Storia di chi ama troppo e chi non abbastanza
Se il gioco si chiama Pallamano, un motivo dovrà pur esserci. La regola 9:3 è chiara: “la squadra che segna più reti dell’altra vince l’incontro” e senza palla non si può segnare. È il primo ottobre 2000, al minuto 50 e al secondo 10 della Finale del Torneo Olimpico femminile di Pallamano, al The Dome, nel Parco Olimpico di Sydney, Beatrix Balogh la palla in mano la vorrebbe prendere, solo che non ci riesce, il tentativo di ricezione al volo del passaggio di Beata Siti, fallisce miseramente.
Prima di sapere che fine abbia fatto quella palla, bisogna riavvolgere il nastro di una decina di minuti. La Danimarca, campione olimpico in carica con modalità che fra poco vi saranno più chiare e che, soprattutto, potrebbero sembrare normali, affronta l’Ungheria, medaglia di bronzo ad Atlanta e guidata dalla World Player of the Year e fresca di cittadinanza ungherese, Bojana Radulovics.
Negli undici minuti precedenti ai dieci minuti di nastro riavvolto, Radulovics ha segnato 3 reti e dato via 2 assist nel parziale di 6–2 che porta l’Ungheria a condurre 22–16. Jan Pytlick, 33enne allenatore della Danimarca, che a 26 anni aveva già vinto tre campionati danesi (da allenatore) chiama timeout. Sostituisce la terzino destro titolare, Mette Vestergaard, con Tina Bøttzau e decide di marcare individualmente Radulovics. Le sue scelte non sono efficaci o almeno non subito, tanto che Vestergaard rientra e Radulovics non sempre è oggetto di personali attenzioni.
La difesa 6:0 ungherese è eccezionale con la compattezza di Beatrix Kökény e Ágnes Farkas al centro e gli anticipi delle seconde difensori, la Danimarca è obbligata a tirare dalla distanza e Andrea Farkas, la portiere, para otto dei tredici tiri presi dalla Danimarca nel primo quarto d’ora del secondo tempo, tre di queste parate sono a due mani, come se la stessero riscaldando nel prepartita.
Ora, bisogna fermare un attimo la partita e andare indietro nel tempo, perché le Olimpiadi del Nuovo Millennio, le, a detta di molti, migliori Olimpiadi fino a questo momento chiudono un secolo di pallamano a cui la Danimarca ha dato molto e da cui ha imparato molto. Ad esempio, se non ci fosse la Danimarca non avremmo la pallamano, forse, perché la questione è annosa ed è a tre, tra danesi, appunto, tedeschi e uruguagi; tuttavia, non avremo mai la verità e a noi va bene così, l’importante è che qualcuno l’abbia inventata, un giorno. Siamo però sicuri che senza la Danimarca quella finale si sarebbe sì giocata a Sydney, ma allo Stadio Olimpico e non al The Dome, perché i danesi nel 1918 ritennero che per giocare a pallamano fosse meglio essere in 7 in una palestra che in 11 in un campo da calcio. La sals-håndbold, la pallamano da palestra, era più veloce, piaceva di più al pubblico e non ti faceva soffrire il freddo. Hanno avuto ragione loro.
Quarant’anni dopo, in Danimarca, si sono trovati ad affrontare squadre nazionali composte da sei giganti o presunti tali piazzati sulla linea dei 6m. I danesi (e anche qualche altra nazionale) non sapevano come giocarci, fino a quando introdussero nel gioco della Pallamano il palleggio, strumento essenziale per muoversi nei pochi spazi lasciati dalle granitiche difese avversarie.
Torniamo a Sydney. Al 46’07” il risultato è di 23–17 e Camilla Andersen, centrale e stella della squadra danese, ha subito l’ennesima parata di Farkas e torna in panchina per il cambio attacco-difesa.
Non mollare, Camilla…
Camilla Andersen stava giocando la sua ultima partita con la maglia della nazionale danese. Il motivo non è tecnico, è una delle più forti giocatrici al mondo, né l’età, ha 27 anni. Camilla Andersen è lesbica ed è unita civilmente da circa tre mesi con Mia Hundvin, ala sinistra della nazionale norvegese. Se pensate che Paesi fortemente progressisti dal punto di vista dei diritti civili come quelli scandinavi potessero considerare la relazione tra le due normale, vi sbagliate. Le prime pagine dei giornali, non solo quelli scandalistici, si sprecano.
La prima partita delle Olimpiadi è Danimarca-Norvegia. Il risultato importa a pochi, tutti sono concentrati su Camilla e Mia. Che giocheranno una partita pessima: Camilla chiuderà con 3/14 al tiro e Mia, poco cercata dalle compagne, finirà con 1/3. A dicembre, in Romania, si giocheranno gli Europei femminili e Danimarca e Norvegia sono di nuovo nello stesso girone, qualcosa che Andersen non può più sopportare. Persino Sports Illustrated dedicherà un pezzo alla coppia. L’unico media a comprendere la situazione, se così si può dire, è Dagbladet, uno dei più diffusi quotidiani norvegesi: l’inviato a Sydney fotografa le due mentre si baciano, ma la direzione decide che tutto ciò non merita più menzione.
I tifosi ungheresi esultano, il commentatore ungherese non so cosa dica, tuttavia il suo tono di voce è fiero, sicuro. Sei gol son tanti, ma non tantissimi; un quarto d’ora, nella pallamano, è tantissimo.
Quattro anni prima, ad Atlanta, la Danimarca partecipava per la prima volta ai Giochi Olimpici. Sotto la guida del Maestro Ulrik Wilbek, la Danimarca aveva ottenuto un argento e un bronzo mondiale e avrebbe vinto di lì a qualche mese il Campionato Europeo. Al Georgia Dome, le danesi negarono la tripletta olimpica alla Corea del Sud, recuperando prima un distacco di sei reti (si era, però, solo al 25’ del primo tempo) e poi di due a due minuti dalla fine, portando la gara ai tempi supplementari e vincendola con il risultato di 37–33. Sette delle protagoniste di Sydney c’erano anche negli USA. A Sydney mancava la “signora di ferro”, Anja Andersen, la più spettacolare giocatrice di tutti i tempi, costretta a fermarsi nel 1999 da un problema cardiaco.
https://www.youtube.com/watch?v=GWkVYIHzuME
Magari ascoltatelo senza audio.
Lajos Mocsai, allenatore ungherese, chiama timeout e inverte le posizioni di Balogh e Radulovics: la prima diventa terzino destro, la seconda ala destra.
Lene Rantala, finalmente titolare dopo essere cresciuta alle spalle di Lauritsen e Sunesen, para di nuovo il tiro dell’ala sinistra ungherse Lőwy e Kolling segna ancora in seconda fase, poi, trenta secondi dopo, Lotte Kjærskou, la specialista difensiva, spinge, come suo solito, la terza fase e segna sfruttando il ritardo nel ripiegamento difensivo di Rita Deli, terzino sinistro ungherese che aveva perso palla per un’infrazione di passi.
Dieci minuti dalla fine. 23–22 per l’Ungheria che non segna da quattro minuti e ha il possesso della palla. Deli attacca, cambia di posto con Siti, la quale punta Vestergaard e alza la palla alle spalle di Hoffmann. La palla, in volo, Beatrix Balogh la tocca ma non la controlla, Rantala la recupera e in cinque secondi, tre passaggi e un palleggio, Katrine Fruelund ha pareggiato la gara.
I tifosi magiari spariscono ed entra in scena il grido “Denmark, Denmark” dei danesi con i loro cappelli da vichingi. Dougal Carrie, un australiano vittima del fraintendimento tra l’American Handball, una sorta di squash con le mani, e il Team Handball, il nome internazionale della pallamano, in un suo diario della non voluta esperienza pallamanistica olimpica resta affascinato, tra le altre cose, da un tifoso danese in grado di portare sugli spalti ben 18 birre, da solo, manco fosse il migliore dei gregari al Giro d’Italia.
L’Ungheria si sblocca e si riporta in vantaggio con un tiro di Deli deviato dal muro di Vestergaard e Bøttzau insegna che se non riesci a tirare sulla testa dei tuoi difensori puoi sempre tirare ai loro fianchi, con un sottomano a incrociare (Pytlick avevi ragione, parte uno). Mocsai sposta di nuovo Radulovics nel ruolo di terzino destro, ma l’attacco ungherese si infogna nel tentativo di liberare la sua tiratrice (Pytlick avevi ragione, parte due).
Durante i 4’17” di rimonta, Camilla Andersen è stata pressoché assente: in difesa non gioca e alle azioni di gioco veloce non partecipa. C’è bisogno di lei per portare la squadra in vantaggio. Segna quattro gol consecutivi per la sua squadra: dalla posizione di terzino destro, da quella di terzino sinistro, da quella di centrale, tutti da fuori, proprio dov’era mancata fino a quel momento lei e la squadra (e dove la storia ha fatto sì che i pallamanisti possano palleggiare). Farkas non para più a due mani, anzi, non para più.
Sorridi, Camilla.
L’ultimo dei quattro gol è a 2’45” dalla fine, il 28–26 su rigore. Le ungheresi sono scomparse, Mocsai riporta Radulovics all’ala destra, ma Siti e compagne non trovano soluzione alternativa ad un passaggio verso il pivot, sbagliato, che scatena i contropiede di Anette Hoffmann, autrice degli ultimi tre gol e miglior marcatrice dell’incontro con undici reti. Finisce 31–27 e le facce delle giocatrici sono incredule, alcune associate a gioia, altre a tristezza.
La Danimarca chiuderà il suo ciclo ad Atene, vincendo la terza medaglia d’oro consecutiva (record che la Norvegia al femminile e la Francia al maschile proveranno a eguagliare a Rio de Janeiro), questa volta, per non farsi mancare nulla, dopo i tiri di rigore, ancora con la Corea del Sud. Ah, anche il 29 agosto 2004 ci fu una rimonta: della Corea del Sud, negli ultimi cinque minuti dei regolamentari, parziale di 3–0 e tempi supplementari. Nei tempi supplementari, l’autrice del gol della rimonta all’Ungheria, Katrine Fruelund, segna tre gol di fila per recuperare il vantaggio coreano e portare la gara ai rigori. Certe abitudini non si perdono.
E l’Ungheria? Neanche l’Ungheria ha perso certe abitudini. Nel 2003, in Croazia nella Zagreb Arena strapiena di tifosi ungheresi, durante la finale dei Mondiali, le magiare vincevano di sette gol a sette minuti dalla fine della partita. La Francia pareggiò la partita con un rigore a tempo scaduto di Leila Lejeune e la vinse ai supplementari, 32–29.
C’è un’altra cosa per cui dobbiamo essere grati ai danesi: la loro è l’unica letteratura nella quale si trova una poesia dedicata alla pallamano. L’ha scritta Klaus Rifbjerg nel 1956 e, ovviamente, si intitola Håndbold, potete leggerla qui. Vi consiglio di non perdere tempo a tradurla, è incomprensibile o solo difficilmente spiegabile. Come una rimonta subita dall’Ungheria.
Sergio Palazzi — Allenatore di pallamanisti, sognatore a occhi aperti, malato di sport. Vorrebbe scrivere, nel frattempo legge e si domanda perché “il lettore” non possa essere una professione. A chi lo invita a trovarsi una ragazza, risponde che LA Pallamano è femminile. Sta lavorando per non giustificarsi più così.