Squadre leggendarie anche senza aver conquistato l’Europa: il Grande Torino

Crampi Sportivi
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8 min readJan 9, 2017

Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola, Ferraris II.

Sono dieci perché manca il portiere. Tutti e dieci i giocatori di movimento di una partita della Nazionale italiana provenienti da un’unica squadra: un record nella storia degli Azzurri.

Il giorno è l’11 maggio 1947 e l’occasione è un’amichevole contro un’Ungheria ancora distante qualche anno da diventare Aranycsapat, la fenomenale squadra che dominerà la scena negli anni Cinquanta.

Qui però siamo nel decennio precedente ed è proprio dal secondo dopoguerra che ha inizio un viaggio a puntate le quali ci porteranno fino ai giorni nostri. Per ciascuna decade verrà celebrata una grande squadra che ha lasciato la propria impronta nella Storia — maiuscola non casuale — del calcio senza però esser mai riuscita ad alzare al cielo la coppa dalle grandi orecchie, il massimo trofeo continentale… E, come avrete intuito dai nomi della formazione, per gli anni Quaranta la scelta — d’obbligo — è ricaduta sul Grande Torino, diventato leggenda per i trofei vinti con una superiorità imbarazzante ma anche, purtroppo, per l’incidente aereo mortale avvenuto sul colle di Superga di ritorno da un’amichevole a Lisbona. Era il giorno 4 maggio 1949 e si chiudeva tragicamente il ciclo di una squadra irripetibile.

Calciatori dalla doppia vita

Dettaglio importante. Il portiere di quel Torino è il savonese Valerio Bacigalupo, il quale in occasione della citata amichevole ancora non è riuscito a scalzare dal ruolo di numero uno azzurro lo juventino Sentimenti IV. Tempo al tempo: nel giro di pochi mesi ci sarà spazio anche per lui tra i pali della Nazionale.

Il “Baci” è famoso per le sue parate, ma anche per essere una colonna portante, insieme a Mario Rigamonti e a Danilo Martelli, del cosiddetto “Trio Nizza”, dal nome della via presso la quale i tre hanno preso in affitto un appartamento: un flat sharing ante litteram, insomma.

In città i tre sono conosciuti per le loro goliardate — stiamo parlando di ragazzi di 25 anni, tutti e tre scapoli — e per la loro simpatia, oltre che per la bravura sul campo da calcio. Ecco, il rapporto con la città nella vita quotidiana è un punto fondamentale per capire che cosa sia stato quel Torino e quanto il concetto di calciatore ai tempi fosse diverso da oggi.

Lungi da me voler indulgere in sentimentalismi fini a sé stessi, ma osservare il calcio per quanto manifesta in campo e al di fuori di esso è sempre un ottimo metro per misurare quanto accade nella società in un momento storico.

In quel periodo, l’Italia è appena uscita di una guerra che ha lasciato tanti morti e ferite profonde: l’economia deve rimettersi in sesto e di soldi, in generale, ne girano pochi. La gente, comunque, è suo malgrado abituata a fare grandi sacrifici e a lavorare sodo. Non deve quindi stupire se praticamente tutti i giocatori del Toro hanno un’attività professionale al di fuori di quella calcistica.

Gli stipendi dei calciatori dell’epoca, infatti, non consentono ancora ai calciatori di potersi permettere un ritiro nella gabbia dorata del jet-set. Per questo motivo, uno come Ezio Loik, oltre a correre come un ossesso in mezzo al campo la domenica, prova a vendere vernici. Guglielmo Gabetto e Franco Ossola, che chiudono le stagioni sistematicamente in doppia cifra dal punto di vista dei gol realizzati, hanno invece un bar in città. Gli affari, però, secondo la vedova di Virgilio Maroso, il talentuoso terzino del Grande Toro, non vanno troppo bene vista l’eccessiva generosità dei due attaccanti granata nell’offrire bevande ai tifosi avventori.

Valentino Mazzola, invece, vende palloni. Ecco, proprio sul leader indiscusso e indiscutibile vale fermarsi un attimo, o meglio varrebbe la pena scrivere un intero articolo, ma lo spazio è quello che è.

Cresciuto in una famiglia molto povera, Valentino inizia a lavorare prestissimo, non potendo nemmeno completare le scuole elementari. Operaio all’Alfa Romeo, a vent’anni viene chiamato in Marina, a Venezia, ed è proprio con la squadra lagunare che inizia una carriera calcistica folgorante. Poco più che ventenne, in coppia con Loik viene notato e immediatamente messo sotto contratto da Ferruccio Novo, il presidente che, un pezzo alla volta, sta costruendo una squadra imbattibile.

Numero 10 senza difetti in campo, Mazzola deve far fronte a una situazione coniugale delicata: sposatosi in seconde nozze, ha annullato il matrimonio con la prima moglie, Emma Ranalli, la quale però gli fa causa costringendolo a esborsi sanguinosi. Nel 1942 e 1945, intanto, sono nati i figli Sandro e Ferruccio, con il nome di quest’ultimo che la dice lunga sul debito di gratitudine che i giocatori di quel Toro sentono nei confronti di Novo, una sorta di secondo padre per quei ragazzi.

A riprova dell’affetto del numero uno granata nella vita dei suoi calciatori, la vedova Carla Maroso ricorda in un’intervista di quando Novo la convoca preoccupato nel suo ufficio per chiederle come mai non si decida a sposare “quel suo campione che ha perso la testa” per lei per via di un colpo di fulmine per il quale “non riesce più a tenerlo”. Lo stesso pensiero, probabilmente, attraversa la mente degli avversari che si trovano di fronte Maroso, quando devono fronteggiare un terzino dalla classe cristallina, il quale già trent’anni prima del calcio totale olandese si spinge sull’ala per andare a crossare con il suo piede fatato.

Avanti al suono della tromba

In città i giocatori si muovono in tram — in effetti all’epoca è alquanto dura reperire automobili che abbiano cilindrata di tremila e oltre — ed è con la linea 8 che raggiungono il Filadelfia, il palcoscenico delle imprese del Grande Torino.

Quando si è così superiori agli avversari, tuttavia, può accadere che ci si sieda sugli allori. Al Filadelfia, allora, spetta al trombettiere Oreste Bolmida suonare la carica. Quel suono è una specie di Bat-segnale per Batman e sortisce lo stesso effetto che ha per il Campionissimo di ciclismo Fausto Coppi girarsi indietro il cappellino all’inizio di una fuga solitaria. Allo squillo di tromba, Valentino Mazzola si tira su le maniche. Per i tifosi granata, è il gesto che indica l’inizio di un quarto d’ora di spettacolo; per i malcapitati avversari, è l’inizio di un incubo. Ne sa qualcosa il povero Alessandria, che nel maggio 1948 subisce un umiliante 10–0, con sei gol subiti in meno di 15 minuti.

Proprio il 1947–48 è peraltro l’anno in cui il Toro va a segno 125 volte dopo che anche nella stagione precedente quota 100 era stata superata. Tali cifre siamo abituati a commentarle a proposito del Barcellona e del Real di Messi e di Cristiano Ronaldo, ma suonano più inusuali nel contesto della Serie A, per quanto quel calcio fosse diverso da oggi.

D’altra parte, se il Toro non fosse un’autentica macchina da gol, non si spiegherebbe come mai almeno sei dei suoi elementi — in ordine di formazione da Castigliano a Ossola — viaggino su statistiche realizzative di tutto rispetto per qualsiasi attaccante.

Gabetto, per esempio, chiude con almeno 20 gol in tre delle sette stagioni in granata. E pensare che sono stati i cugini della Juve a cederlo al Toro, considerandolo fisicamente logoro già nel 1941, a soli 25 anni.

Lo zampino della Juve

Abile centravanti che secondo il giornalista torinese Giampaolo Ormezzano: “Toccava tre palloni e faceva tre gol,” Gabetto mi offre invece qui un assist per parlare proprio della Juventus.

Sembra paradossale, ma è stata la FIAT, l’azienda della famiglia Agnelli, ad avere un ruolo fondamentale nella costruzione del Grande Torino vincitore di 5 campionati di fila. Correggo: nel mantenimento, più che nella costruzione.

Nel 1943, infatti, i granata vincono il primo della lunga serie di scudetti — e la Coppa Italia, primi a fare il double — che li avrebbero resi leggendari, ma i tempi sono bui, con una guerra mondiale in corso che blocca un intero paese, Serie A compresa.

Per impedire che i suoi giocatori vadano al fronte, Novo li fa passare, d’accordo con i quadri aziendali, come dipendenti della FIAT, ai tempi considerata industria di guerra che quindi non può cedere i suoi operai all’esercito. E’ qui che il legame tra un presidente illuminato e i suoi giocatori diventa d’acciaio e nonostante le offerte di club più ricchi nel dopoguerra, i ragazzi decidono di rimanere in blocco.

Venti persone, uno scopo comune: continuare a vincere insieme. Per questo, uno come Danilo Martelli terzino-mediano di quel Torino, seppur non titolare, quando sa che Novo vorrebbe cederlo per dargli più spazio lo prega di farlo restare perché è ciò che più desidera e i compagni si dichiarano disposti a decurtarsi lo stipendio affinché si recuperino i soldi per far rimanere in squadra il loro amico, cosa che puntualmente avviene.

Ferruccio Novo, più di un presidente

Un’organizzazione moderna non può essere un’organizzazione di “capo” e “sottoposti”: deve essere un’organizzazione di “associati”. […] Ma ci devono essere persone che prendono delle decisioni o non si farà mai nulla. Ci devono essere persone responsabili della mission di un’organizzazione, del suo spirito, della sua performance e dei suoi risultati. Deve esserci un “direttore d’orchestra” che ne controlla lo “spartito”.

Questa traduzione — mia — viene da Postcapitalist Society, saggio scritto dallo studioso di management Peter Drucker.

Facile trovare persone che si riempiono la bocca con il termine manager, difficile se non impossibile trovare dei manager veri, in grado di avere l’autorevolezza per essere considerati dagli altri dei veri leader. Ferruccio Novo appartiene a quest’ultima specie.

Persona dotata di quella dote rara chiamata buon senso, costruisce la sua squadra con pazienza, partendo dal diciottenne Ossola e andando a ritoccarla con innesti graduali senza la fretta che tanti cosiddetti-manager di oggi dimenticano essere cattiva consigliera.

Aperto ai cambiamenti, spinge per il passaggio all’innovativa tattica del Sistema WM inventata dall’allenatore inglese Herbert Chapman, che spianerà la strada alle tante vittorie dei granata sul campo.

Machiavelli sosteneva che il leader deve essere “largo domandatore” e “paziente uditore del vero”, caratteristiche che sono proprie di Novo, stimato e apprezzato proprio per la capacità di fidarsi dei suoi consiglieri, tra i quali l’ungherese Ernest Egri Erbstein, direttore tecnico del Grande Torino, il cui parere è decisivo per gli acquisti di Loik e Mazzola.

Se è vero l’adagio che “il pesce marcisce dalla testa”, è vero anche il contrario: i veri leader sanno ispirare, scorgere le qualità di ognuno e farle fiorire.

Amicizia, unità d’intenti, lungimiranza, rapporti umani genuini: questi sono i valori per i quali, credo, vale la pena aggiungere al mare della Rete un altro ritratto di quel Toro e queste sono le ragioni per cui quella squadra avrebbe vinto una, due o chissà quante Coppe dei Campioni, se già la competizione fosse esistita. Se, appunto, perché la certezza non l’avremo mai. Tranne quella che fu solo il fato a vincerli.

Articolo a cura di Daniele Canepa

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