Succede solo a chi non ha paura

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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5 min readNov 21, 2016

Saranno passati venti, trenta minuti. Non era la stessa sensazione di quando termina una serie televisiva: quello è più un senso di vuoto, d’ingiustificato smarrimento. Ci siamo passati un po’ tutti. Quella volta è stato diverso. La sensazione era simile, ma non paragonabile.

A pensarci bene, tuttora non saprei trovare una descrizione a quello stato d’animo. Fatto sta che restai in silenzio. Venti o trenta minuti di calma piatta, d’irrigidimento totale. Mai avrei pensato che un libro o qualsiasi altra esperienza potesse catapultarmi in tale stato di trance. Non lo pensavo allora, mai avrei pensato di poterlo riassaporare a distanza di così poco tempo.

Ho conosciuto la storia di Samia Yusuf Omar in un pomeriggio d’inizio agosto, su un traghetto che mi portava dalla Grecia verso Bari, leggendo “Non dirmi che hai paura”, scritto da Giuseppe Catozzella (Feltrinelli, 2014). Samia non aveva l’equipaggiamento adatto, un paio di scarpe adatte, una muscolatura adatta, un’alimentazione adatta e un posto adatto dove allenarsi. Si è sempre adattata a una vita inadatta a proteggere quella che era la sua unica aspirazione di vita: diventare una campionessa d’atletica.

Proprio come Mo Farah, atleta britannico di origini somale, come lei. È la sua fonte d’ispirazione. In piena regola con le usanze dei teenager occidentali, infatti, la sua effigie campeggia sulla parte di muro in corrispondenza del suo letto. È il suo punto di fuga nella stanza che condivide con i suoi cinque fratelli, incastrati con precisione matematica. Non c’era spazio per vivere, solo per dormire. Come fossero tessere di un puzzle tutte uguali.

La foto di Mo Farah, a dire il vero, è soltanto uno sbiadito ritaglio di giornale. Tutto era sbiadito a Mogadiscio: lo era il cielo, i muri dei palazzi “bucherellati dai proiettili o mezzi abbattuti dalla granate”, i pensieri e anche i ricordi. La polvere da sparo aveva reso tutto inespressivo, come fosse uno scatolone chiuso, direbbe Don DeLillo.

Nella capitale somala tutto passava da Al-Shabaab. Il regime insurrezionalista islamista era (e purtroppo lo è tuttora) una sorta di imbuto, largo quanto la cruna di un ago, attraverso il quale passava tutto ciò che è concesso dalla legge coranica.

Ed è proprio sotto questo denominatore, di passione e restrizione, che si colloca anche la storia di Fatim Jawara. Eccola ancora quella maledetta sensazione, quella che pensavo di provare soltanto una volta nella vita. Mi sbagliavo.

La ragazza giocava a calcio. Faceva il portiere. Scusate la dissonanza di genere, può risultare forviante, ma in questo caso non riuscirei ad associarla all’elemento saldato a una monovolume. Difendeva la porta dei Red Scorpions di Serekunda, uno dei centri abitati più grandi del Gambia. Si, il Gambia. Lo stato africano che dal 1996 si lega indissolubilmente al nome di Yahya Jammeh, presidente molto vicino ai piani alti di Boko Haram (organizzazione terroristica jihadista sunnita), che dal 2015 ha proclamato la nazione una repubblica islamica.

“Nonostante tutto…”

Nonostante (quasi) dieci secondi, Samia c’è riuscita. Se non a vincere, almeno a partecipare alle Olimpiadi. A Pechino, nel 2008, la diciassettenne non è andata oltre la prima batteria dei 200 metri. La giamaicana Veronica Campbell-Brown è volata via un po’ troppo in fretta per lei. Nell’atletica dieci secondi, in una distanza così breve, sono un’eternità.

È la vita vera, che nei giorni precedenti alla gara a cinque cerchi, è volata via in un attimo. Prima di quella trasferta eccellente, la giovante atleta non aveva mai abbandonato i confini del suo paese. Come Rocco Parondi che, nella celebre pellicola di Luchino Visconti, dalla Lucania arriva per la prima volta a Milano, tutto sembra incredibilmente più vivo; allo stesso modo, per Samia la Cina apparve come la metà mancante del mondo che fino a qualche istante prima sembrava irraggiungibile. Ogni spostamento o una semplice notte in albergo si tramuta da banalità in eventi fuori dall’ordinario. Dietro quel 32”16, che per altro rimarrà il suo personal best nei 200m, si celano una serie di “nonostante tutto” che innescano un ricalcolo immediato di quel tempo. Il tutto ha poco a che fare con i numeri.

Guardando lo score finale del girone B dei Mondiali femminili U-17 in Azerbaijan del 2012, probabilmente anche Fatim avrà pensato che quel punteggio impietoso andava interpretato con un’angolazione ottimista. Le tre sconfitte — contro USA, Francia e Corea del Nord — i 27 gol subiti e i due segnati non erano di certo un ruolino di marcia di cui andare fieri. Ma lei a soli quindici anni, seppur come terzo portiere, a quel Mondiale era stata convocata. Qualcuno aveva potuto prender nota su un taccuino, pieno zeppo di altri nomi di belle speranze, delle sue potenzialità. Perché, nonostante tutto, la calciatrice di potenzialità ne aveva, eccome.

Nel novembre dello scorso anno, infatti, la giovane aveva esordito in nazionale maggiore in un match amichevole contro le Glasgow Girls FC. A soli diciotto anni, proprio nella partita contro le scozzesi, aveva anche neutralizzato un calcio di rigore.

Il mare d’inverno

Bello, no? Pensare che qualcuno riesca a trovare le forze per riuscire a sbriciare quello che si trova dall’altra parte della staccionata. Ognuno ha la sua, per carità. Ma ce ne sono alcune più insormontabili di altre ed è per questo che riuscire a metterci il naso fuori non dev’essere niente male.

Le due sportive avevano assaporato un po’ di vento non contaminato da polvere da sparo. E tutto, da quel momento, ha iniziato a prender forma in funzione di una vita diversa. Adatta, a misura d’atleta. Samia sognava di poter raggiungere sua sorella Hodan, nel nord Europa, o di potersi allenare con il suo mito Mo Farah, sulle piste londinesi. Fatim, invece, auspicava di poter crescere in Germania, e potersi misurare con il calcio che conta.

Se sei nato in Somalia o in Gambia, come in decine di altri Stati africani, hai una sola soluzione per uscire dai confini nazionali: il Viaggio.

“Il Viaggio è una cosa che tutti noi abbiamo in testa fin da quando siamo nati. Ognuno ha amici e parenti che l’hanno fatto oppure conoscono qualcuno che l’ha fatto: è come una creatura mitologica che può portare alla salvezza o alla morte con la stessa facilità. Nessuno sa quanto potrà durare. Se si è fortunati due mesi; se si è sfortunati anche un anno o due…”.

Samia, forse per bocca di sua sorella, dice questo. Probabilmente non sapeva bene a cosa sarebbe andata incontro. Perché, nel Viaggio, “se si è sfortunati” non si torna indietro. I chilometri, circa ottomila, scorrono con una lentezza pachidermica. Ad ogni metro percorso un briciolo di dignità umana lascia il corpo del clandestino, costretto, oltre che a dover gestire la fame e la sete, a trattenere il fiato: non c’è molta aria da respirare, e molto spesso sa di feci o di piscio di quello che ti sta a fianco.

Fatim Jawara e Samia Yusuf Omar, per dar luce al proprio futuro hanno viaggiato nel buio di un cassone, di notte. Hanno squarciato il deserto e hanno visto persone che vi sono state inghiottite, solo per essere scivolate dal retro del fuoristrada, come fossero sacchi dell’immondizia. Hanno resistito alle spietate percosse dei trafficanti, sapendo che lo scoglio più grande da dover superare fosse solo uno: il mare.

“Ecco, la guerra per esempio mi ha portato via il mare. Però in compenso mi ha fatto venire voglia di correre. Perché grande come il mare è la mia voglia di andare. La corsa è il mio mare…”

La guerra ha portato via il mare a Samia e a Fatim. La guerra ha fatto venir loro voglia di vivere. Il mare, però, la vita gliel’ha tolta. Questo succede solo a chi non ha paura.

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