Talento a canestro

Crampi Sportivi
Crampi Sportivi
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16 min readSep 4, 2015

Da giovane mi è capitato di frequentare, con scarsi risultati, i campi da basket romani. Tra i ragazzi più “dentro al giro” si sentiva spesso nominare Andrea Bargnani come la next big thing della porta accanto. All’epoca disputava con successo il campionato di B2 con la Stella Azzurra, e non appena il Mago ha iniziato a mostrare il proprio talento al piano superiore, ho iniziato subito a seguirlo con quel misto di eccitazione e speranza che solitamente si dedica ai “giovani talenti”. La realtà è che per chi segue uno sport, qualunque sport, scegliere dei giovani grezzi e non ancora esplosi, da seguire e accompagnare nel corso della carriera, è un piacere unico. Quale occasione migliore per ammirare la migliore gioventù europea che gli Europei che partono domani in Germania? Accanto alle stelle più brillanti, che nessuno vi deve raccontare, c’è una banda di ragazzini pronti a ricevere il testimone. Noi di Crampi Sportivi ne abbiamo scelti 8, non i migliori, semplicemente quelli che più ci interessavano. Alcuni di questi hanno già un peso in NBA, altri ci arriveranno, qualcuno magari non rispetterà le promesse, perché se il talento è una cosa bellissima, la realtà è un’altra cosa.

Dennis Schröder — “The German Rondo”
di Francesco Zanza

Gli Europei 2015 segnano l’inizio di un passaggio del testimone nella nazionale tedesca di basket. Dalle meravigliose mani di “Wunderbar” Dirk Nowitzki (nel caso la Germania non riuscisse a qualificarsi per le Olimpiadi di Rio 2016, questi Europei saranno l’ultima occasione in cui Dirk indosserà la canotta della nazionale tedesca) a quelle di Dennis Schröder, playmaker degli Atlanta Hawks con la passione per lo skateboard e unico giocatore Nba ad avere l’Umlaut nel cognome.

Che belle le telecamere anni 90, fanno molto video per Paperissima.

Dennis è nato a Braunschweig, una bella città della bassa Sassonia, il 15 settembre 1993, figlio di Axel, ingegnere tedesco, e Fatou, parrucchiera nata in Gambia, e sviluppa le sue due passioni: il basket, nelle giovanili del Braunschweig, e soprattutto lo skateboard («Lo skateboard ha aiutato la mia velocità di piedi ed il mio equilibrio»).
Negli anni giovanili le sue doti cestistiche, sia dal punto di vista atletico che dal punto di vista tecnico, erano sotto gli occhi di tutti, ma ciò che frenava Dennis dalla completa esplosione era il suo carattere spigoloso e capriccioso.
La vita di Dennis cambia radicalmente all’età di 16 anni a causa di un tragico evento: la morte del padre a causa di un infarto. Da quel drammatico momento Dennis capisce che deve diventare un uomo, imparare ad ascoltare gli altri (in particolare mamma Fatou che è la responsabile del ciuffo biondo che Dennis ha in testa) e lasciar perdere con alcuni suoi atteggiamenti infantili che ne impedivano il definitivo salto di qualità.

La stagione decisiva è la 2012–13 in cui Schröder con la divisa del Braunschweig viene eletto Most Improved Player della Bundesliga e Cestista tedesco Under 21 dell’anno (qui all’All Star Game tedesco). In America il suo nome inizia a circolare tra i vari scout come potenziale erede tecnico di Rajon Rondo e come “steal of the draft” per la lotteria del giugno 2013. Schröder desta un’ottima impressione al Nike Hoop Summit e viene scelto alla 17 del draft 2013 dagli Atlanta Hawks attratti dal suo atletismo e dalla sua maturità data dall’aver giocato, a differenza dei suoi coetanei americani che stavano al college, contro vecchi marpioni e, soprattutto, dalle difficoltà incontrate nel corso della sua vita.

Dopo un primo anno di apprendistato durante il quale si è fatto notare per il suo ciuffo biondo e per la sua sfrenata passione per la maionese (ha confessato di mangiare sempre un panino con hamburger di tacchino pieno di maionese prima delle partite), Schröder è esploso in questa stagione; il suo ruolo era quello di play del secondo quintetto, quello deputato a dare la scossa decisiva alla partita nella sorprendente annata 2014–15 degli Atlanta Hawks. Ruolo perfetto per lui, capace di queste prodezze contro tali Duncan Tim e Leonard Kawhi, con un picco di 22 punti e 6 assist proprio contro Rajon Rondo e i suoi Dallas Mavericks (la squadra di Dirk Nowitzki che dopo la stagione con Rondo quest’estate avrà come play il suo erede tecnico).

German guy can dunk.

Questi europei casalinghi sono per la Germania l’ultima grande occasione per regalare un’altra medaglia a WunderDirk dopo il bronzo ai Mondiali del 2002 e l’argento agli Europei 2005, e Schröder si candida ad essere l’uomo giusto al posto giusto per i sogni di questa nazionale. Sempre che la maionese non “impazzisca”.

Giannis Antetokounmpo — Enigmatikounmpo
di Valerio Coletta

Giannis cresce. Non come giocatore, nella comprensione del gioco o nel bagaglio tecnico. Non come uomo, nella gestione della pressione o nella dedizione al lavoro. Giannis Antetokounmpo cresce in altezza, forse anche mentre leggete. A dicembre del 2014 era 6’10’’, a fine stagione 6’11’’ (2 metri e 11). Non so se abbia smesso o se ne abbia ancora, ma questo dettaglio è significativo per un ragazzo del ’94 con quel tipo di corpo e con quella coordinazione, uno che ancora non è “finito”. Nel Filathlitikos Basketball Club (la squadra greca in cui ha iniziato a giocare) e nella Grecia U-20, Giannis giocava in tutte le posizioni, iniziando l’azione e stoppando il centro avversario.

Giannis can fly.

In Nba, nei Bucks, viene fatto giocare come ala piccola, probabilmente la posizione a lui più congeniale, ma la sua identità tattica non è ancora chiarissima e questo ci porta all’affermazione forte che si fa di solito a metà di questi pezzi brevi: Giannis Antetokounmpo è un mistero. Questa sua identità cestistica in divenire, le sue potenzialità illimitate, i difetti e le storture disorientanti ne hanno fatto ovviamente un giocatore di culto. Il freak greco (è il suo soprannome, non mi permetterei mai), il nuovo Durant, il basket del futuro senza ruoli, il playmaker che tocca il ferro senza saltare, l’incontro esplosivo tra scuola greca, fisico nigeriano e mentalità Nba, tutto questo sbrilluccichio di aspettative e speranze che tutti proiettiamo sul simpatico ventenne di Atene ci fanno tenere d’occhio la programmazione tv della Grecia a questi Europei, soprattutto perché in una competizione FIBA, quando il tuo avambraccio è lungo come il braccio della maggior parte dei tuoi avversari, le partite tendono ad essere interessanti.

Ma come dicevo, è soprattutto la metà oscura a farci parlare continuamente di Giannis, tutti i suoi limiti ancora evidenti nell’approccio alle partite, la discontinuità, l’immaturità nelle scelte, tutto legato sicuramente alla sua giovane età, ma in gran parte anche al suo essere “The Freak Greek”, un giocatore diverso dagli altri, ancora in trasformazione. Il groppone di interrogativi che circondano il greco ne fanno una bomba ad orologeria, uno che da un giorno all’altro potrebbe schioccare le dita e cominciare a dominare sul serio, e che non lo stia per fare proprio a questi Europei? Noi ne saremo testimoni.

https://www.youtube.com/watch?v=Sy-nlFmW6a8

Era l’estate del 1986 quando Dale Brown, il vulcanico coach di LSU, arrivò a Mosca in piena guerra fredda con in testa una missione impossibile, reclutare per la sua squadra collegiale il più forte giocatore amatoriale al mondo, il centro dello Zalgiris Kaunas Arvydas Sabonis. Per due mesi Brown rincorse Sabonis in giro per l’Europa cercando disperatamente un contatto diretto. Arrivò perfino a scrivere sia a Gorbaciov che a Reagan pur di mettere le mani sul Principe del Baltico, ma fu tutto inutile. I dirigenti sovietici avevano deciso che Sabonis avrebbe giocato le Olimpiadi di Seul e che fino ad allora non sarebbe potuto andare all’estero. Sabonis atterrò a Portland, la squadra che lo aveva selezionato al Draft del 1986 (cosa che lui scoprì anni dopo), nel 1995 ormai trentenne e con i tendini dimenticati nei freddi baltici. Un’anno dopo, durante la sua prima serie di playoff contro i Jazz di Karl Malone, la moglie diede alla luce l’ultimo dei suoi discendenti, Domantas.

https://www.youtube.com/watch?v=NSCSd0sfb9I

Nato a Portland ma cresciuto cestisticamente in Spagna, il più piccolo della seconda generazione Sabonis ha esordito in ACB a sedici anni, nelle file dell’ Unicaja Malaga, squadra con la quale ha anche successivamente calcato il palcoscenico più illustre d’Europa, quello dell’ Eurolega. Domantas però, pur giocando quasi due anni nella città andalusa non ha mai firmato un contratto professionistico, rimanendo sempre formalmente iscritto alle selezioni giovanili della formazione spagnola. Il primo che si accorse di questa particolarità è Tommy Lloyd, il primo assistente di Mark Few a Gonzaga, uno che la sa lunga quando si parla di reclutare oltreoceano. E infatti si catapulta a Malaga per parlare con Sabonis Junior Junior Junior (il soprannome è di Sheed e quindi è sacro).

Forse per evitare di ripercorrere i sentieri accidentati del padre, forse perché gli stranieri che passano a Spokane spesso e volentieri poi finiscono al primo giro del Draft, ma soprattutto perchè farsi qualche anno lontano da casa a vent’anni non è poi così male, Domantas accetta l’offerta di Gonzaga e entra ufficialmente alla corte di Mark Few. Gli Zags, dopo anni di purgatorio mid-major, sono tornati la prima forza della WCC e l’anno scorso si sono riconfermati sconfiggendo nuovamente in finale i mormoni di Brigham Young. Sono una numero due entrando al torneo e vengono sconfitti solo da Duke dopo una partita tiratissima.
Sabonis nel suo anno da rookie, nonostante in quintetto gli venisse preferito il gigante polacco Przemek Karnowski, dalla panca porta un costante contributo ai suoi Bulldogs, con quasi dieci punti e sette rimbalzi di media a partita. Ma non ci sono solo i numeri: quando Mark Few effettua il cambio tutto est europeo della sua frontline il ritmo di Gonzaga cambia immediatamente. Al tonnellaggio del polacco subentra il dinamismo esplosivo del baltico, che non raggiunge le cime tempestose del padre ma ovvia con l’energia e una notevole tecnica personale di base un atletismo non supereroistico. Da bravo lituano infatti Sabonis ha l’Enciclopedia Britannica del post basso direttamente inserita nel corredo genetico, l’appartenenza alla nobile stirpe da cui discende fa il resto. Non stupisce così la sua duttilità in campo, la capacità di trovare il canestro con tocco vellutato nel pitturato, di muoversi senza palla e di fare tutte quelle cose importanti con la naturalezza di chi realmente non ci pensa ma le fa e basta. Come raccogliere rimbalzi a grappoli con la sola imposizione delle mani, con fare rodmaniano, toccando la sfera infinite volte senza mai staccare le suole da terra.

Vince per due volte consecutive la classifica di miglior rimbalzista negli Europei Under 18 e un paio di mesi fa, in una partita contro l’Ucraina nell’Europeo Under 20 giocato a Lignano Sabbiadoro, ne ha tirati giù ventotto, scrivendo il record dei campionati. Due settimane dopo debutta con la maglia della nazionale maggiore, divenendo il lituano più giovane di sempre a difendere i colori della propria nazione, superando così il Raptor Valanciunas.
Coach Kazlauskas lo ha incluso nei dodici che partiranno per Lille, dove debutterà in una competizione ufficiale. Un’ulteriore occasione per fare esperienza in vista del ritorno tra gli Zags per il secondo e forse ultimo anno collegiale prima del salto verso il professionismo. Perchè Junior Junior Junior vuole arrivare in Nba il prima possibile, magari evitando la trafila che tocco al Senior. Che le colpe dei padri non ricadano sui figli.

https://www.youtube.com/watch?v=hDs95rskMPk

Quest’estate Furkan Korkmaz ha già disputato sia i mondiali U19 dal 27 al 5 luglio, vincendo il bronzo, che gli Europei U20 dal 23 Luglio al 5 Agosto, vincendo l’argento. Forse Coach Altman se lo è portato a Berlino tipo cornetto portafortuna, dato che i molti impegni suggerivano un po’ di riposo, o forse il ragazzo è proprio forte (è finito nel All-tournament team di entrambe le competizioni — WTF) e si merita un posto nei 12. Vediamo che dice il video qui sotto.

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Oh wait… c’è anche un Furkan Korkmaz dj. Comunque il ragazzo è fortissimo.

Classe 1997 — non può ancora guidare — ma con 203 cm per 77 kg, ha il fisico perfetto per essere plasmato come un pezzo di pongo nelle mani della franchigia NBA che se lo accaparrerà nei prossimi anni. Ad oggi è una guardia tiratrice, ruolo che gli è congeniale per chili e mani (educatissime, al mondiale U19 ha tirato con oltre il 50% da tre) e che gli permette spesso di attaccare contro gente più bassa di lui, essendo sopra i 2 metri. Paradossalmente potrebbe crescere di altri 10 cm nel prossimo futuro e, andando a mettere massa, potrebbe giocare tranquillamente sotto il ferro. I mock draft, ad oggi, lo quotano intorno alla quattordicesima posizione del prossimo draft, che per un 17enne è tantissimo; forse proprio per questa facilità incredibile di fare punti, unita ad un fisico così malleabile (potrebbe diventare una point forward, oppure il nuovo Ilyasova, oppure il nuovo nuovo Bargnani, oppure quello che vuole) e anche come etica del lavoro se ne parla molto bene. Probabilmente non avrà grande spazio nella squadra di Coach Ataman, avendo davanti a lui anche il compagno di club Cedi Osman (classe 1995, anche questo è da tenere super d’occhio) più avanti nelle gerarchie e nella crescita cestistica. Potrebbe essere usato nei momenti in cui la Turchia ha bisogno di punti — può creare tranquillamente crearseli dal palleggio — più che di difesa, dove ancora paga proprio perché 17enne. Però ragazzi, se dovesse entrare in campo contro l’Italia urlate per primi che scommettete per lui nel 2020 una stagione NBA ad almeno 15 punti di media. Se così non sarà nessuno verrà a cercavi, ma se ci doveste azzeccare (e le possibilità ci sono), fareste la figura di quello giusto.

https://www.youtube.com/watch?v=7T0dhGx43gA

Quando vedono una partita della nazionale croata, i riflettori di tutto il mondo della pallacanestro hanno, giustamente, gli occhi puntati su quel fenomeno che è Mario Hezonja, esterno dal talento smisurato scelto alla numero 5 dell’ultimo draft dagli Orlando Magic.
Ma le fortune della nazionale di Perasovic dipendono anche, se non soprattutto, da un altro “Golden Boy”, anch’egli scelto ad un draft Nba, il 2014 e anch’esso scelto dagli Orlando Magic (scelta numero 12, poi subito ceduto agli ineffabili Philadelphia 76ers) ossia Dario Saric.
Saric è un predestinato: nato a Šibenik, la città che ha dato i natali al Mozart della pallacanestro Drazen Petrovic, l’8 aprile 1994, a soli 16 anni Dario è stato eletto MVP degli Europei Under 16 vinti dalla Croazia in Montengro e nella stagione successiva con il KK Zagabria ed ha ottenuto il premio di Miglior Giocatore del “Città di Roma” Euroleague International Junior Tournament ( insieme tra gli altri proprio a Mario Hezonja all’epoca sedicenne…), consentendo al KK di partecipare e vincere le Final Four dell’Euroleague IJT. Saric nella finale di questo torneo realizzò una tripla doppia con 19 punti segnati, 14 rimbalzi catturati e 10 assist.

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Provate voi a fare questa cosina a 17 anni contro quello pterodattilo di Kirilenko.

Dario è un’ala di 2 metri e 8 con il trattamento di palla di un esterno ma che, a differenza dello stereotipo del lungo europeo tiratore, ama lottare sotto canestro. Il tiro da lontano non gli manca ma non è la sua arma principale.
Era inevitabile che gli osservatori Nba mettessero gli occhi addosso a questo ragazzo; inoltre la provenienza non poteva passare inosservata nell’America del basket: la Croazia, nella sua breve storia, ha fornito tanti giocatori alla Lega migliore del mondo, basti pensare a Toni Kukoc o al mai troppo compianto Drazen Petrovic.

Per qualsiasi atleta croato, non importa lo sport praticato, Petrovic è il modello di riferimento. Sì, perché Drazen non era il Mozart della pallacanestro solo per il suo smisurato talento con la palla a spicchi; Drazen aveva un’etica del lavoro, una renitenza alla sconfitta e una sfacciataggine tipicamente slava (almeno un tratto che caratterizza tutti i paesi dell’ex Jugoslavia è rimasto) che gli ha consentito di ottenere il successo in America nonostante l’iniziale scetticismo che sfociò in vero e proprio ostracismo. Dario Saric ha subito l’influenza dell’aura di Petrovic non solo perché è nato nella sua stessa città, ma soprattutto perché Predrag Saric, suo padre, è stato compagno di squadra di Drazen ed ha potuto trasmettere al figlio attraverso i suoi racconti la lezione del Mozart croato: il talento, per quanto cristallino, da solo non basta. Ma il talento accompagnato da una ferrea etica del lavoro, da una feroce voglia di superare i propri limiti e da una faccia tosta che serve sempre, può permettere di farti raggiungere, insieme all’altro “Golden Boy” Hezonja, traguardi insperati come una medaglia d’oro agli Europei che alla Croazia è sempre mancata.
In fondo Dario è o non è un predestinato?

Rudy Gobert — The block brother
di Gioele Anni

Vi è mai capitato di aprire la portiera del nuovo SUV e trovare i sedili totalmente ricoperti di pop-corn? A Rudy Gobert sì. Nella sua prima stagione NBA si dimenticò di portare ai compagni di squadra i donuts, le ciambelle che piacciono tanto a Homer Simpson. Una leggerezza imperdonabile per un rookie. E così Richard Jefferson, uno dei veterani di quegli Utah Jazz, decise di fargliela pagare.

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Da allora sono successe molte cose. Ai Mondiali del 2014, per esempio, il ragazzotto dei pop-corn ha sfoderato una prestazione maiuscola nei quarti di finale contro la Spagna. Memorabile soprattutto la stoppata stereofonica, in un possesso decisivo, al venerabile maestro Pau: attacco respinto e padroni di casa cancellati.

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Poi, a una prima stagione NBA poco esaltante, è seguito un secondo anno sorprendente. I Jazz decidono da subito di puntare su Gobert e un altro lungo di belle speranze, Derrick Favors: spediscono Millsap ad Atlanta e liberano spazio nella front-line per i giovanotti. Che in breve si fanno conoscere come “The block brothers”: insieme coombinano per quattro stoppate a notte, nettamente la miglior coppia della Lega. Gobert gioca tutte le 82 partite di regular season (37 volte in quintetto), ricama statistiche rispettabili (8.4 punti, 9.5 rimbalzi a sera) e finisce addirittura quinto nella classifica di “Difensore dell’anno”. Per i mormoni di Salt Lake City è “The Stifle Tower”, letteralmente “La Torre che ti reprime”, in assonanza con la “Eiffel Tower” del suo Paese d’origine.

Gobert è un classe ’92 dalla sruttura fisica mostruosa: 221 cm l’apertura di braccia; e in piedi, con le braccia alzate, arriva a soli 24 cm dal ferro. Senza di Jo Noah, il reparto lunghi francese (composto anche da Ajinca, Lauvergne e Florent Pietrus) avrà bisogno di tutto il dinamismo di Rudy: molte chances di ricnofermasi campioni passano per la sua definitva consacrazione. Rudy Gobert non è più una promessa, ma già una solida realtà: al crepuscolo della generazione dei Nowitzki e dei Gasol, in questi Europei può candidarsi come uno dei nuovi lunghi dominanti d’Europa.

Achille Polonara e Amedeo Della Valle — I dioscuri
di Gioele Anni

Uno si chiama come l’eroe omerico detto “Divino”. L’altro ha un nome antico che significa “Colui che ama dio”. Achille e Amedeo, Polonara e Della Valle. Chi più di loro può sognare l’Olimpo europeo? I dioscuri della nostra Nazionale hanno storie distanti che s’incontrano a Reggio Emilia nell’estate 2014. Amedeo, classe ’93, è un predestinato. Figlio di cestista, a 18 anni lascia l’Italia per l’America: un anno di high school a Findley Prep e due di college a Ohio State. Nel 2013 è l’MVP degli Europei under 18: vince il quarto con la Spagna col più classico dei “tiri ignoranti” d’italica genia (Basile docet).

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Ma nel 2014 qualcosa si rompe: lascia Ohio State dove gioca poco, approda a Reggio per i playoff ma non vede mai il campo. Sopravvalutato? Basta un anno per fare silenzio: presenza fissa nelle rotazioni di coach Menetti, esce dalla panchina e porta qualità in regia, intensità difensiva, bombe da 3 (33% abbondante su quasi 200 tentativi). A gara-6 di finale scudetto trascina i suoi con 25 punti, ma non basta.

Con Amedeo si dispera Achille, alla prima stagione in Emilia dopo Teramo e Varese. Polonara è un 4 tattico moderno, bel fisico e buona mobilità di piedi, ideale per i pick and pop che aprono il campo nella small ball del 2015. La sua carriera è metodica e razionale: guardando le statistiche si legge un crescendo che va di pari passo con la maturazione tecnica e tattica. Ma qualcuno aveva visto in lui il DNA della stella: nientemeno che un santone come Sergio Tavčar. «Stoppa, prende rimbalzi, parte in contropiede, tira da fuori quando serve, vede la partita e distribuisce assist oltre a trovarsi sempre al posto giusto al momento giusto», aveva detto di lui dopo averlo visto giocare. Conclusione: «Se un talento del genere fosse nato una trentina di anni prima sull’altra sponda dell’Adriatico la Jugoslavia avrebbe avuto non uno, ma due Kukoč». Così il soprannome per Polonara è pronto: Polonarač. Un altro nomignolo di Achille è Polon-Air: perché white man can jump. Il ragazzo lo ha dimostrato vincendo la gara delle schiacciate 2014 saltando a occhi chiusi, con la canotta sugli occhi come Ravanelli. E di recente, nel torneo di Trieste, ha inchiodato così:

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Riguardate bene da dove parte, e quando parte. «Al momento giusto». Mettiamoci comodi: con Achille e Amedeo, insieme ai veterani e agli “americani”, quest’anno ci divertiamo.

Gulliermo Hernangomez — Willie
di Sebastiano Bucci

Cromosomi, Dna e geni: a volte fuorviano, a volte confermano. In questo caso siamo alla conferma: papà Guillermo è anche lui centro, gestendo una carriera da onesto mestierante in Acb ( Madrid e la Coruña); la madre è Margarita Geuer, oro europeo con la nazionale iberica a Italia 93’. Guillermo jr, per brevità e per evitare ripetizioni d’ora in poi Willie, è il volto esordiente che accompagna l’ennesima recita della “Generacion Dorada” ai prossimi Europei itineranti.

Un nome che magari potrebbe sfuggire agli spettatori più distratti, ma che sta pian piano salendo agli onori della cronaca anche oltre Oceano. La chiamata al Draft lo scorso giugno con la numero trentacinque da parte dei Sixers è stata la ciliegina sulla torta di una stagione davvero positiva. Sia per lui, che per il suo compagno a Siviglia, Porzingis c’è New York nel destino (con i Knics abili a chiudere per il centro spagnolo), ma a differenza del lettone che sicuramente giocherà nella grande mela il prossimo anno, il Real Madrid — proprietaria del contratto dello spagnolo — vuole continuare anche per la prossima stagione a godersi le prodezze di questo canterano.
Che abbia i numeri e le stigmate del predestinato è dato incontrovertibile, e conferme le parole del suo allenatore nella Sub 19 spagnola, Luis Guill.

“ In Spagna è difficile incontrare pivot, è lui è sicuramente il miglior prodotto nazionale da almeno dieci anni a questa parte”.

In un basket sempre più incentrato sul concetto di small ball Hernangomez è un eccezione di livello e peso specifico importante: colpisce, nonostante la giovane età, la sapienza con cui riesce ad occupare l’area nella metà campo offensiva e il fatto che riesca ad andare profondo per procurarsi falli e tiri liberi (che converte in maniera più che dignitosa) gli fa guadagnare ottimi voti sui reporting ufficiali.
Ha del clamoroso invece la sua capacità di uscire dalle situazioni di pick n’roll, offrendo sempre soluzioni diverse alla guardia e sfruttando al meglio le sue capacità di taglio. Legge così bene queste opportunità che spesso i rimbalzi vengono presi più per una migliore posizione sul parquet che per capacità fisiche, da migliorare in una macchina così giovane e che deve sicuramente andare in rodaggio (Willy non gracile, ma nemmeno fisicamente esplosivo). Di contro sostanzialmente non prova ne si arrischia a variare il suo range di tiro, anche se sporadicamente si è visto provare qualche conclusione dalla distanza.

In difesa i limiti son invece più evidenti . Molto spesso se cambia la marcatura non è in grado di restare sull’uomo e viene facilmente battuto in velocità. A scanso di equivoci non stiamo parlando di un giocatore lento, ma il lavoro di piedi ( che è più che discreto dall’altra parte del campo) deve essere incrementato nella metà campo difensiva.
Inoltre leaks escono anche quando si tratta di sfruttarlo come rim protector: il ragazzo non è (ancora) un intimidatore difensivo, e a volte sembra mancare d’intensità per tutti i 40’ minuti.
Il suo ruolo sarà di contorno, un’esperienza che gli servirà per crescere e maturare accanto a un mito come Pau Gasol. Magari già da Rio, dove potrà assumere ruoli più importanti per la squadra di coach Scariolo.
Aspettando l’America, e il suo Dioscuro lettone.

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In una delle sue migliori perfomance europee vengono demoliti due come Bobby Jones e Jerome Morgan: tangente la loro sofferenza fisica contro un vero centro di ruolo.

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