Storie di 4–4–2 che hanno affondato il Real

Crampi Sportivi
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5 min readMay 25, 2016

Il quattroquattrodue è come quelle trappole per topi dei cartoni animati. Quelle a molla, con il pezzo di groviera ben posizionato, in modo tale da far finire la coda del ratto incastrata non appena questi tenti di cibarsene in fretta e furia. Ogni allenatore sa che prima o poi farà la fine del topo, ma quasi tutti cercano inizialmente di stasarne lontani tentando di procurarsi il proprio cibo — la vittoria — in maniera alternativa e più spettacolare. Magari con un bel quattroduetreuno o con un solido trecinquedue.

Il quasi di cui sopra ha nomi e cognomi spesso conosciuti nell’ambiente, perché la stampa e il bar li condannano nella celebrazione, li schifano nel trionfo, li denigrano nel successo. Hector Cuper e Diego Pablo Simeone fanno parte di questa categoria non protetta. Sono come quei ratti che dichiarano a priori di volere quel groviera indigesto e che per raggiungerlo corrono il rischio di far scattare la molla. Tanto che per giustificare il primo si è iniziato a parlare di Trabajo, suerte y silencio, così come per il secondo di Cholismo.

Entrambi argentini, entrambi partiti dal basso, entrambi duri; o meglio, verticales. Sabato, a distanza di quindici anni, da Milano a Milano, il secondo tenterà nell’impresa non riuscita al primo: vincere la Champions League nel modo meno scenografico possibile. Il Real dei ricchi e brillantinati, in un primo tempo, è stato condanna, sia per l’uno che per l’altro. Ma ora lì, in quello stadio che per Hector subito dopo la delusione è stato casa e che per il Diego entrenador lo diventerà, è tempo di portare in gloria quel modulo tanto infame.

Ragionando per sommi capi, il quattroquattrodue del Cholo è il segno dei tempi che cambiano e si evolvono; di un calcio più tattico, più fisico, più tutto. È atipico, unico, ermetico, tailor-made. Più che nelle gambe è nella testa dei suoi, che probabilmente riuscirebbero a giocare una gara anche con undici bende sugli occhi (più n bende per le riserve). Tuttavia, scendendo nel particolare si possono ritrovare parecchi elementi dell’Hombre Vertical nella concezione di calcio (e di vita) di Simeone, che nell’unico incrocio tra i due è stato spietato con il rivale. La data? 5 maggio 2002.

Prima linea

La trincee di Cuper e Simeone presentano molti elementi comuni, a partire dei terzini: tutti over 30 all’anagrafe, di grande gamba e molta sostanza. Non tipini tecnici e delicati alla Marcelo o Maxwell, per intenderci. Angloma e Carboni come Juanfran e Filipe Luis. In un ruolo delicato e ambivalente entrambi i condottieri preferiscono affidarsi a uomini duri, già fatti, in grado di sostenere da soli le linee verticali. Soprattutto perché gli esterni alti sono in realtà trequartisti mascherati.

Al centro Cuper metteva due ragazzi tutta garra, Argentina e ruvidezza: Roberto Ayala e Mauricio Pellegrino, l’antieroe di Milano. L’uomo del rigore sbagliato. L’ultimo. Al di là dei demeriti del centrale mancino, l’accostamento con Godin e Gimenez sembra azzeccato a metà in questo caso. Due argentini con due uruguaiani. Due modi di difendere simili per efficacia ma non per stile: con un lungo e un corto per l’Hombre Vertical; due medi ma terribilmente fisici per il Cholo. Il valore aggiunto di Simeone sono le reti di testa di Diego, già marcatore nella finale persa col Real nonché uomo-Liga nel 2014.

Seconda linea

Il centro del mondo corrisponde al tratto distintivo delle due squadre. Si sa, il centrocampo è luogo delicato, in cui la giocata tante volte è soggettiva e legata alle caratteristiche singole del giocatore. Non è sempre possibile inserire delle figurine in delle celle prestampate su particolari zone fisse del campo. Per Cuper così non lo è stato; per Simeone un po’ di più. O meglio, il Cholo ha stampato 3D i suoi giocatori per farli combaciare esattamente con le forme delle sue cellette vuote, dopo il primo restyling Atletico post-Diego Costa, per capirci.

Baraja è il giocatore che, con le dovute proporzioni, ha aperto la strada a Xavi. Accanto a lui, formalmente, nessuno. È Gabi il suo alter ego biancorosso, ma nell’Atletico la cooperazione a metà spesso è la chiave per risolvere le partite con un lampo — vedi vittoria col Barcellona. Koke fa sia da esterno che da centrale, Saùl solo da esterno ma in maniera atipica, Augusto — il nuovo — disegna. Nel Valencia è Kily Gonzales la fascia pura, mentre Mendieta e Aimar agiscono sotto mentite spoglie nel centro destra. Due giocatori meravigliosi all’epoca, difficilmente ritrovabili nell’attuale Atletico, che sopperisce alla mancanza di talento puro con i valori di cui sopra. Il secondo quattro del quattroquattrodue prende strade diverse per i due uomini.

Gaizka faceva cose di questo tipo.

No ma non raddoppiate su Mendieta, tranquilli; quel poveretto lo sta ancora cercando

Pablo di questo.

È un replay, e il tempo è rallentato artificialmente, ovvio; nonostante questo si sente chiaramente lo swish del difensore che va lungo, dritto

Terza linea

Nel gioco dei reparti il parallelismo più lampante tra il Valencia del 2001 e l’Atletico attuale è quello legato a Fernando Torres e John Carew. Nel caso in cui il Cholo decidesse di giocare con il Niño in appoggio a Griezmann, l’equazione offensiva tra le due formazioni sarebbe presto fatta. Con uno squilibrio nettamente a favore dei colchoneros perché, anche solo a memoria, il confronto del francese con il suo alter ego Juan Sanchez Romero risulterebbe abbastanza impari. Nel caso invece in cui sia Carrasco il prescelto, allora tutto cambierebbe. Ma finora Simeone ha sempre preferito il biondo nelle gara importanti (Barcellona e Bayern), quindi tutto lascia prevedere che a partire negli undici di San Siro — suo ex campo, tra l’altro — sarà Fernando Torres.

Il Niño dal passaggio al Chelsea vive la sindrome da Space Jam. Come Charles Barkley, pare che dei mostri venuti da chi sa dove gli abbiano rubato il talento e — soprattutto -– la capacità di fare barcate di gol. Se non fosse un semidio per la metà biancorossa di Madrid probabilmente avrebbe già fatto la fine di un Jackson Martinez qualsiasi, passato da lì solo per far vendere volumi di magliette. È proprio da qui che nasce l’accostamento con Carew, il gigante norvegese che non segnava mai (2 reti in 18 presenze in quella Coppa) ma che si sbatteva a più non posso per aprire varchi ai suoi compagni più talentuosi. Ad esempio Juan Sanchez Romero, capocannoniere valenciano della Champions 2000–2001 con cinque centri.

Ecco Torres:

Qui si sente chiaramente il rumore sordo del palo

Qui Carew:

“Io? Passavo di qui”

Qui Charles Barkley:

Nell’Atletico c’è invece un Griezmann esagerato a sfruttare gli spazi, a fare da MVP nel quattroquattrodue cholista. Il francese più forte del momento — per diretta ammissione di Patrice Evra, con tanti saluti al compagno juventino Pogba — in questa stagione europea è già a quota sette. Con buona probabilità sarà il suo sinistro l’arma che Simeone sceglierà per vincere le forze della Corona ispanica.

Cuper ora allena la Nazionale egiziana, dopo fallimenti nella Liga, in Serie A e coinvolgimenti fin troppo diretti in storie di camorra. Se mai al Cholo verrà in mente di riguardare l’Hombre Vertical di inizio Millennio per lucidare al meglio i meccanismi il suo schieramento, dobbiamo solo ricordargli una cosa: non proprio tutte le storie hanno il lieto fine.

Articolo a cura di Lorenzo Dragoni

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