Steven George Gerrard

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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9 min readMay 9, 2015

Ritratto di Havard Glenne

Nel 2013 è uscita la seconda autobiografia di Alex Ferguson: tra le cose che non si leggono nel libro, il potere che ancora esercita dentro il Manchester United pur standone fuori. Parlando dei calciatori allenati, Ferguson ha definito folle e lunatico Roy Keane, egoista e petulante Ruud Van Nistelrooy e sciocco David Beckham; dei più recenti, elogiava molto Michael Carrick e si chiedeva perché avesse giocato meno del meritato nella nazionale inglese. Per Sir Alex, a Carrick manca la “spavalderia” di Franck Lampard e Steven Gerrard. A proposito del capitano del Liverpool, Ferguson dice:

“Sono stato uno dei pochi a non considerarlo un top player.”

Detto da un Commendatore dell’Ordine dell’Impero britannico, pesa e può far male all’interessato. Si può dire che è una delle dichiarazioni di Ferguson meno condivise da colleghi e calciatori. Un esempio? Craig Bellamy, ex compagno di Gerrard, scrive nella sua autobiografia:

“Non c’è nulla che non sappia fare: è intelligente, vede le cose prima degli altri e gioca di prima, ha fisico, velocità e potenza…
È un atleta. Ah, segna di testa. tutto in uno. Ho giocato con tanti giocatori forti, ma nessuno è meglio di lui.”

Rendiamo l’idea. Ci sono stati e ci sono giocatori più veloci, intelligenti, potenti e qualitativi di Gerrard, ma la sua combinazione fisico-tattica-tecnica è più unica che rara. Steven è in pianta stabile nella prima squadra del Liverpool dalla stagione 1999–2000, quella di Roy Keane del Manchester United “Player of the year” in Premier League; allora, l’altro migliore nel ruolo era Patrick Vieira (Arsenal). Gerrard impara in fretta, tant’è che Ferguson (sì, il critico di cui sopra) ne parla benissimo alla fine di quella stagione:

“Ha vent’anni, precoce…Buon ritmo, molta forza, legge l’azione e passa di prima. Spero che il Liverpool non abbia trovato il suo Keane…”

Come Vieira, anche Gerrard viene definito un centrocampista difensivo. No, non lo è. È tante cose: è il direttore della semplicità, la copertura del terreno e il passaggio sicuro. Nel 2009 il Liverpool batte il Real Madrid 4–0 e lui fa doppietta. Il numero 5 degli sconfitti, tale Zinedine Zidane, commenta:

“Non ha la pubblicità che hanno Messi e Cristiano Ronaldo, ma li vale all’interno della sua squadra. Gerrard è la stanza dei bottoni, la sala macchine, influenza e in meglio tutti gli altri.
Ho sempre detto che per noi il più importante è Makélélé: senza di lui, io, Figo, Raúl non faremmo quel che facciamo. Per Gerrard vale lo stesso.”

L’inglese mai storce il naso di fronte a questi paragoni, dall’accezione profumata più di ordine che di creazione, più di sciabola che di fioretto: Gerrard non tollera la palla in possesso degli altri e il livello massimo dell’adrenalina è la sua riconquista; il contrasto è per chi vuole giocare, anche il vigliacco dovrebbe farsi coraggio.
Ecco cosa dice Ferguson. Uno dei migliori centrocampisti del mondo che parla di lotta per mangiarsi il pallone, come un mediano di serie inferiore. Spavaldo, ma con la testa sulle spalle. E Zidane? Accostando Gerrard prima a Messi e Ronaldo e poi a Makélélé, pare fare confusione; se l’ultimo conquista palla e la consegna a chi sa tenerla e trattarla, Steven prende, tiene e tratta. Insomma, Gerrard nel Liverpool è Makélélé+Zidane.

Limitatamente all’Inghilterra, Gerrard ha mai vinto il campionato. Non importa che Giggs, Scholes e Beckham ne hanno vinti tanti col Manchester United: lui è rimasto a Liverpool a non vincere, dimostrando di essere migliore di loro nel complesso delle caratteristiche. A 18 anni debutta in Premier League:

Guardavo i tifosi e le loro facce dicevano:

“Chi è questo secco? Ce l’ha il cazzo?”

Il primo gol contro lo Sheffield Wednesday nel dicembre del 1999. Ed è un gran gol, a cui Gerrard dedica una sola riga nell’autobiografia.

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Tante righe, invece, dedicate al suo cervello, spesso per dire che stava per esplodere a causa della tensione accumulata in partita. L’ansia è compagna fissa di Gerrard, lo è anche a Istanbul nel 2005 dopo il 3–0 del Milan nel primo tempo; lui drammatico, romantico e individualista, e il mister Benítez pacato e sereno. Il Liverpool vince la Champions League e l’allenatore aveva già iniziato a cambiare il capitano:

“Hai solo un problema, ti dai troppo da fare.”

Troppa passione, troppo cuore. Benítez consiglia-ordina di mettere la testa davanti al resto: il primo effetto è Gerrard spostato sul centro-destra, col capitano che dapprima accoglie la cosa come una retrocessione. La verità? Da quel momento, “fuori posizione” gioca il miglior calcio della carriera. Il miglior giocatore del Liverpool impara a abbassare il volume di pressing, a smorzare la sempre attiva modalità “uragano”; in mezzo gioca Xabi Alonso, lui è libero da responsabilità di copertura e si avvicina alla porta avversaria. Le risultanti sono assist e gol. Eccezionale fino al 2009, quando Alonso lascia la Premier, e un anno dopo Benítez lo imita andando a sostituire Mourinho a Milano. Con Roy Hodgson in panchina, Gerrard torna in mezzo e il suo rendimento cala; poi, all’inizio del 2011, entra in gioco la sfiga e un problema all’inguine lo stoppa sei mesi.

Non è Maldini, che tifava Juventus, e Baresi, bresciano; non è Raul, che iniziò nell’Atletico; non è Cruyff, che emigrò in Spagna. Non esiste un nitore più romantico del calciatore che alza il trofeo con la fascia di capitano della squadra che tifa. Nella città nativa, nella città dell’adolescenza e della maturità: la storia familiare che si intreccia con quella del club amato, tra talento, sacrificio e progresso. L’unico sognatore superstite nostrano è Francesco Totti, che ha ricevuto poco dal calcio rispetto a quanto dato alla sua Roma.
Gerrard è il talento non trasformato da superbia, gola e accidia, i “peccati” del calcio. Chi combatte ha un desiderio: la vittoria. Lo ami perché resta nel club che ama, lo odia chi (Bayern e Chelsea) non può averlo per lo stesso motivo. Non vinci quanto vuoi (potresti altrove)? Vero, ma istituisci il cliché della lealtà. Quando la Roma crolla, Totti è l’unico a rimanere in piedi anche se è a terra. Questi hanno il cuore grande, come la loro città, sono la generazione innocente. Comunque.
C’è un però. Manca ancora qualche mese, dopodiché Gerrard non vestirà più la maglia del Liverpool. Ha scelto di andare negli USA e poco dovrebbe importare se per interesse personale o di squadra. Uno come lui, dopo quel che ha fatto lui, può. Non smette, lascia il suo club e si accasa altrove. I media, però, scrivono a mo’ di ritiro, con lodi definite e score-stats da ex.

Non è facile sgobbare più di tutti e risultare il più bello da vedere: la disciplina abbinata alla leggerezza razionale. Uno dei migliori calciatori inglesi della storia inizia a Lilleshall, la scuola che seleziona i “top young player”; i provini vanno bene, ma non entra nel gruppetto dei prescelti perché “piccolo per la sua età” (scrive Gerrard nell’autobiografia). Questa la prima fase di crescita: la sofferenza e la voglia smisurata di dimostrare che chi (non) ha scelto si è sbagliato. Ricordate Benítez? Sì, questo può essere il là a dar troppo: tra svolgere le mansioni di altre persone e non avere fiducia al 100% nei compagni, il confine è labile. Il nostro Arrigo Sacchi ha detto:

“Gerrard è un grande calciatore, ma forse non è un grande giocatore.
Ha forza, passione, tecnica, tutto questo è molto importante; d’altra parte, questi sono strumenti per l’obiettivo e non il fine individuale dell’atleta.”

Gerrard ha deciso di cambiare aria perché il Liverpool non garantisce più il posto fisso. All’apparenza un atto egoistico, in sostanza “Se non posso dare tutto, e sempre, non voglio essere qui”. I segnali della discesa c’erano: la perdita di dinamicità e la potenza in fase decrescente; il calendario estenuante, specie in Inghilterra, non agevola. Il turnover sarebbe la soluzione, ma non per lui. Non vuole ammettere che non è il giocatore che era, o meglio, non tollera la sensazione di essere un po’ e non tutto.
Ridisturbando Ferguson, ha mantenuto Giggs, Scholes e Neville per aiutare i giovani del Manchester United; Mourinho “sfrutta” ancora Terry e ha preteso il ritorno di Drogba. Questo tipo di esperienza è inestimabile, è un fondamento del successo. Ma tant’è.

Si legge più del Gerrard che emigra in America, rispetto al Gerrard in “reds” per un quarto di secolo. Sarebbe ingiusto metterlo a fianco di Maldini, Totti e Giggs, l’intera carriera con un solo club; sarebbe ingiusto limitargli la lealtà, trascurando i suoi rifiuti al di là di Anfield Road. Nel 2005 la tentazione improduttiva di Abramovich, colui il quale ora vive il “contrappasso” Lampard. L’uscita di Gerrard è e sarà un’angoscia. Stevie G è “Mr. Liverpool” per Rickie Lambert e “insostituibile” per mister Rodgers. Perdere una figura di primo piano è lasciare la strada vecchia, certa; come i saluti di Sir Alex a Manchester, che hanno ferito coesione e ripartenza dello United. Analizzare le conseguenze esclusivamente dal punto di vista calcistico è limitativo: club e tifosi del Liverpool fanno parte di un microcosmo della città, la reazione emotiva riflette la tendenza sociale del tempo.
La Kop del Liverpool si identifica col suo capitano, cresciuto a Huyton, nel Merseyside, sotto l’austerità delle riforme di Lady Thatcher. Il tifoso rimane aggrappato ai tempi della gioventù, al numero 8 rosso, alla fascia stretta sul bicipite. Non ce n’è: senza di lui andranno allo stagno, perché un pezzo della loro passione andrà con lui negli Stati Uniti. In genere le identità prendono nuove forme, ma non sempre il tempo sistema le cose.

Parlandone male, ma solo un po’, si nota che l’approccio estremamente sanguigno di Gerrard lo ha portato a commettere errori da principiante. Col fuoco in pancia, anche il migliore può risultare imbarazzante per retropassaggi e scivoloni: Thierry Henry, Didier Drogba e Luis Suarez ne sanno e lo ringraziano ancora. Se uno come Paul Scholes passò dal “box to box” al centrocampo, Gerrard ha sempre rifiutato di fare i conti con gambe, corsa e requisiti minimi del ruolo. Parlando di questo, Xabi Alonso dice che con gli anni si impara a pensare di più, si comprende meglio e si esegue con più calma. Evidentemente non è una regola, visto il “La mia testa sta per esplodere” recitato da Stevie G.
Dunque, il “metti troppa passione” di Rafa Benítez era sensato. Benítez, per inciso, afferma che Marek Hamšík ha più intelligenza tattica di Gerrard. Cioè, nel calcio vale tutto finché hai curriculum vitae da esibire col sorriso. Arrigo Sacchi parla del suo giocatore all’interno del collettivo: senza il giusto posizionamento, il “making of”, al calciatore bravo manca l’aspetto fondamentale per giocare ai massimi livelli.

Ebbene sì, Gerrard ha la colpa del non adeguarsi. In un decennio di innovazioni tattiche e strategie difesa+attacco (grazie, Guardiola), è un’anomalia: la brillantezza individuale come cambiamento della fortuna, come oscillazione della forma, come fulmine diretto all’obiettivo. Gerrard ha il merito di veder intitolate a sé stesso partite come la finale di FA Cup 2006, ma questo ha un prezzo; non ridurre i tempi di gioco, non andare in panchina, non cambiare ruolo spesso, lo ha reso meno longevo di Lampard e simili. Se ne sono accorti i compagni, in primis, e gli avversari: il West Ham, l’Aston Villa e persino il piccolo Ludogorets in Champions League.
Il Liverpool di Brendan Rodgers ha la caratteristica dell’unità, giocando con baricentro alto e tenendo palla il più possibile; Gerrard versione 2015 c’entra poco con tutto questo (“Lui è insostituibile” è una menzogna necessaria del mister), specie se non in possesso di tutte le forze, come normale a 34 anni. Il divorzio fa male a entrambi, ma segna la fine del calciatore e non del club: questo vanta molti giocatori giovani di talento (Sterling, Coutinho, Origi…), che possono solo migliorare ascoltando un bravo allenatore. Brutto, forse paradossale da dire: “Gerrard out of Liverpool” non sarà un danno per il progetto del club.

Prima di partire per Los Angeles, c’è tempo per qualche domanda. Strana, ma sostanziale, quella di un ascoltatore di BBC Radio:

È lui il più grande “uomo-squadra” di sempre?

Perché strana? La nozione di uomo-squadra è eccessivamente interpretabile. La loro natura gli dona fedeltà e devozione, sono gli avatar di club e tifosi; è il vecchio calcio, quello della maglietta monocolore indossata dal giocatore del popolo. Oggi pare qualcosa di mistico. Non è intelligente scrivere che il grande giocatore fa vincere la squadra: il management e il suo relativo progetto, la crisi finanziaria contingente, la giovanissima concorrenza sbocciante, gli infortuni…Sono molte le fortune per diventare un top player. Non cambia molto tra giocare tutte le stagioni della carriera con una maglia e giocarne tutte tranne un paio (Del Piero, vero?); alcuni fattori sono incontrollabili e casuali, lungi da opere di fedeltà rara. Più saggio parlare di “uomo sopra tutti gli altri nella squadra”: a prescindere da prestiti in età minorenne e tardive-discutibili avventure esotiche, con quest’accezione comprendiamo tutti i rapporti società-calciatore speciali. Perché se è bello quando le parole significano quel che dicono, è ancora meglio quando vogliono dire quel che dovrebbero.

Cut my veins open and I bleed Liverpool Red

di Giacomo Scutiero (@SCUtweet) Pensa che il giornalista giovane sia un eletto, eletto dal giornalista parente del giovane. Cura la rassegna stampa b/n più minuziosa delle reti interconnesse.

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