Smetto quando voglio

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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7 min readJan 25, 2017

Ognuno di noi ha uno scatolone, un cassetto o un ripiano di qualche armadio ingiallito, non importa tanto la sua forma, quanto la sua funzione, quella di custodire — spazio permettendo — i ricordi più cari di parte della vita, o di una vita intera. Il completo della squadra dell’oratorio, il diario delle medie, le scatole dei vecchi Fifa e Pes, la locandina del film preferito in età adolescenziale.

Capita poi di mettersi seduti sul pavimento, con le gambe incrociate, ed estrarre il contenuto come se si stesse giocando all’Allegro Chirurgo. In una qualsiasi domenica d’inverno sarà capitato anche ad Antonio Cassano, una volta uomo dalle mille risposte, ora schiavo di mille periodi ipotetici.

Nel 2008, nella sua autobiografia, scriveva:

Ero povero, ma tengo a precisare che nella mia vita non ho mai lavorato. Anche perché non so fare nulla. A oggi mi sono fatto 17 anni da disgraziato e 9 da miliardario. Me ne mancano ancora 8 prima di pareggiare”.

A chi ricorda come se fosse ieri la serpentina contro l’Inter del 18 dicembre 1999 fa strano pensare che proprio lo scorso 18 dicembre Antonio abbia finalmente azzerato i conti. Proprio lui che ha fatto sempre fatica a guardarsi indietro. Diciotto anni fa ebbe l’occasione di fare della sua vita un capolavoro, addomesticando la sfera con il tacco, facendo breccia tra Panucci e Blanc e insaccando la palla in rete alle spalle di Peruzzi. Diciassette anni: etichettato da subito come un cafoncello di Bari Vecchia, a farsi specchio di un numero imprecisato di giovani reietti, a fargli intravedere la speranza dell’emancipazione. Trentaquattro anni (diciassette anni dopo): per loro, come per molti altri, Antonio è stato un fuoriclasse.

Una foto: Cassano insieme a Baggio — 1 ottobre 1995

Antonio, tredicenne, assapora il suo futuro rincorrendo palloni al San Nicola ma come raccattapalle, per il resto si accontenta di palcoscenici improvvisati, come il fossato del Castello Svevo o Piazza del Ferrarese, dove dribbling e palleggi infiniti attirano comunque una discreta quantità di curiosi.

Ripensando oggi al civico 5 di via San Bartolomeo, nella città vecchia, tutto sembra incredibilmente sproporzionato: le strade sono più strette e i palazzi più piccoli. Per non parlare delle stanze: il bagno, la cucina e la camera da letto lasciano, al solo pensiero, un inquietante senso di claustrofobia. La risposta a quella domanda è solo una: quando vivi in ambienti del genere può darsi che la mentalità sia più chiusa, rispetto a chi vive la metropoli, ma la vita è aperta. Aperta a tutto ciò che non sta dentro una casa, quantomeno. E c’è una fotografia che ne è il simbolo: uno sliding doors che una decina d’anni più tardi poteva incredibilmente avverarsi. Il Divin Codino, trentasettenne, appende gli scarpini al chiodo, FantAntonio, ventiquattrenne, pronto a raccoglierne l’eredità. Ma qualcosa non è andato per il verso giusto.

Un giubbotto di pelliccia — 4 gennaio 2006

Due grandi sfortune hanno caratterizzato la vita di Antonio Cassano. La prima è quella di essere nato nella miseria, masticando a denti stretti la fame, quella vera. La seconda, invece, è quella di essere stato sempre, narcisisticamente, consapevole del suo innato talento. Per questo motivo, crediamo, che la carriera e — allargando la lente d’ingrandimento — l’essere del calciatore barese sia stato contrassegnato da due parabole, l’una inversamente proporzionale dell’altra.
Al crescere del suo ingaggio il rendimento è costantemente calato. Analogamente, la stessa cosa si è verificata a fattori invertiti. E quel giorno, quel 4 gennaio 2006, quando le porte scorrevoli, della sezione “arrivi”, dell’aeroporto Barajas di Madrid si sono aperte, Antonio ha toccato il punto più alto della sua curva di autocelebrazione. Si presenta al pubblico madrileno sovrappeso di una quindicina di kili, con un giubbotto — quel giubbotto — dal collo di pelliccia, kitsch già undici anni fa, figuriamoci adesso.

Quei suoi comportamenti fuori dagli schemi — quelli che Fabio Capello etichetterà con uno dei neologismi più celebri coniati dal mondo del calcio, ovvero cassanate — hanno perso quello smalto di cui godevano una volta, forse per l’eccessiva ridondanza. Ma quel momento, quel preciso episodio, è esemplare proprio per la spettacolarizzazione più concreta, anche se meno eclatante di un calcio ad una bandierina in mondovisione.
Quell’ingresso trionfale, nel quartier generale dei galacticos, preannuncia il leitmotiv su cui si svilupperà la permanenza in terra spagnola. Sentiva, finalmente, di aver condotto il suo talento nel posto giusto. Come Hollywood per un attore o il CERN per un fisico. Probabilmente aveva anche ragione: era solamente il momento sbagliato. Uno dei tanti della sua carriera.

Un disco: Renato Zero — Tregua (1980)

https://www.youtube.com/watch?v=j4hK74GjurA

Quella notte mandò via tutti. Se lo ricorda bene. Dopo la rete all’Inter, casa sua era letteralmente invasa di gente. Con grande sorpresa e dispiacere di mamma Giovanna, Cassano mandò tutti via. Prima di quel guizzo, di quel colpo di genio, la famiglia del pugliese era abbandonata a se stessa, in una quarantena condivisa con gente simile. Simile nella difficoltà, nella povertà e nella speranza. Secondo lui, non avevano bisogno di nessuno. Come del resto, erano riusciti ad irraggiarsi sino a quel momento.
Il topos “amicizia” è un elemento instancabilmente determinate — soprattutto per l’incidenza con cui si è palesato — nella storia calcistica di Antonio Cassano. Non è un caso, infatti, che proprio in quel burrascoso episodio, di circa diciassette anni fa, abbia appurato il concetto capendo cosa non è l’amicizia. Che, in fondo è il miglior modo per comprendere le cose.
In quel disco di Renato Zero, Tregua del 1980, c’è una traccia, la numero nove, a cui il barese è particolarmente affezionato. L’ha persino dedicata, sul palco del Festival di Sanremo, al suo primo idolo ed ex compagno fraterno: Francesco Totti.

Amico è un motivetto che spesso sarà risuonato nei pensieri di Antonio, semplicemente perché non ha mai avuto difficoltà a etichettare i rapporti nati in ambito professionale. Ci sono i non amici, quelli che non ha mai avuto timore di definire come tali. In merito a queste persone, potevi schierarti solo con o contro di lui. Marcello Lippi e Claudio Gentile, entrambi accomunati dall’essere CT della nazionale (maggiore e U21), sono i nomi noti. Quelli con cui non è riuscito a costruire un rapporto. Poi ci sono i quasi-amici. Il Capitano della Roma e Fabio Capello sono da ascrivere a questa categoria per il travagliato altalenarsi di amore e odio, costellato di accuse e scuse, di perdita e perdono. E, infine, gli amici. Quelli veri, che sono rimasti sempre al suo fianco, perché è riuscito a tenerseli stretti e a non rovinare tutto. Eugenio Fascetti, suo padre calcistico, Agostino Tibaudi, suo preparatore personale e maggiore artefice della sua rinascita, e i vari compagni di squadra con cui ha condiviso vittorie, sconfitte e segreti nello spogliatoio dei club in cui ha militato, e, a fasi alterne, della nazionale.

Doveva chiamarsi Paolo. Suo padre voleva così. Ed era stata in parte colpa sua, di questo Paolo, insieme a tutta la compagine allenata da Bearzot, se in giro per tutta Bari non si riusciva a trovare un medico — uno solo — per far partorire la signora Giovanna. Bisognava andare in piazza o sul lungomare a cercarli, in mezzo ai festeggiamenti per il Mondiale di Spagna. Fu così che, dopo cinque ore di travaglio, venne alla luce Cassano. Che di nome, però, faceva Antonio in onore del Santo. Il 12 — e non l’11 — luglio 1982.

Quella è stato solo l’inizio del rapporto complicato con la maglia azzurra, quella che ha sempre ceduto con riserva, al fascino del suo piede fatato, che ne ha accettato la corte senza però farsi mai sedurre. Esordisce e sigla la sua prima rete, nella selezione maggiore, nella stessa partita che, guarda il destino, stava per non giocarsi. Il 12 novembre 2003, più che data in cui si svolse l’amichevole tra Polonia e Italia (3–1), nella stessa data in cui si verificò la strage di Nassiriya.

Alla prima grande occasione, con la formazione allenata da Giovanni Trapattoni, arriva l’ennesimo smacco. Euro 2004, infatti, non è il torneo che ricordiamo per il due gol in tre partite di FantAntonio ma per il biscotto, dal sapore amaro, confezionato dall’asse nordico Svezia-Danimarca. La non belligeranza tra le due nazioni dirimpettaie lasciò gli azzurri alla porta, e pensare che il barese non centrasse niente, anzi si fosse impegnato come mai prima, per raggiungere quell’obiettivo sportivo, ci regala un’altra sliding doors, un altro sorriso amaro.

Poi la non-convocazione per i due Mondiali dell’era Lippi, gli Europei del 2008 giocati da terzino — una esclusiva riservata a Donadoni, la finale persa contro la Spagna e la prima World Cup giocata a ben trentadue anni. Un tempismo detrattore, colpevole.

Dimmi come e quando

Cassano ha giocato molto col cuore di noi innamorati del pallone: coi suoi movimenti, i suoi passaggi e le sue smorfie, con i suoi dribbling culo a papera e le braccia larghe, da direttore d’orchestra in pausa pranzo. Ha giocato col nostro cuore ogni volta che ha deluso le aspettative, ma anche quando ci ha sorpreso. A Genova e a Parma, per esempio, o in quegli sprazzi di Milan in cui davvero sembrava che la maglia non gli pesasse. Ora che il tempo sgocciola e le piazze disposte a farsi accarezzare dai suoi scarpini diventano sempre più piccole, sta a lui decidere come uscire di scena. Per quanto riguarda il momento in cui farlo, invece, inutile illudersi che lasci la scelta a qualcun altro.

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