Sopravvissuto

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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13 min readOct 20, 2015

Quattro anni fa Mauricio Soler, re della montagna al Tour de France 2007, entrava in coma dopo una terribile caduta. Oggi, a 32 anni, è un uomo provato nel corpo e nello spirito. Questa è la storia di gloria e tragedia dell’ex scalatore che è diventato punto di riferimento per i colombiani che pedalano.

A Mauricio Soler alcuni movimenti fanno ancora molto male, forse gli faranno male per il resto della vita. Azioni semplici, umanissime, mica come scalare un passo alpino. Fa fatica anche solo a ruotare il collo verso sinistra, per controllare dove si sia cacciato Aquiles, per capire se stia annusando il tronco di un’acacia o inseguendo una gallina. Poi il labrador nero, dopo un po’, torna. Torna sempre, pacifico, e non c’è alcun bisogno di accertarsene, perché il percorso ormai lo conosce benissimo. La vulnerabilità suggerita dal nome omerico si addice maggiormente al suo padrone.

Da quattro anni Mauricio e Aquiles camminano ogni mattina prima delle otto, per un chilometro, sulla strada tutta curve che da Ramiriqui porta a Miraflores, dipartimento di Boyacà, cuore delle Ande Orientali. Per Simon Bolivar, culla della libertà verso l’indipendenza colombiana; per molti turisti, patria delle arepas più saporite del mondo.

Lentamente, dopo la messa, i due sorpassano la piazza centrale, dove Soler si sdoppia in una statua di ferraglia che lo ritrae su un piano inclinato, e si avviano. Destinazione la piccola casa di campagna dove Mauricio ha allestito una palestra di fortuna: dalla fine del 2011, è il suo personalissimo centro di riabilitazione. Gli esercizi sono sempre gli stessi, ma i progressi, adesso, non si notano più. Sono quasi inesistenti. Tutta la parte sinistra del suo corpo è rimasta semi-paralizzata: l’occhio socchiuso, la bocca sottile e orientata verso il basso come tirata da un filo invisibile, la gamba pesante a dispetto della magrezza scheletrica. “Tengo que mover la sangre”, dice.

Mauricio Soler sembra un vecchio. Non la vecchiaia atavica delle facce dei campesinos, abbozzate su una pelle dura e spessa che protegge dall’altitudine e racconta secoli di devozione alla terra. È piuttosto la vecchiaia precoce dei muscoli e delle ossa di un omone di 32 anni che, dentro una tuta in acetato e sotto un cappellino da baseball fuori moda, sembra aver sofferto per un tempo lungo almeno il doppio della sua età.

Gli occhiali da sole non riescono a camuffare uno sguardo nostalgico di sonno e pedalate. Al re delle salite del Tour de France del 2007 è stato tolto il sellino, il suo trono preferito, per sempre: l’aumento della pressione intracranica, inevitabile qualora tornasse a correre in bicicletta, gli sarebbe fatale. Del prototipo di scalatore agile che era qualche anno fa è rimasto ben poco: qualche poster, una maglia a pois in salotto, l’amore per uno sport che gli ha dato tanto e gli ha tolto di più. La bicicletta è sempre nel mio cuore, ripete spesso sottovoce.

Il monumento dedicato a Mauricio Soler in una piazza di Ramiriqui, la sua città natale.

Una caduta ogni cinque corse

Quando, verso la metà dell’Ottocento, i primi antenati della moderna bicicletta cominciarono a diffondersi nell’Europa centrale, un serio dubbio prese piede tra gli spettatori dell’incredibile fenomeno degli uomini capaci di muoversi e sterzare su due ruote allineate: perché, nonostante la tecnologia che permetteva la creazione di quel mezzo di trasporto fosse disponibile da oltre tremila anni, ci volle tanto tempo per inventarlo?

Una delle ipotesi più accreditate è che nessuno credeva che si potesse davvero stare in equilibrio su due ruote in linea. Le leggi della dinamica che rendono possibile l’avanzare di una bici sono semplici ma niente affatto banali: nonostante gli accorgimenti tecnici che, nel tempo, hanno reso il nostro pedalare più confortevole e sicuro, guidare un velocipede resta esercizio a stabilità precaria.

Su questo pianeta, in pochi possono testimoniare questa evidenza empirica con la stessa credibilità di Mauricio Soler. Quello che segue è un elenco parziale delle sue cadute in tredici anni di ciclismo.

Nel 1999 cade nei primi dieci metri della prima tappa della Vuelta Nacional del Futuro: arriva comunque secondo in classifica generale dopo aver recuperato oltre 16 minuti.

Durante un allenamento in vista della Vuelta al Porvenir del 2001, cade scendendo dall’Alto de Canutos, dopo aver urtato con la ruota posteriore un’auto della polizia accostata a bordo strada: resta tre giorni incosciente in ospedale, con il volto sfigurato; il padre, don Manuel, stenta a riconoscerlo, mentre il suo allenatore pensa che la carriera di Mauricio sia finita ben prima di cominciare. Poche settimane dopo, Soler vince la corsa che stava preparando.

Nell’ultima tappa della Vuelta a la Juventud del 2003, un gruppo di corridori di Antioquia, storici rivali dei boyacensi, stringe Mauricio nel circuito finale della tappa, facendogli perdere l’equilibrio. Nel 2005, terza frazione del Giro di Colombia, passa in testa sull’Alto de La Linea, ma nella discesa successiva scivola non una, non due, ma tre volte: nel fondovalle è il vento forte a fargli perdere il controllo del mezzo.

Stesso anno, al Clasico RCN, un tifoso irrompe improvvisamente nel gruppo nei pressi di Cajamarca: Soler finisce per terra, con la corona infilzata nella gamba. Conclude la gara, ma il giorno dopo non può ripartire. Pochi mesi dopo, in Bolivia, il nuovo incidente è causato da un cane: secondo il cronista de El Colombiano, la faccia di Soler sembrava una cartina geografica.

Serafín Bernal, il suo primo allenatore, è convinto di non aver visto mai nessuno incontrare il suolo con la frequenza di Mauricio. La media ufficiosa parla di una caduta ogni 5 corse: “La pelle che ha ora non è la stessa con cui è nato. È come se fosse stato scorticato.” Mauricio Ardila non si dà pace: “Cadiamo tutti, ma lui ha una sfortuna inspiegabile.”

Alcuni pensano si tratti di un maleficio. Soler viene presentato a padre Álvaro de Jesús Puerta, un sacerdote noto nella regione di Boyaca per i suoi miracoli. Ma nemmeno la messa celebrata per richiedere presso l’alto la guarigione di Mauricio sembra produrre effetti. D’altra parte, tutti gli esami dei riflessi non presentano particolari anomalie.

La verità, cominciano a sostenere gli esperti, è che Soler sembra soffrire più di altri la natura selvaggia del ciclismo colombiano, che non passa attraverso scuole e velodromi, ma procede dalla terra, vive di istinti, trascura i fondamentali, predilige le salite, ignora le discese. Soler sta semplicemente facendo scuola di bicicletta nel modo più pericoloso che si possa immaginare: alla velocità folle del ciclismo professionistico.

Il trasferimento in Italia non cambia la sostanza. Nel 2007 cade alla Coppa Agostoni e gli viene ricostruita la cartilagine del polso destro; nel 2008 tocca a un ginocchio, durante il Giro della Provincia di Reggio Calabria. Al successivo Giro d’Italia, si frattura il polso sinistro già nella seconda tappa; giunge al traguardo e resta in corsa per altre nove tappe, ma all’undicesima è costretto all’abbandono: non riesce nemmeno a stringere le leve dei freni. I polsi, in particolare, sembrano perseguitarlo. Nei chilometri finali della prima tappa del Tour 2008 è di nuovo il turno di quello destro: altra frattura, altro ritiro.

La seconda tappa del Giro 2009 porta in dote una tendinite al ginocchio destro, mentre nel 2010 viene investito da un’auto a un isolato da casa, poi batte il ginocchio sinistro nella prima tappa del Giro del Delfinato. Alla Vuelta a Murcia del 2011, scendendo da Collado Bermejo, un’ambulanza lo recupera con la gamba sinistra piena di tagli.

Ed il peggio doveva ancora arrivare.

Manuel Soler e Maria Hernandez, i genitori di Mauricio. Contadini, molto religiosi, hanno sempre seguito con apprensione la carriera agonistica del figlio, temendo le possibili conseguenze delle continue cadute sull’integrità fisica di Mauricio.

El Lancero

Spiegare la passione dei colombiani per il ciclismo paragonandola a quella degli italiani nel secondo dopoguerra, quando le gesta dei campioni-eroi sposavano la necessità del Paese di crearsi una coscienza di sé e di stringersi intorno a qualcosa di unitario, è esercizio fruttuoso, ma parziale.

Alcuni sociologi attribuiscono il successo del ciclismo in Colombia a ragioni meramente economiche: sarebbe la maggiore povertà dei colombiani rispetto ai vicini venezuelani e argentini a spiegare perché la bici abbia avuto il sopravvento, per esempio, su baseball, polo e rugby. Nella scoscesa Colombia, la bicicletta serve per andare a lavorare, per raggiungere i campi. È una necessità, non un hobby. È parte organica dell’identità nazionale, e in aggiunta si fonde con il sentimento cattolico dominante: i concetti di dolore, sofferenza e martirio, connaturati alle scalate in bicicletta, sono più che familiari per ogni escarabajo (questo il soprannome dei ciclisti colombiani, paragonati per durezza e tenacia a degli scarafaggi).

Negli anni ’50 Gabriel Garcia Marquez, giovane reporter de El Espectador, descrisse in un articolo la frenesia dei ciclisti urbani di Bogotà, che si riversavano eccitati per le strade del centro al termine della trasmissione radiofonica di ciascuna tappa del Giro di Colombia, esaltati dal racconto giornalistico delle imprese sportive. La definì esattamente una “malattia”.

Quando, nel 1983, il Tour de France aprì per la prima volta ad un team colombiano, la febbre a due ruote diventò massima. Radiocronisti prima e telecronisti poi assunsero l’incarico di narratori epici più che di testimoni oculari; per un decennio, con il loro trasporto e il loro stile concitato ed enfatico divennero mezzo fondamentale (nonché riconoscibilissimo) per la diffusione del verbo ciclistico tra le piantagioni di caffè e di mais, da Medellin a Cali. Victoria para Colombia! Victoria para Herrera!

Dopo gli anni ’90 e l’esplosione endemica del calcio, l’altra malattia sportiva colombiana, che mise per la prima volta in discussione il primato socio-mediatico del ciclismo, il Tour del 2007 va considerato nuovo punto di svolta nella storia ciclistica del paese sudamericano.

È il Tour di Mauricio Soler, che il 17 luglio scatta sulle prime rampe del Galibier, a 47 km dall’arrivo della nona tappa. Dopo aver raggiunto i cinque fuggitivi di giornata e staccato gli ultimi a mollare — Popovych e Astarloza — il quasi sconosciuto Soler, che corre nella piccola Barloworld, passa da solo in testa ad una delle montagne-mito della Grande Boucle. I transistor di radio e tv friggono nei caffè di Colombia.

Nella discesa successiva, Contador e Popovych si lanciano all’inseguimento del fuggitivo, che nel frattempo ha accumulato oltre 2 minuti di vantaggio. La regia francese, convinta di un imminente ricongiungimento, non trasmette più immagini della testa della corsa. A 10 chilometri da Briançon, il vantaggio si è ridotto a 58 secondi e gli inseguitori sono diventati quattordici: c’è anche la maglia gialla Rasmussen. Todo un país con los pedalazos de este colombiano! L’ultimo chilometro e mezzo è in salita, Soler ha ancora 50 secondi. Rilancia ancora, duecento metri, ultima curva, si volta e non c’è nessuno. Se sube el corazon, se sube Colombia. Soler es el ganador!

https://www.youtube.com/watch?v=rsnhEEJ-z-g

Sui Campi Elisi, Mauricio è undicesimo in classifica e veste la maglia a pois; a fine stagione viene eletto sportivo colombiano dell’anno. Gli europei lo ribattezzano Condor, mentre in patria preferiscono chiamarlo Lancero (lanciere), come uno dei soldati-simbolo dell’esercito di Bogotà. Soler ha finalmente riportato il ciclismo colombiano ai fasti di Lucho Herrera e Fabio Parra, ed è rey de la montaña sette anni dopo Santiago Botero.

Oggi, a chi gli chiede di parlare del passato, Soler risponde con voce fragile e tono intermittente che ricorda poco, quasi nulla, di quello che diceva e pensava allora. Nemmeno la sua memoria è sana come un tempo, a volte anche conversazioni vecchie di poche settimane gli sembrano offuscate da un velo spesso. “Però ricordo una cosa: ho sempre voluto vincere una tappa del Tour de France, e per riuscirci sapevo che dovevo dare tutto. Dovevo morire sulla bicicletta.”

Una gran seconda tappa

Lo scoppio di un tubolare ad alta velocità, con il suo fragore sordo ed improvviso, è uno dei rischi che gli stradisti temono di più: puoi essere scaraventato a decine di metri di distanza, e allora la tua sorte non dipende più da te. Il 16 giugno del 2011, al chilometro 33 della sesta tappa del Giro di Svizzera, all’uscita da una rotonda la ruota davanti della bicicletta di Mauricio Soler esplode dopo l’urto causato da una buca nell’asfalto profonda un paio di centimetri. La velocità al momento dell’incidente è di 72 km/h.

Il ciclista viene sbalzato giù dalla bici e, dopo un volo di alcuni metri, termina la sua corsa colpendo in pieno, con la testa, un paletto metallico che sostiene la recinzione di un giardino a bordo strada. Baden Cooke, che si trova alle spalle del colombiano, parlerà dell’impatto come una cosa “veramente disgustosa”; secondo alcuni giornalisti di lungo corso, la dinamica della caduta è tra le più terribili di sempre.

I soccorritori non trovano grandi quantità di sangue sulla scena: i danni sono quasi tutti interni, e sono gravissimi. Trauma cranico, lacerazione del rene sinistro, polmone lesionato, una dozzina di fratture: base sinistra del cranio, otto costole, clavicola, scapola, zigomo, collo del piede sinistro. Nella scala di Glasgow, che misura il livello di coscienza delle vittime di trauma cranico, Soler si trova al livello 3, il più basso. Il corridore viene trasferito in elicottero all’ospedale di San Gallo e Alfredo Zuñiga, il medico della Movistar, telefona a Patricia, la signora Soler: “Suo marito sta molto male, è praticamente morto. Solo un miracolo può salvarlo.”

Tre giorni prima, Soler era tornato alla vittoria. Sulla salita di Crans-Montana era scattato a un chilometro dalla meta, distanziando Cunego e Franck Schleck e prendendosi la maglia di leader della generale. Aveva dedicato la vittoria a Xavier Tondo, compagno di squadra deceduto pochi giorni prima, e i giornali avevano parlato di “fiducia finalmente ritrovata” da parte di una promessa delle due ruote che, dopo l’exploit del 2007, sembrava essersi smarrita tra cadute e ansia da prestazione.

La mattina dell’ultima caduta, Soler aveva in programma di riprendersi la testa della classifica, che nel frattempo era passata a Damiano Cunego. Invece quello stesso pomeriggio si ritrova sul letto di un ospedale, con un prete che gli impartisce l’unzione degli infermi e sua moglie che valuta l’opportunità di staccare la spina dei macchinari che lo mantengono in vita in stato di coma indotto.

Passano tre settimane prima che alcuni piccoli, inattesi segnali positivi inducano i medici a trasferirlo a Pamplona. Tre giorni dopo, Soler si sveglia e riconosce Patricia. Non ricorda nulla, pensa di essere a casa sua, in Colombia. Rimane nell’ospedale navarro per quattro mesi, perché il neurologo assicura che un volo aereo sarebbe per lui molto rischioso.

Gli vengono tolte le sonde, ricomincia a mangiare, poi, più lentamente, a parlare. “È come un bambino”, dice in tv Patricia, che di mestiere fa l’infermiera e ora assiste il compagno, ex campione divenuto improvvisamente un mucchio di ossa inerti. Gli insegna a muovere i primi passi; prega insieme a lui per lunghe ore: il salmo 91 è il preferito di Mauricio. Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido.

Dopo quattro mesi, Soler può tornare in Colombia: all’aeroporto di Bogotà decine di tifosi lo accolgono come se avesse vinto il Tour. Lui non vede l’ora di rivedere Junior, il primogenito di 2 anni. Comincia per Mauricio quella che Miguel Indurain, il suo idolo di infanzia, in un pomeriggio come tanti all’ospedale di Pamplona gli aveva augurato essere “una gran seconda tappa”.

Il 18 luglio del 2012 Juan Mauricio Soler Hernández si ritira ufficialmente dal ciclismo professionistico.

Sic transit

Mauricio e Aquiles ripercorrono la strada del mattino in direzione opposta, quando fuori la luce del giorno colombiano che tende alla sera è un poco meno abbagliante. Il resto della giornata di Soler è a casa, a Ramiriqui, con Patricia e Junior, che Mauricio ripete essere una delle ragioni principali della sua resistenza, del suo attaccamento alla vita: “Ringrazio Dio tutti i giorni per avermi dato la possibilità di veder crescere mio figlio”. E se un giorno Junior avesse voglia di diventare ciclista? “Io spero che possa studiare il più possibile, e magari che possa appassionarsi ad uno sport meno rischioso, tipo il tennis”, sorride. “Ma se decidesse di andare in bicicletta, sarò dalla sua parte”.

Dalle interviste rilasciate negli ultimi tre anni risulta chiaro che El Lancero sia stato annientato solo nel fisico. Sotto l’involucro emaciato di un eroe senza più superpoteri, rimane intatto lo spirito combattivo dell’uomo che, dopo aver lottato contro un destino segnato sin da subito dalle tinte intense della tragedia incombente, ha perso quasi tutto, ma ha trovato la consapevolezza che per questa nuova tappa, che è una vita fatta di dettagli elementari e all’apparenza insignificanti, vale la pena di trovare il coraggio da qualche parte.

Nel marzo 2013, El Espectador pubblicava un suo scritto autografo: “Si tratta di adattarsi alle limitazioni e di conservare la speranza nel futuro. Non credo che la mia situazione possa migliorare di molto, certi giorni i dolori sono più forti e non riesco a scendere le scale a causa delle vertigini. Ma non posso permettermi di arrendermi e fare passi indietro: ho voglia di sfruttare questa seconda opportunità”.

Il ciclismo continua ad avere un ruolo non marginale nella vita di Soler. Attualmente collabora con suo fratello Omar nella squadra giovanile del paese, e insieme hanno dato vita alla Fundacion Mauricio Soler. Le corse professionistiche invece le segue in tv, quasi sempre. Lo scorso maggio ha fatto visita al gruppo quando il Giro d’Italia ha sconfinato in Svizzera, a Melide, e lui si trovava da quelle parti per un controllo medico.

18a tappa del Giro d’Italia 2015. Presso il villaggio di partenza, Mauricio Soler chiede di incontrare Alberto Contador, uno dei suoi maggiori sostenitori durante il periodo della degenza in ospedale.

I connazionali lo considerano già una leggenda, da Rigoberto Uran, compagno di stanza ai tempi della Caisse d’Epagne, a Nairo Quintana, nato a 40 km da Ramiriqui, fino a Esteban Chaves, l’astro nascente della scuola sudamericana. Mauricio Soler è per tutti loro esempio di disciplina esistenziale e simbolo dell’inizio del riscatto del ciclismo colombiano sulla scena internazionale dopo le difficoltà collegate alla scientificità dell’era-Armstrong.

Complicato fare congetture sul se e sul come la carriera di Soler sarebbe potuta evolversi senza quel paletto d’acciaio a bordo strada. Forse avrebbe vinto un grande giro, prima o poi. O forse no. In fin dei conti, però, non interessa a nessuno. Nemmeno a Soler stesso, che, a 32 anni, deve fare i conti tutti i giorni con il tarlo del “ciò che poteva essere”, con la perentorietà del “mai più”, con l’incontrovertibile realtà di un successo che esiste solo in retrospettiva ed emana malinconia dai ritagli di giornale, dai video su YouTube, dal quadro appeso in casa dei suoi, nella stanza dove la señora Maria recita il rosario tutti i giorni. È una foto di Mauricio in maglia a pois, con sopra una dedica scritta a mano:

Papà e mamma, grazie per avermi dato gambe così forti.
E ringrazio Dio per avere due genitori come voi. Vi adoro.
Vostro figlio Mauricio Soler.

È di pochi giorni fa la notizia che Team Colombia, la squadra tutta sudamericana diretta da Claudio Corti, non sarà in gruppo nella stagione 2016: mancanza di fondi. Tuttavia di sicuro non ci si sbaglia prevedendo che molti escarabajos continueranno ad animare i tapponi di montagna dei prossimi Giri e dei prossimi Tour con il loro modo di correre intimamente sfrontato, riassunto nel poetico concetto di malicia indigena.

Esattamente la stessa che mostrò al mondo Soler in quel giorno perfetto di 8 anni fa, sulle Alpi. La voce di Mauricio trema un po’ di più quando riporta alla mente lo splendore del suo fisico di allora, la bellezza di quella gloria effimera, il piacere intatto dell’emozionarsi per essere riuscito a regalare “un poquito de alegría” al proprio popolo.

https://www.youtube.com/watch?v=tDNrKdDxSyM

“Nos estorbo la ropa” di Vicente Fernandez è il pezzo preferito di Mauricio Soler. Si tratta di una canzone d’amore con tanto di mariachi, un misto di passione e nostalgia che definisce bene l’esistenza dell’ex corridore colombiano. In questo singolo del 2015, invece, i San Miguelito rendono omaggio a Mauricio Soler e a tutti i ciclisti di Boyaca.

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