Stolpersteine: la storia dimenticata di Rukelie Trollmann

Crampi Sportivi
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6 min readNov 11, 2014

“Gli zingari risultano come un miscuglio pericoloso di razze deteriorate” e “la questione zingara potrà considerarsi risolta solo quando il grosso di questi asociali e fannulloni sarà sterilizzato”. Questo dichiarava Robert Ritter, psichiatra e neurologo di Tubinga, direttore del Rassenhygienische und bevölkerunsgbiologische Forschungsstelle (Istituto di ricerca sull’igiene razziale e la biologia della popolazione). Affiancato nelle sue ricerche dalla puericultrice Eva Justin, che nella sua applaudita tesi di dottorato in antropologia rivelava al mondo accademico tedesco la presenza di un gene estremamente pericoloso nel sangue degli zingari: il “terribile wandertrieb”, l’istinto migratorio.

Germania, anni ’30. Il nazismo rafforzava irrevocabilmente il suo dominio. Diffidenza e pregiudizi millenari verso chiunque conducesse esistenze non omologabili, o incarnasse sembianze stridenti rispetto alla raffigurazione stereotipata dell’ariano, venivano definitivamente legittimati per mezzo d’una presunta obiettività scientifica.
In lingua Romanì il termine Porrajmos significa “devastazione”, o “grande divoramento”. E serve a definire lo sterminio di Rom e Sinti perpetrato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Questo progetto genocida è indicato anche con il termine Samudaripen, che letteralmente significa “tutti morti”. Rom, sinti, zingari balcanici, litautikker, talleri, drisari, lovari, medwasi e kelderari: tutti sbrigativamente schedati — anche dalla storia- come zigeuner: zingari, “indegni individui primitivi” (cit. Eva Justin). Vittime dell’oblio e di un disprezzo ostinato, che pare essergli sopravvissuto nel tempo. Non soltanto di un massacro, che, si calcola, conti 500.000 vittime.

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Tra questi c’era un pugile: Johann Wilhelm Trollmann. Cresciuto con i suoi otto fratelli nel centro storico di Hannover, era figlio di una famiglia sinti. Per la gente era semplicemente Rukelie, dal romanì ruk, che vuol dire “albero”: così soprannominato per via del suo fisico statuario. Era bello Rukelie. E fascinoso, con la sua carnagione ambrata, i suoi riccioli neri. E uno sguardo profondo, intenso, che, agli occhi delle donne, lo rendeva un vero e proprio divo. Le folle impazzivano nel vederlo combattere, con quello stile così eccentrico per l’epoca. Pareva danzare sul ring, con movimenti agili, scatti repentini, colpi veloci inferti ad un avversario sfiancato dalla fatica. Una tecnica che era pura avanguardia, perfezionata soltanto trent’anni dopo da Muhammad Ali. Sembrava che Trollmann riuscisse a rendere elegante, aggraziato quasi, uno sport come la boxe, fino ad allora fatto per lo più di movenze rudi, gesti bruschi. Quel suo incedere plastico, esteticamente impeccabile, discordava del tutto dalla concezione ordinaria del pugilato. Ancor più da quella che ne imponeva il nazismo. Per Hitler infatti “nessun altro sport desta in così alto grado lo spirito di assalto, esige così fulminea decisione, rende forte e flessibile il corpo” (cit. Mein Kampf). Il ring, d’ora in avanti, rappresenta soltanto uno strumento di propaganda razziale. E Rukelie è uno zingaro.

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Aprile 1933. Vengono promulgate le Leggi di Norimberga. Gli atleti ebrei vengono esclusi da qualsiasi competizione sportiva. Il pugile Eric Seelig è costretto a rinunciare al titolo dei mediomassimi. A contenderselo, la notte del 9 giugno, nella birreria Bock di Berlino in Fidicin Strasse, saranno Johann Trollmann e Adolf Witt. In sei round impari tutta la superiorità fisica della razza ariana soccombe miseramente sotto i colpi di uno zingaro. Un affronto intollerabile al nazismo. Tra il pubblico si trovava Georg Radamm, gerarca nazista, presidente del Deutscher Faustkӓmpfe (associazione dei pugili tedeschi). Intuendo l’esito dell’incontro, ordinò ai giudici di gara di decretare la fine del match con un no decision: combattimento nullo. Il pubblico, però, si rifiuta d’esser complice di questa farsa: insorge, esplode di rabbia, fino ad invadere il ring. Per accorrere in aiuto di Rukelie, unico autentico beniamino del popolo. Gli gettano al collo la corona. I nazisti rischiano il linciaggio. E lui viene proclamato nuovo campione dei pesi medi. Spaesato da quella manifestazione convulsa, impetuosa, d’affetto unanime, Johann si commuove. La tensione nervosa, accumulata in quei frangenti di concitazione febbrile, erompe in un pianto di gioia difficile da contenere. In quelle lacrime traspare umanità: ciò che realmente lo avvicinava alla gente.

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Uno zingaro, idolo dei tedeschi: inaccettabile! Quel titolo gli sarà tolto una settimana dopo. Perché — si legge nel comunicato ufficiale della federazione- “le lacrime non sono degne di un vero pugile”. Quel “comportamento pietoso” getta scredito sul pugilato.
La corona dei medi è nuovamente libera. E il 21 luglio 1933 Trollmann dovrà contendersela con Gustav Eder. Una sconfitta annunciata, preparata con cura: le restrizioni dei dirigenti nazisti intimavano a Rukelie di rinunciare al suo stile: non doveva “danzare” per schivare i colpi, non poteva muoversi dal centro del ring, pena la revoca della licenza da pugile. Johann doveva perdere, e basta. Lui lo sapeva. E, come un moderno eroe tragico, decide d’affrontare comunque il suo destino già scritto, consapevole di andare a farsi massacrare. Si presenta con i capelli tinti di biondo ed il corpo cosparso di farina. In cinque interminabili round Rukelie, “l’albero”, resta piantato al centro del quadrato a prendere colpi, con l’unica, significativa, consolazione d’aver messo in ridicolo, almeno per una notte, tutta l’assurda retorica che aveva avvelenato la Germania. Stremato, cadde a terrà, circonfuso da una sorta d’aura: una nube candida di polvere bianca, che s’alzava per aria. Quella notte la sua carriera di pugile si concludeva definitivamente.
Gli anni che seguono sono per Johann un continuo succedersi di umiliazioni. Dai combattimenti per pochi spiccioli alle fiere di paese, alla beffa dell’arruolamento forzato nella Wehrmacht, fino alla decisione dolorosa di separarsi dall’amata Olga, sua moglie, pur di evitare a lei e a sua figlia il dramma della deportazione. Come tanti rom e sinti, fu sottoposto a sterilizzazione. Per poi essere, nel giugno del 1942, arrestato e portato nel campo di concentramento di Neuengamme, presso Amburgo. Qui incontrerà un altro sportivo: l’ex calciatore Tull Harder, nel frattempo divenuto ufficiale delle Schutzstaffeln. Eppure le avversità non terminarono. Riconosciuto da Albert Lütkemeyer, un ex arbitro di boxe, poi arruolatosi nell’esercito, fu costretto ogni sera, dopo il lavoro forzato, ad affrontare in scontri di pugilato gli uomini delle SS, nella derisione generale. Seppur denutrito, e sfiancato dalla fatica e dai soprusi, riuscì, probabilmente con la sola forza dell’orgoglio e della disperazione, a sconfiggere l’odiato kapò Emil Cornelius. Questi, per vendicarsi dell’umiliazione ricevuta, lo fece massacrare di botte, uccidendolo. Era il 9 febbraio 1943.

Soltanto nel 2003, sessant’anni dopo la sua morte, in seguito ad insistenti pressioni dell’opinione pubblica, fu consegnata agli eredi Trollmann la cintura da campione di Rukelie, in una cerimonia colma di tristezza, disertata dai dirigenti del Bund Deutscher Berufsboxer (la federazione dei pugili professionisti tedeschi).
Ancora oggi, il numero totale delle vittime del Porrajmos resta imprecisato. Volutamente abbandonato all’incertezza. Degradati, al pari degli ebrei, alla condizione dell’inumano, Rom e Sinti furono perseguitati dai nazisti, reclusi in campi di sterminio, identificati da un triangolo marrone che li distingueva dagli altri prigionieri. Furono sterilizzati in massa, usati come cavie per esperimenti di eugenetica, condannati ai lavori forzati, e, infine, destinati alle camere a gas. Eppure, nessuno “zingaro” è stato chiamato a testimoniare nei processi ai gerarchi nazisti. Il Dr. Robert Ritter, e la sua assistente Eva Justin, fautori delle teorie discriminatorie sugli zingari, non furono condannati a nessuna pena per insufficienza di prove, e dopo la guerra continuarono a lavorare come psicologi in strutture pubbliche. In Germania, ai pochi sinti e rom sopravvissuti all’olocausto non fu concesso nessun risarcimento, con il solo pretesto che le persecuzioni subite non erano motivate da ragioni razziali, ma dal loro essere criminali.

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L’intera vicenda umana di Johann “Rukelie” Trollmann funge dunque, per la nostra coscienza sociale, da stolpersteine: una pietra d’inciampo, per chiunque abbia la pazienza di percorrere- e proseguire- fino in fondo un sentiero interrotto, qual è la memoria collettiva. Essa getta luce sulla dimenticanza. Ci espone al rimorso, che disturba, suscita disprezzo; quotidianamente offuschiamo, calpestiamo, fino a rimuoverlo. E che pure, continuamente si ripresenta.

Noi Roma e sinti siamo come i fiori di questa terra.
Ci possono calpestare,
ci possono sradicare, gassare,
ci possono bruciare,
ci possono ammazzare-
ma come i fiori noi torniamo comunque sempre…

(Karl Stojka)

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