Studente, turista, campione olimpico
“Puoi dormire sul divano, ti presto un pigiama. Se ti svegli prima di me prepara il caffè. Ah, ti ho iscritto al torneo olimpico di tennis.”
Il rapporto tra il tennis e le Olimpiadi moderne è sempre stato conflittuale. Espulso già nel 1924 e assente per i successivi cinque decenni, il gioco con palla e racchetta fu però tra i nove sport che caratterizzarono la primissima manifestazione a cinque cerchi della nostra epoca. A portare a casa entrambe le più importanti medaglie tennistiche, in quell’edizione sperimentale, fu un universitario irlandese di venticinque anni.
Certo, all’epoca gli atleti olimpici erano per definizione non professionisti, ma questa vicenda va al di là di quella del semplice atleta amatoriale che, sconfiggendo suoi pari grado, conquista il gradino più alto del podio: entra nel grande libro dello sport. Per l’esattezza in quel capitolo che tratta storie a metà tra l’impresa e la buffa coincidenza, storie nelle quali non si sa mai dove e quando la verità ceda il posto alla leggenda.
Lo stadio olimpico di Atene nel 1896.
Così come le Olimpiadi di Rio de Janeiro, alle quali manca giusto un mesetto, anche quelle di Atene 1896 avevano degli spettatori. Tra quegli spettatori c’erano studenti che, allora come oggi, sfruttavano il termine delle lezioni per farsi una vacanza all’estero, magari approfittandone per guardare un po’ di sport. E tra di loro c’era John Pius Boland, figlio di una delle famiglie più ricche di Dublino, la quale dopo un lungo girovagare del rampollo tra le università della Gran Bretagna gli aveva pagato la retta per il Christ Church College di Oxford.
Proprio lì, affisso a una bacheca del college, nel 1894 John aveva trovato un manifesto che pubblicizzava la pazza iniziativa di istituire di nuovo i giochi olimpici dei tempi antichi. Colto dall’entusiasmo incontrò l’autore del manifesto, lo studente greco Konstantinos Manos, e si decise ad aiutarlo a diffondere l’idea in un incontro alla Oxford Union. Manos parlò, vari membri dei club di atletica lo ascoltarono abbuffandosi di pollo, salsicce, omelette, toast e caffè: nulla di eclatante accadde, ma i due rimasero in contatto.
Un paio di anni più tardi, Konstantinos Manos — che nel frattempo era entrato nel comitato organizzatore dei Giochi — invitò l’amico a passare le vacanze pasquali da lui ad Atene, per assistere così agli incontri delle “sue” olimpiadi. Boland partì da Bonn, dove si era trasferito, e dopo un mese passato a girovagare per l’Europa insieme ai compagni di corso — una birra a Monaco di Baviera, uno spettacolo di Shakespeare, l’Opera di Vienna: la classica vita da interrail post-semestre insomma — raggiunse la capitale greca.
Mi piace immaginare che l’accoglienza ricevuta sia stata non troppo diversa da quella che, ai giorni nostri, riceverebbe un coetaneo di Boland nella medesima situazione: “Quello è il divano-letto, ti presto un pigiama, se ti svegli prima di me prepara il caffè. Ah, ti ho iscritto al torneo olimpico di tennis”. L’ultima notizia lasciò di sasso l’irlandese: non solo non prendeva in mano una racchetta da anni, ma le uniche lezioni serie che avesse mai ricevuto risalivano alla scuola dell’obbligo. In più, dal momento del trasferimento a Bonn la sua routine di esercizio fisico si era interrotta bruscamente.
Per la seconda volta allora, a far fare alla loro storia quel piccolo passo in più fu una festicciola. Manos ne organizzò infatti una per il 6 aprile con alcuni suoi amici, nel corso della quale uno di essi, Dionysios Kasdaglis, riuscì a far breccia nelle ritrosie di Boland. Gli iscritti al tabellone erano davvero troppo pochi, gli spiegò, e anche la sola presenza di un partecipante in più avrebbe aiutato l’immagine dei Giochi la cui gloria si stava tentando di rinverdire.
Kasdaglis non esagerava, perché delle varie discipline nelle quali ci si sarebbe cimentati da lì a pochi giorni il tennis era quella più disorganizzata. Innanzitutto la commissione olimpica aveva un’idea fin troppo vaga di quali fossero le regole di questo sport, e aveva perciò indetto una sotto-commissione che se ne occupasse (della quale faceva parte lo stesso, volenterosissimo Manos). La sotto-commissione però era stata un fallimento e il massimo che era riuscita a ricavare erano stati tre campacci fangosi, a metà tra terra ed erba, nel nuovissimo velodromo di Neo-Phaliron.
Dei campioni dell’epoca, nessuna traccia. Se l’appello li aveva raggiunti, i vari Harold Mahony, Robert Wrenn e il conte Voss avevano finto di non sentire, preferendo restarsene comodi in Costa Azzurra. La lista definitiva degli iscritti al torneo di singolare contava, oltre all’ignaro Boland, soli dodici altri partecipanti. Oltre a una serie di giocatori di club amatoriali greci in cerca di facile gloria — le Olimpiadi si rivelarono in effetti l’evento dal maggior numero di spettatori mai registrato fino ad allora — gli organizzatori pescarono atleti giunti per partecipare ad altre gare: un australiano campione dei 1.500 metri, un lanciatore di martello inglese, un corridore tedesco e un sollevatore di pesi ungherese con una conoscenza men che rudimentale del gioco del tennis.
Rimaneva però per Boland il problema di come scendere in campo. La sua attrezzatura da tennis era sepolta in qualche armadio, migliaia di chilometri più a Nord, e così il massimo che gli riuscì di fare fu correre in fretta e furia al bazar, per comprare a poco prezzo dei calzoni e una racchetta. Di scarpe adatte però neppure l’ombra, così il ragazzo irlandese finì per partecipare al primo torneo olimpico di tennis indossando scarpe di cuoio col tacco.
E trionfò, in scioltezza, tentennando soltanto al momento di scendere in campo per la finale: il suo ultimo avversario sarebbe stato proprio Kasdaglis, colui che lo aveva convinto a partecipare e che quasi certamente ne sarebbe uscito sconfitto. A un passo dal ritiro per i sensi di colpa, l’onore e il senso dello sport che animavano la manifestazione pervasero Boland, spingendolo a disputare l’incontro e ad infliggere al suo mentore un secco 6–3 6–1.
Non era finita però, perché a causa dell’infortunio di uno dei già pochi partecipanti Boland era stato coinvolto anche nel torneo di doppio. In una coppia dalla nazionalità mista con il tedesco Friedrich Traun, sconfitto da lui stesso al primo turno del singolare, l’irlandese raggiunse un’altra finale, ancora contro il povero Kasdaglis, e ottenne un’altra vittoria, stavolta in rimonta, per 5–7 6–3 6–3. La premiazione fu officiata il 15 di aprile, il giorno della magnificente cerimonia di chiusura.
Sotto gli occhi di una folla oceanica re Georgios consegnò ad ogni vincitore la medaglia, che allora era d’argento anche per il primo classificato, un attestato e alcuni ramoscelli di ulivo colti ad Olimpia. Frastornato dall’emozione, Boland scese dal podio infrangendo il protocollo che prevedeva di non voltare mai le spalle al sovrano. Rimediò con un inchino e poi si allontanò, mentre le ragazze del luogo facevano a gara per domandargli ed ottenere qualche foglia dai ramoscelli d’ulivo, dei quali rimase presto ben poco.
La finale di doppio e un secondo oro inaspettato per Boland.
Quattro anni dopo, John Pius Boland non si presentò alla seconda edizione dei Giochi Olimpici moderni. Non difese le proprie medaglie, non giocò più a tennis. Fu parlamentare, avvocato, scrittore, fondatore dell’università nazionale, patriota, marito e padre. E più di tutto, fino alla sua morte nel giorno di San Patrizio del 1958, fu un grande appassionato di mitologia greca. Chissà se si accorse mai di esserne in qualche modo entrato a farne parte.
Raoul Ruberti — Tra calcio, tennis e atletica ha guardato sport a sufficienza per alienare un paio di fidanzate. Non sa se questo lo autorizzi a parlarne. Ha scritto per Tacchetti di Ferro e Falso Nueve, scrive e viaggia per Ubitennis. Crede che le biografie dovrebbero essere brevissime e divertenti, più di questa.