1990 del Gran Premio di Montecarlo, la seconda di cinque consecutive dominate e vinte dal 1989 al 1993. Nel 1988, invece, il brasiliano non vinse, nonostante, a 11 giri dalla fine, fosse in testa con quasi un minuto di vantaggio sul compagno di squadra Alain Prost. Prima del disastro…

«Quel giorno mi resi conto all’improvviso che non stavo guidando più in maniera cosciente, come se mi trovassi in un’altra dimensione. Il circuito mi sembrava un lungo tunnel che io continuavo a percorrere ben al di là della mia comprensione…»

Eppure questa clip, parte integrante del lungometraggio Senna di Asif Kapadia, descrive in maniera perfetta il rapporto quasi mistico che lega il figlio prediletto di San Paolo al circuito monegasco. Che si concluda, poi, con un errore marchiano, rientra nella logica del paradosso che vuole il “pilota più forte di tutti i tempi” (parola di Niki Lauda) esprimersi al meglio sul circuito meno circuito di tutti, in un rapporto metafisico che va oltre l’umana comprensione delle cose e delle corse.

Ayrton Senna a Montecarlo ha vinto sei volte (più cinque pole position), di cui, come detto, cinque consecutive. Più di chiunque altro. Per darvi l’esatta dimensione e la portata dell’impresa, quelli che ci sono andato più vicini sono stati Graham Hill e Michael Schumacher con cinque (l’ultima nel 2001, coincidente con l’ultimo successo della Ferrari nel salotto buono del circus), seguiti da Alain Prost (quattro, di cui tre tra il 1984 e il 1986) e Nico Rosberg, dominatore tra il 2013 e il 2015. Il principio del “vincere è difficile, ripetersi di più”, quindi, vale qui più che altrove, su strade talmente strette da non concedere margini per errori o distrazioni.

Dimostrazione pratica (oggi come allora).

Lo sa bene quell’imberbe brasiliano che, il 3 giugno del 1984, si prepara a scattare dalla tredicesima posizione. Si era già fatto notare qualche settimana prima a Kyalami, in Sudafrica, ottenendo il suo primo punto iridato alla guida di una Toleman, rappresentazione su ruote del brocardo caro a Ken Tyrrel per il quale “affinché ci sia qualcuno che arrivi primo c’è bisogno che qualcun altro arrivi ultimo”. Ma quel giorno le attenzioni non sono per lui e nemmeno per Lauda e Prost che si stanno giocando il mondiale: un temporale omerico si era abbattuto sul Principato fin dalla mattina, rendendo necessario un rinvio della partenza, affinché anche il tratto sotto il tunnel fosse bagnato uniformando le sue condizioni a quelle del resto del tracciato. Quello che molti ignorano, però, è che Ayrton Senna da Silva, da bambino aveva imparato una dura lezione: ai tempi dei kart, ad ogni acquazzone torrenziale brasiliano, usciva di casa ad allenarsi con l’obiettivo di diventare il migliore in ogni condizione, anche sul bagnato, l’elemento che più lo penalizzava agli esordi. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, dal Brasile all’Inghilterra, dai kart alla Formula 2. Per questo quello che accade dopo la partenza di quel Gran Premio avrebbe dovuto stupire fino a un certo punto.

Sul podio Senna è un cencio. E non si capisce fin dove arrivi la soddisfazione per aver colto un risultato prestigioso e insperato o il livore nei confronti del direttore di corsa Jacky Ickx che ha interrotto la gara nel momento esatto in cui Prost era a tiro.

In effetti, l’appuntamento con la vittoria, sarebbe stato ritardato di tre anni, nonostante dal 1985 (l’anno della prima pole position a Montecarlo, ma anche del ritiro, con il karma intento a punire la scorrettezza ai danni di Michele Alboreto nell’ultima fase delle qualifiche) il nostro potesse contare su una Lotus molto più efficace e rapida rispetto alla sua asmatica Toleman. Il 1987 è l’anno delle sospensioni attive e del primo contatto con il motore Honda che dominerà nel lustro successivo con la Williams prima e la McLaren poi. In qualifica, Ayrton si prende la seconda posizione alle spalle di Mansell (che si giocherà fino all’ultimo il titolo con quel Nelson Piquet che aveva stoppato l’approdo di Senna alla Brabham per non avere un compagno di squadra della sua stessa nazionalità), andando poi a vincere la gara approfittando del ritiro del pilota inglese per problemi al turbo:

L’approdo in McLaren, disastro del 1988 a parte, coincide con un dominio netto e a tratti imbarazzante fino al 1991: il trittico è sempre lo stesso, pole, vittoria e giro veloce, con vette di onnipotenza assolute. Come nel 1989 quando rifila a Prost un secondo in qualifica e 52 in gara.

Ma Senna entra definitivamente nella leggenda nella stagione 1992. E’ l’anno della Williams Renault che non può sostanzialmente perdere (Ayrton, infatti, vincerà appena tre gare), grazie ad un sistema di sospensioni talmente all’avanguardia che il pilota deve preoccuparsi unicamente di spingere al massimo in ogni curva. Stavolta è lui a beccarsi oltre un secondo di distacco in qualifica da Mansell, finendo dietro anche ad un Riccardo Patrese bruciato, però, già alla frenata della Saint Devote. La FW-14B con il cinque rosso, però, appare francamente irraggiungibile. Almeno fino a sette giri dalla bandiera a scacchi: Mansell rientra ai box a causa di un dado del cerchione allentato che lo costringe ad un nuovo cambio gomme. Senna ne approfitta e passa in testa con un margine di cinque secondi che il pilota inglese si mangia in un amen, arrivando in scia al brasiliano in tre giri finali che non si possono raccontare ma soltanto ammirare:

«Non riesco a trovare uno spazio…» / «Gli spazi non si cercano, si creano!» (dal film “Driven”, anno 2001. O 1992).

Il copione si ripete nel 1993. Se possibile la versione clienti del motore Ford che equipaggia la monoposto di Woking è ancora peggiore rispetto all’ultima versione del 10 cilindri Honda dell’anno precedente. Soprattutto se rapportato a quello ufficiale che spinge la Benetton di un giovane Schumacher e al solito Renault dell’altrettanto solita Williams, questa volta in mano ad un Alain Prost alla ricerca dell’ultimo alloro iridato della carriera. Ancora una volta un secondo rimediato in qualifica, ancora una volta il destino che ci mette lo zampino (Prost in difficoltà dopo lo stop and go comminatogli per partenza anticipata, oltre al successivo ritiro di Schumacher), ancora una volta, l’ultima, il gradino più alto del podio.

Non esiste una ragione tecnica, umana, sportiva alla base di una simbiosi così perfetta e unica tra un pilota ed un circuito. Toccherebbe, forse, prendere in prestito le parole di Michael Jordan, il quale sosteneva che il campo da gioco fosse il suo “psicologo, il luogo dove trovo la soluzione a tutti i problemi”. Ecco mi piace pensare che Ayrton fosse davvero felice e davvero sé stesso solo su quelle tortuose stradine dove spingeva al limite (e oltre) una monoposto da oltre 1200 cavalli. Trovando la serenità e la pace interiore per esprimere a pieno il suo essere il migliore di tutti e per affrontare tutto dentro e fuori dalla pista, che fosse un dramma privato o una stagione che non stava andando secondo le aspettative. Probabilmente lo avrebbe fatto anche nel 1994. Probabilmente lo avrebbe fatto anche dopo Imola.

Aceleramos juntos.

Articolo a cura di Claudio Pellecchia

--

--