Sur la route

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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7 min readJul 25, 2015

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Giovedì 23/07 siamo andati a seguire la diciottesima tappa del Tour de France: da Gap a Saint Jean de Maurienne. 186,5 km di strada del Tour, tra cui il Col du Glandon. Abbiamo attraversato l’intero percorso della tappa in ammiraglia, insieme a le coq sportif, tra migliaia di persone in festa e i migliori ciclisti del mondo. Abbiamo provato a raccontarvi la nostra esperienza.

Tutti i colori del Tour

Il Tour de France è una festa, come tutte le corse ciclistiche che riescono a raggiungere una dimensione così pervasiva, attraversando un territorio e il suo popolo in qualsiasi direzione. È una festa che si srotola per chilometri di strada, attraversando paesi, campagne e montagne e la cui durata ogni giorno va molto oltre i pochi minuti del passaggio della corsa. È una festa che inizia nelle notti precedenti, tra i camper dei tifosi accampati sulle montagne, che esplode nel villaggio di partenza al mattino e con l’infinito passaggio della carovana pubblicitaria, che si completa con la corsa, dal primo fuggitivo all’ultimo dei velocisti, e prosegue nei brindisi, nelle chiacchiere e nei colori. E sono questi ultimi quelli che ti restano negli occhi, quando torni a casa dal Tour de France, è questa la ricchezza che fa del Tour qualcosa di unico nel ciclismo e forse nello sport in assoluto: i suoi colori.

Il racconto della Grande Boucle è una storia a colori, un’impressione visiva così forte che arriva a tinteggiare anche le immagini in bianco e nero del suo passato eroico. I suoi colori, il Tour, li sfoggia in ogni istante: dalle quattro maglie dei leader delle classifiche, ordinatamente allineate sulla linea di partenza di ogni tappa, con l’Arc de Triomphe che fa capolino, in filigrana, sul ventre di chi le veste (un punto dove l’occhio non arriva quando si è in sella, perché quell’Arco non è necessario vederlo con gli occhi quando è già l’obiettivo da raggiungere con tutta la fatica possibile) agli addobbi con cui sono vestite le pacifiche e inconsapevoli mucche al pascolo sulle montagne di Francia, in ogni angolo del paesaggio alpino e nella follia del popolo che accoglie la corsa.

Uno pensa al Tour e pensa giocoforza al giallo, al colore della maglia più ambita al mondo: al giallo del sole che picchia duro sulla schiena dei corridori e degli spettatori, ai petali dei girasoli che agitano i campi attraversati dalla gara, ai bicchieri pieni di birra che si consuma a litri in ogni bar di questi piccoli paesi sulle Alpi. Qui la corsa è un elemento fondante della storia locale, che impone di uscire a mettersi lungo la strada ad attendere: dai bambini delle colonie estive agli anziani delle case di riposo, sino agli operai in pausa che escono dalle fabbriche per posizionarsi in attesa. Per poi tornare, dopo il passaggio, al giallo paglierino delle birre, ai bicchieri nei bar che tremano sui tavolini perché il terreno stesso è attraversato dalla scossa della gara che passa. Quando il bar si svuota di bevitori e baristi, e i bicchieri restano sui tavoli, gialli e luminosi, contagiati dall’energia tellurica.

Dove non arriva il giallo, il Tour de France si fa verde: è il colore che non ti aspetti e che invece ti ritrovi ad ogni curva, che fa capolino tra i prati e le bandiere. Verdi sono le magliette che uno sponsor ha distribuito a piene mani lungo il percorso, verdi gli striscioni dei tifosi francesi che inneggiano ad eroi della corsa come Thomas Voeckler e Pierre Rolland (nel giorno in cui quest’ultimo si trova animatore di una fuga lunghissima, di quelle che riescono ad incendiare le fantasie del popolo del ciclismo), verde è il cartellone che un’intera famiglia ha composto insieme, come da tradizione locale, e piazzato sui primi tornanti del Col de la Morte, elencando uno dopo l’altro i componenti del Team Europcar proprio nel giorno in cui questa squadra ha annunciato la più che probabile chiusura a fine stagione. Il tratto deciso e l’aumento dei caratteri lasciano trasparire una smaccata simpatia per Bryan Coquard, non certo un uomo di montagna, anzi uno di quei corridori che già qui ci arrivano staccati e con la lingua di fuori, ma con un sorriso dato dalla visione di quel cartellone. Verde come gli occhi, chiarissimi e glaciali, di Christophe Le Mevel, che dopo una carriera alle spalle da uomo-squadra e faticatore di montagna, oggi accoglie gli ospiti del Tour nel suo camper, ribattezzato Reveil Matin come il luogo da cui partì la prima Grande Boucle oltre un secolo fa. E mentre presenta la corsa, Le Mevel guarda dritto negli occhi il suo interlocutore, e in quel verde si affacciano tutti i colori incontrati pedalando per anni sulle strade del Tour.

Le maglie del Tour de France sono qualcosa che si dà ormai per scontato, ma la storia di questa corsa è talmente lunga e ricca, che ciò che vediamo oggi in strada non è per forza ciò che è sempre stato. Il leader del Gran Premio della Montagna, ad esempio, non ha sempre vestito una maglia rappresentativa: è stato solo 40 anni fa che il direttore di corsa, Félix Lévitan, ha deciso di omaggiare il miglior scalatore in gara vestendolo con i colori del suo idolo di infanzia, il pistard Henri Lemoine e la sua maglia a pois, che esordì sulle strade francesi proprio il 25 luglio 1975. Bianco a pois rossi, come l’orizzonte della strada che sale verso il Glandon, affollata di camper e di tifosi appassionati, una marea bianca punteggiata dal colore dei cappellini e dei gadget della carovana. Bianca come la strada illuminata dal sole dei Lacets de Montevernier, il dedalo di tornanti che precede l’arrivo di Saint Jean de Maurienne, dove ogni corridore rappresenta un pois nella sua ultima ascesa di giornata. Una salita che celebra l’impresa di Romain Bardet che sul traguardo fa esplodere di gioia i tifosi francesi e svela il sipario sugli altri colori del Tour, quelli del cuore del suo popolo. I tricolori francesi sventolano in festa, con il blu del cielo alpino e dei costumi dei tifosi-supereroi, con il rosso del costume del Diablo — istituzioni al punto da aver dato vita a degli imitatori — con il bianco del viso esausto di Romain Bardet che riflette tutta la sua gioventù. La stessa di una corsa che ha 112 anni, ma che è ancora tutta da scrivere e colorare, come una pagina bianca.

L’identità

Per sicurezza a fine tappa la Marvel gli ha comprato i diritti di “Capitan France”.

Percorrere le strade di una tappa del Tour de France non significa solo partecipare ad una corsa ciclistica, ma avere a che fare con una componente umana sfuggente, difficile da descrivere: l’identità; e in particolar modo l’identità nazionale della Francia. Nonostante il respiro internazionale, che ha da sempre caratterizzato questa manifestazione — ultimamente sconfinata oltre la Francia — il Tour de France continua ancora oggi, a distanza di oltre un secolo, ad essere l’occasione principale per i francesi per celebrare la propria identità nazionale. L’evento sportivo si sublima in una narrazione identitaria che risulta evidente quando vi ci partecipa per la prima volta, soprattutto se non si è francesi. Tutta la complessa macchina organizzativa del Tour de France è finalizzata a mettere in scena una grande festa collettiva, ampliando il coinvolgimento dello spettatore dalla corsa in sé a tutta la sua scenografia: il passaggio della gigantesca carovana, le persone che attendono a bordo strada per ore, le bandiere che sventolano i colori di ogni paese, le ammiraglie degli sponsor che vengono salutate ed applaudite come al passaggio dei corridori. Tutta una serie di elementi che trascendono la competizione stessa e formano la narrazione dell’evento, un contenitore in grado di definire un identità collettiva diffusa.

Partecipare al Tour de France, percorrendo per intero una tappa dalla partenza fino all’arrivo, significa assistere ad un momento in cui i francesi, oltre a narrare la propria storia agli occhi del mondo, riconquistano simbolicamente i proprio spazi, affermando la loro presenza ad occhi internazionali. Una sensazione che diventa ancora più evidente quando il Tour passa per quei piccoli e sconosciuti paesini di montagna.

Provate ad immaginare per un attimo cosa significa per una famiglia francese — che magari vive in un paese di duecento anime — essere attraversati dal terzo evento sportivo più seguito al mondo. Per brevi attimi, per quelle persone, il passaggio della corsa rappresenta il momento per irrompere al centro della scena: per essere nella storia, per affermare, nel senso demartiniano del termine, la propria presenza, e l’esser-ci nel mondo.

“Le Tour est un moment d’appropriation symbolique du territoire national. La majorité des Français encore ruraux restent confinés dans leurs régions, prisonniers de la lenteur.” Ollivro J. (2000)

La cosa più interessante — e per certi versi unica — è che questa riconquista degli spazi, e ri-affermazione della propria identità, si manifesta attraverso un rapporto continuo con l’altro. Al Tour de France non è così improbabile vedere un francese di una certa età che offre da bere e da mangiare ad un ragazzo belga od olandese. Tutto concorre a ristabilire un equilibrio sottile: l’egocentrica affermazione di un’identità nazionale — quella francese — ma anche la volontà di costruire un rapporto paritario con degli stranieri che si recano in Francia ogni Luglio da tutte le parti del mondo. Questo ricongiungimento, sceneggiatura di una pièce teatrale che si ripete all’infinito nel tempo, ha i suoi luoghi simbolo: le montagne.

“La nature se personnalise. Les cols deviennent des géants que l’on interpelle. Des monstres que les héros mythologiques vainquent” Gabouriau P.( 1995)

Il famoso pubblico dei camper, che viaggia per centinaia di km, mosso unicamente dall’irrazionale volontà di partecipazione. Le montagne sono per eccellenza i luoghi simbolo della grande bouclé, ma è solo grazie alla partecipazione del pubblico che diventano i componenti perfetti di una mitologia, di una memoria collettiva.

Vedere in televisione migliaia di persone lungo i tornanti di una salita fa un certo effetto, ma attraversarle di persona, bucando in ammiraglia una marea umana in festa ti fa capire meglio cosa rappresenta il Tour de France: non una corsa a tappa, ma un racconto, anzi meglio: una poesia vivente.

Articolo a cura di Andrea Minciaroni e Filippo Cauz, illustrazione di Andrea Chronopoulos

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